La Champions League asiatica è diventato il torneo più antidemocratico e antisportivo del calcio mondiale

Il format e il regolamento del torneo sono fatti su misura per le squadre saudite. E, soprattutto, escludono un'enorme fetta del continente.
di Redazione Undici 11 Settembre 2025 alle 11:34

Complice anche il cospicuo aumenti di giocatori provenienti dall’Europa nel campionato arabo, la Champions League asiatica ha quasi uniformato calendario e struttura a quella europea. Ci sono molte somiglianze tre le due competizioni. Come analizzato dal Guardian, si può notare che l’Asia è recentemente passata all’inizio in autunno, quando prima era fissato in primavera. La fase a gironi, poi, ha lo stesso formato della League Phase delle coppe europee, quello in cui le squadre affrontano otto avversarie una sola volta.

Tutti questi cambiamenti, però, fanno da cornice a una competizione la cui essenza, in senso assoluto, è stata completamente stravolta. E in senso antidemocratico, quindi antisportivo: rispetto alla Champions League europea, dove le squadre di tutti i Paesi hanno la possibilità anche solo teorica di accedere al tabellone principale, in quella asiatica ci sono diverse Federazioni che non possono portare squadre alla fase a gironi. Solo 12 delle 47 nazioni iscritte alla AFC, infatti, sono “ammesse” al torneo. Tutto inizia un anno fa, quando il rebranding totale della Champions League ha portato all’inserimento, nel nametitle, della dicitura “Elite”: in questo modo, di fatto, la manifestazione è diventata esclusiva. Nella sostanza, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Qatar nella zona occidentale e Giappone, Corea del Sud e Cina nella zona orientale (il torneo è diviso in zone geografiche fino ai quarti di finale) hanno tre squadre ciascuna; altri sei Paesi (Iran, Uzbekistan, Iraq, Australia, Malaysia e Thailandia) ne hanno una ciascuno. Tutti gli altri 35 Paesi non possono iscrivere i loro club. Tra questi, ci sono Indonesia, Vietnam e Giordania.

E quindi i club di queste Federazioni a quale torneo partecipano? E in base a quale criterio vengono esclusi? Con la riforma dei tornei AFC, il Ranking fa da discriminante: i Paesi che non hanno i punti necessari possono iscrivere le proprie squadre all’AFC Champions League Two, aperta ad altri club dei Paesi più importanti (di nuovo Arabia Saudita, Qatar, Giappone, Corea, ecc.) e a quelli che stazionano a metà della graduatoria; per tutti gli altri c’è una terza coppa continentale, l’AFC Challenge League.

La logica che sta dietro questa riforma – l’edizione 2023/24 della Champions League era aperta a 24 paesi – puntava all’innalzamento degli standard e delle performance commerciali del torneo. È ancora presto, e i funzionari AFC affermano che valuteranno come funziona il nuovo formato dopo un paio d’anni, ma ci sono preoccupazioni riguardo al coinvolgimento su scala continentale. Escludere una robusta maggioranza della Confederazione, inevitabilmente, è una strategia rischiosa. Anche perché è fondamentalmente antisportiva: non è facile organizzare un torneo di 24 club su un’area così vasta, escludendo così tante realtà.

In realtà quello relativo ai club/stati esclusi non è l’unico aspetto antidemocratico della Champions League: dai quarti di finale in poi, infatti, tutte le partite a eliminazione diretta si giocheranno ancora una volta in Arabia Saudita. Questa novità è stata introdotta nella passata stagione, e ovviamente dà alle squadre della Saudi Pro League un enorme vantaggio. Non a caso, viene da dire, nell’edizione 2024/25, ben tre semifinaliste su quattro provenivano dall’Arabia Saudita. Considerando gli equilibri economici e quindi competitivi, è facile immaginare che le cose vadano esattamente così, un’altra volta. In questo senso, come dire, i regolamenti e le scelte dell’AFC sono piuttosto significative.

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