er capire cosa significhi Gianmarco Pozzecco per i baskettari e soprattutto perché lo trovate in copertina questo mese, vi sveliamo un piccolo segreto. Ad aspettarlo per questa chiacchierata, oltre a noi di Undici, c’erano quasi un centinaio di persone. L’abbiamo organizzata ai Giardini Fava di Bologna, dieci minuti a piedi dal PalaDozza, il palazzo che è stato casa sua due volte, alla Fortitudo, sul parquet e in panchina. Il luogo perfetto per metterlo a suo agio, perché come si intuisce anche dalle vibrazioni di chi si è presentato al campetto, Pozzecco era e resterà il giocatore della gente, forse molto più del ct della Nazionale. Arriva insieme ai suoi assistenti. «Questa squadra di matti è il mio grande orgoglio», confessa tra una foto e l’altra. Sorride, sempre professionale, ma si vede che è un po’ scosso. Era appena passato a trovare Achille Polonara, uno dei suoi ragazzi, a cui hanno diagnosticato una leucemia mieloide. Con una voce lievemente spezzata confida che Achille lo ha colpito per la sua forza di volontà. Così lo facciamo accomodare e gli mostriamo un piccolo regalo.
Ciao Poz, come stai? Abbiamo deciso che questa chiacchierata la condurrai tu, proprio come facevi sul parquet in transizione. Quindi ti abbiamo portato una scatola dei ricordi, pesca dove vuoi.
Ah, ogni oggetto è su di me?
Certo, vedo che hai preso una camicia bianca? Ti ricorda qualcosa?
Dovevate strapparla (ride, ndr). La verità è che io di cagate nella mia vita ne ho fatte tante. Di alcune ne sono quasi fiero, di altre meno, ma se avessi strappato la camicia quando ho fatto l’assistente all’Armani anziché quando ero a Varese nel derby contro Cantù, avrei fatto peggio. Sarebbe stato veramente un delitto, strappare un indumento Armani è oltraggioso e quindi diciamo che non ho superato il limite (ride, ndr). Quella camicia strappata coincide con un derby vinto a Varese, in un’avventura, la prima da allenatore in Serie A, partita benissimo e finita maluccio.
In generale in tutte e tre le piazze (Varese, Capo d’Orlando e Bologna) in cui hai allenato, oltre che giocato, non è andata proprio perfetta mente, forse sei arrivato un po’ acerbo come allenatore…
Sì, è vero. Ho iniziato ad allenare in Serie A2 a Capo d’Orlando in due annate diverse dove il primo anno è stato facilitato dal fatto che ero arrivato in corsa in una squadra che non aveva mai vinto. C’è stato un cambiamento psicologico all’interno della squadra portato dal cambio di coach. L’anno successivo insieme a Peppe Sindoni (direttore sportivo, ndr), genio della pallacanestro, siamo riusciti a portare in Sicilia Soragna, Basile e Nicevic, e quindi diciamo che il compito è stato abbastanza semplice. Poi a Varese è stato un passaggio, come dire, forse esagerato da un certo punto di vista, perché sono salito di categoria ma soprattutto sono andato ad allenare in un posto dove mi giocavo anche il passato. Alla Fortitudo l’avventura è stata davvero troppo breve. Allenare le squadre dove hai giocato è sempre un po’ più complesso perché ti giochi il presente, il futuro ma pure il rispetto che ti eri creato giocando. Meglio pescare…
Ah, la bomboletta rossa…
Dovete sapere che quei capelli rossi fatti per lo scudetto di Varese, nel 1999, sono un lavoro di fino del mio parrucchiere. Era un barbiere del Sud che parlava il dialetto varesotto. Aveva tutte le tipiche esternazioni dialettali con un accento marcatamente siciliano. Era uno spettacolo, io mi divertivo tantissimo, mi ossigenava i capelli e si è formato tutto questo rito scaramantico che ci ha portati, in qualche modo, a quel grande trionfo.
Secondo te un gruppo come quello, di italiani, di varesotti, è replicabile nel basket attuale?
No, per un motivo semplice: nella pallacanestro le squadre sono piene di stranieri. Riuscire ad avere un club con un’ossatura prettamente italiana è complesso, ma è quello che ti porta a vincere. Pensate a tutte le squadre più vincenti dello sport, dal Milan di Sacchi alla Juve di Conte e Allegri: avevano un nucleo di connazionali. Giocare insieme non aiuta solo a livello tecnico, ma anche di coesione dello spirito di gruppo. È fondamentale.
A proposito di italianità, ci racconti cosa vorresti da questa Nazionale per l’Europeo?
Noi abbiamo fatto un Europeo in casa, a Milano, poi siamo andati a Berlino, abbiamo vinto gli ottavi di finale, abbiamo perso i quarti contro la Francia in una partita un po’ rocambolesca. Ai Mondiali del 2024 stessa cosa, usciti ai quarti con gli Stati Uniti. Il torneo preolimpico, inutile girarci in torno, non mi ha soddisfatto, ma non perché non ci siamo qualificati o perché abbiamo perso determinate partite, ma perché secondo me non abbiamo affrontato la quotidianità per come voglio affrontarla io. Una cosa che mina l’atmosfera di uno spogliatoio è l’egoismo. All’interno di una squadra di pallacanestro, qualsiasi tipo di forma di egoismo esasperata porta a negatività. Ecco, il fatto di creare una squadra che abbia talento ma un’identità che sia dissociata dall’egoismo secondo me è necessario.
È questa la tua prima regola da ct della Nazionale?
Sì, con i miei giocatori e il mio staff devo avere lo stesso rapporto di amicizia e convivialità che avevo con i miei compagni quando giocavo. Ognuno di noi sceglie il percorso. Non sono fatalista, sono convinto di decidere almeno come affrontare qualsiasi tipo di impegno che debba intraprendere. Voglio vivere così il basket, voglio allenare un gruppo di ragazzi che abbiano sempre la sensazione che stia lì per aiutarli. Credo sia l’unico modo che conosco di vivere questo sport. Non ho alternative, non ho altre opzioni.
È complicato fare il ct di questi tempi?
Una volta tu potevi selezionare i dodici migliori giocatori che il bacino d’utenza ti offriva e metterli insieme poteva risultare sufficiente. Oggi no, oggi hai la necessità di scegliere chi è in grado di creare l’identità di squadra. Sembra un differenza sottile, ma non lo è perché ti costringe a decisioni radicali.
Essere stato un’icona del basket italiano ti ha condizionato solo la carriera da giocatore o anche da allenatore?
Mi ha condizionato il resto della mia vita. Quando all’interno di un’organizzazione sportiva ti danno la possibilità di vivere in modo originale, in modo goliardico, la tua professione, tutto viene più naturale. E non mancano professionalità e serietà, solo si applicano differentemente. Pensate alla Virtus che ha vinto meritatamente lo scudetto contro un’ottima Brescia. Il successo è stato celebrato, ma vissuto in maniera contenuta, perché è un club abituato. Io in carriera ho vinto poco, ma sempre con squadre underdog: prima a Varese, ad Atene con la Nazionale, poi a Sassari (una Fiba Europe Cup, ndr). Vuoi mettere la soddisfazione? Poi basta parlare di questi tre successi che mia moglie ne ha le scatole piene, dice che ogni volta tiro fuori sempre gli stessi argomenti. Per forza, non ho vinto quasi nient’altro!
E allora cerca un altro oggetto nella scatola…
Ah, la chiave di Cividale. Ve la spiego, è una storia che fa ridere. All’inizio della mia carriera, a Cividale del Friuli, in B d’Eccellenza, abitavo in un collegio, il Bertoni. Mi avevano consegnato all’inizio dell’anno la chiave che apriva il portone del collegio perché con gli allenamenti rientravo dopo la chiusura. Il portone solitamente si chiudeva alle 9, io iniziavo l’allenamento alle 7 e mezza a Cividale, quindi nelle quattro giornate in cui mi allenavo rientravo automaticamente più tardi. Il direttore, Don Carlo, inizialmente mi disse: «Ti consegno la chiave alla sera prima dell’allenamento, quando torni io sarò già in camera a letto a dormire. Mi riconsegni la chiave la mattina successiva». Siamo andati avanti così per una decina di giorni. All’undicesimo sono andato da Don Carlo per dirgli che era inutile che ogni mattina dovevo riconsegnare le chiavi. Gli ho chiesto se potevo tenerle almeno per 4-5 giorni alla settimana. Lui ingenuamente accettò. Sapete, Cividale, grande zona di vini, ero un ragazzo, mi portavano a cena, mi facevano bere, io per non risultare maleducato bevevo e ogni tanto tornavo un po’ alticcio in collegio. A un certo punto avevo capito due cose: che tutti i preti avevano una dispensa piena di dolci che raramente passavano per la mensa e che esisteva un pulsante che faceva scattare il telefono in ogni stanza. Così mi divertivo a svegliare tutto il collegio dopo aver mangiato tutti i dolci della dispensa. La chiave poi mi ha dato un potere enorme. Tutti me la chiedevano. Non la affittavo, ma tutti mi portavano dei regali. La mattina avevo sempre il caffè e la brioche pronta e il giornale.
Eri diventato un leader in qualche modo, forse un po’ sgangherato. È lì che hai capito che saresti stato un giocatore di forte personalità?
Sì è vero, l’ho capito per la prima volta lì, ma non ci avevo mai pensato, me lo state facendo notare ora. Cividale è stata una rivelazione. Era il mio primo anno lontano da casa, da Trieste. Ho compreso che mi piaceva la pallacanestro, ma quello l’avevo intuito (sorride, ndr), e che soprattutto volevo fare quella vita lì, essere autonomo. Poi certo, se sei il leader in un gruppo, qualche vantaggio ce l’hai. È pur vero, però, che la leadership dà grandi possibilità, ma pure responsabilità. Si possono avere più sensi di colpa, si vivono più alti e bassi.
Responsabilità che ti sei sempre preso fino all’ultima parte della tua carriera, a Capo d’Orlando – che per l’occasione gli abitanti avevano ribattezzato Capoz d’Orlando.
Ma avete ricreato quel famoso cartello, che emozione! Sì, me l’hanno scritto il primo giorno in cui sono arrivato in città. Quando sono entrato a Capo il cartello stradale con la scritta Capo d’Orlando era stato sostituito con un cartello con la scritta Capoz d’Orlando. Lì me la sono un po’ fatta sotto, ho sentito il peso di avere delle aspettative enormi. Se aggiungiamo le aspettative che avevo io, cioè consapevole del fatto che quello sarebbe stato l’ultimo anno, forse era un po’ troppo. Mi sono però reso che le responsabilità mi stimolavano, avevo bisogno di vivere quelle cose.
È per questo che è stato più facile smettere?
Più semplice no, però più mi rendevo conto che le cose stavano finendo bene più mi ritrovavo in pace con me stesso.
L’hai chiusa come l’hai cominciata, facendo come Nereo Rocco, triestino come te. Lui diceva “Nel calcio come nella vita”, tu “se non te la godi, che gusto c’è”?
Me lo ha insegnato un mio grande amico. La maggior fortuna per un uomo è far combaciare il proprio hobby e il proprio lavoro. Nel momento in cui tu trasformi il tuo hobby nella tua professione hai già vinto. Magari non ti rendi conto nemmeno durante il tuo percorso che lo hai trasformato in un mestiere, ma lo hai fatto. E allora perché non rispettare questa fortuna? Perché rendere lo sport non goliardico e tristemente non legato ai rapporti umani? Non fa per me, forse per qualcun altro, ma non per me.