Era la vigilia di Natale del 1989. Nella tradizionale rubrica su Repubblica (“Sette giorni di cattivi pensieri”), Gianni Mura scrisse: «Dovessi scegliere uno sportivo dell’anno, in Italia, sceglierei Julio Velasco (9), perché non ricordo un così radicale salto in avanti di una squadra. Le squadre, come dimostra la Nazionale di Vicini, possono anche fare salti indietro». Tu chiamalo, se vuoi, sdoganamento. È la data di nascita del personaggio mediatico. L’allenatore di pallavolo, quello c’era già. Aveva vinto quattro scudetti di fila con la Panini Modena, il cui nome ci riporta dritti agli anni Ottanta, ai derby con la Santal Parma. La pallavolo in Italia cominciava a rosicchiare visibilità alla pallacanestro. Ma con ogni probabilità la strada sarebbe stata ancora lunga se il volley di casa nostra non avesse incontrato lui. Quest’argentino che ha conosciuto e vissuto sulla propria pelle la dittatura dei colonnelli: il fratello fu torturato. Arrivò in Italia nel 1983. E qui ha fatto la sua fortuna (e soprattutto la nostra).
I puristi e gli storici della pallavolo fanno risalire al 1978 il primo boom popolare. È vero. Ospitammo i Mondiali e quella squadra arrivò in finale. Ma è stato nel settembre 1989 che la pallavolo è entrata nel quotidiano degli italiani, senza più uscirne. Europei maschili a Stoccolma. In panchina c’era lui: l’argentino. L’avventura cominciò con qualche ritaglio sui quotidiani. Giorno dopo giorno, e vittoria dopo vittoria, lo spazio divenne sempre più ampio. Così come le dirette tv furono via via trasferite su canali più importanti. Gli azzurri persero una sola partita, inutile, contro la Francia. In semifinale presero a pallate l’Olanda e in finale superarono in scioltezza la Svezia. Fu il trionfo. L’inizio del mito.
Vale la pena ricordarli i giocatori di quella Nazionale: Anastasi, Bernardi, Cantagalli, De Giorgi, Gardini, Lucchetta, Margutti, Masciarelli, Passani, Tofoli, Zorzi. La spina dorsale di quella squadra che è passata alla storia come la “generazione di fenomeni”. Altri, poi, se ne sono aggiunti: citiamo Papi, Giani, Bovolenta, Meoni, Gravina, Sartoretti, Bracci. Sono stati l’equivalente di Panatta, Barazzutti, Zugarelli e Bertolucci nel tennis, di Tomba nello sci. Alcuni sono diventati veri e propri personaggi: su tutti Andrea Lucchetta. Hanno rivoluzionato la percezione e la diffusione di questo sport in Italia. Se dal 1989 la passione per la pallavolo è costantemente cresciuta tra i giovani, se oggi abbiamo un movimento che in tanti ci invidiano, una buona fetta di merito va a loro. Ai pionieri della pallavolo ad alto livello. E a Julio Velasco, ovviamente, che ne era il leader indiscusso.
Pochi giorni dopo quel primo trionfo, Repubblica lo descrisse così: «Velasco, dietro il suo aspetto bonario di professore di ginnastica più bravo degli altri, è un uomo che ama la scienza, la maturità e il conflitto. Non va mai a cena con i suoi giocatori, dice che non è suo compito essere amico della squadra. Non è disposto a nascondere le difficoltà, ma le grida forte, gli errori dopo le sconfitte vengono esposti, i panni sporchi vanno lavati in pubblico. I giocatori faticano a sostenere questo conflitto emotivo, ma li fa crescere, li costringe a capire se stessi e le proprie motivazioni. Velasco parla tanto, spiega gli esercizi, e alla fine riesce a ottenere quello che chiede ai giocatori. Ed è questo che lo fa grande allenatore. Anche se i giocatori soffrono, anche se mugugnano, poi gli rispondono sul campo. Questi mesi non sono stati di pace completa, ma anche di scontri con i futuri campioni. Bernardi è diventato a Stoccolma forse il miglior schiacciatore d’ Europa: ma Velasco, una sera degli ultimi playoff, lo chiamò bambino».
Nasce la figura e il mito di Velasco educatore, formatore, filosofo, guru e per alcuni para-guru (l’Italia, si sa, detesta chi è bravo, vince e ha successo). È certamente vero che noi italiani abbiamo il debole per la figura del santone, dell’uomo Rockford, per citare uno spot pubblicitario in voga proprio negli anni Ottanta. Lui si prestava e si presta, con le sue frasi sugli occhi della tigre, la teoria degli alibi. Velasco è stato al gioco mediatico, senza però confondere i piani. Ha parlato due linguaggi diversi. A ciascuno ha dato quel di cui aveva bisogno. Ai giornalisti le perle di saggezza del talentuoso comunicatore. Agli atleti e alle atlete l’inflessibile allenatore che lavora con ostinazione, per non dire ossessivamente, sul gesto tecnico. Oltre a tanto altro. Rientra nella grandezza e nell’intelligenza dell’uomo. C’è un’illuminante intervista in cui Myriam Sylla racconta Velasco: «Per la ricezione mi ha detto “tu devi sviluppare più mielina” (essenziale nella trasmissione degli impulsi nervosi, ndr), cioè una membrana che ricopre… me l’ha spiegata tutta col disegnino, perché devi continuare a ripetere il movimento, ripeti ripeti ripeti e poi piano piano tu inizi a ricordare e ti viene liscio. È così Julio. Ti spiega queste cose qua…».
Ci ha anche provato, Velasco, a smontare l’impalcatura che sorregge la figura dell’allenatore. Poi, però, si è arreso. Ne parlò a Gianni Mura. «Credo che si carichi di troppe ideologie il nostro lavoro, come se dovessimo rispettare principi filosofici, politici, morali, culturali. L’aggettivo su cui troppo spesso si sorvola è uno: tecnico. Abbiamo un lavoro pragmatico. Come un architetto, che non è tenuto a spiegare la filosofia della costruzione, ma deve sapere se le fondamenta vanno in terreno fangoso o secco. Non sono né Marx né Gandhi». E ancora: «Per gestire bene un gruppo serve una profonda conoscenza dello specifico, altrimenti si è patetici e caricaturali. I ragazzi mi rispettano non perché ho carisma, ma perché so di cosa parlo. Nel volley».
La Nazionale di Velasco entrò nelle case e nella vita del Paese. Si radicò come un’eccellenza del Made in Italy. Un’aura che non venne intaccata nemmeno dal dolore e dalla maledizione di non essere riusciti a vincere l’oro olimpico. Era considerata talmente imbattibile che la sconfitta contro l’Olanda ai quarti di Barcellona 92 fu accolta con incredulità. Non sembrava possibile che quella squadra, quegli uomini potessero perdere. E invece è lo sport. Quelle due sconfitte (l’altra fu in finale ad Atlanta, sempre contro l’Olanda: 17-15 al quinto set) possono aver lasciato il segno a livello sportivo, sugli atleti, ma non sull’aura di leggenda. E nemmeno su Velasco, che quando ha poi vinto l’oro olimpico con le donne (lo scorso anno a Parigi), ci ha tenuto a precisare: «Non sono Baggio che non ha pace perché ha sbagliato un rigore. Quella era una squadra straordinaria che ha perso per due palloni. Ho sempre accettato quel risultato sportivo».
Conclusa la fase magica della Nazionale maschile, e dopo una breve parentesi con quella femminile, Velasco è un po’ costretto a rinnegare le sue teorie. Intraprende un altro lavoro, immaginiamo remunerato decisamente meglio. È richiestissimo dalle aziende. Cragnotti lo porta alla Lazio come direttore generale. Viene fin troppo semplice concludere che un uomo di sport come lui sta al calcio come l’acqua sta all’olio. Eppure è un grande appassionato di football. E di Maradona, ovviamente. Avrebbe voluto giocare numero dieci. Ma il destino e i piedi hanno deciso diversamente. Anche Moratti lo assunse all’Inter. Lasciò il calcio italiano fondamentalmente senza aver mai lasciato il segno né essere mai stato preso in considerazione. Per qualcuno, anche questa è una medaglia.
Velasco ha avuto tante di quelle vite che non basterebbe un libro, nemmeno due. Ha reso grande pure la Nazionale iraniana di pallavolo. Su quella panchina ci inflisse una memorabile sconfitta a Modena. Quando è tornato ad allenare l’Italia femminile, ha trovato una squadra con un tasso non indifferente di conflittualità interna. Utilizzando un’iperbole poco cara a Julio, diremmo dilaniata. Mazzanti (il precedente ct) aveva fallito nel suo progetto di costruire una Nazionale senza Egonu o con Egonu notevolmente ridimensionata. Non scriviamo nulla di sorprendente se ricordiamo che non tutte digerivano il protagonismo mediatico – talvolta involontario – di Paola, che arrivò sul palco del festival di Sanremo in qualità di ospite. Di certo lei e Mazzanti si sono scontrati più volte. Velasco ha portato in dote la sua intelligenza. Non ci voleva un genio della pallavolo per rendersi conto del valore di Egonu. Il lavoro di Velasco è stato quello di reinserire lei nella Nazionale e al tempo stesso far rendere conto a lei, alle altre, ai giornalisti e ai tifosi che quella Nazionale non era e non è solo Egonu. Detta così, in quattro righe, sembra semplice. È stata un’impresa enorme, complessa, ad alto rischio. Ed è stata un’impresa riuscita. Il che fa di lui un allenatore monumentale. L’Italia ha vinto Olimpiadi e Mondiali perché è una grande squadra. Perché c’è Paola Egonu. Ma non c’è solo lei. Come peraltro è stato confermato dagli ultimi palloni del tie-break contro la Turchia in finale: decisive sono state Sylla, Fahr, Antropova, Danesi, De Gennaro, Orro.
La differenza è che Egonu è un personaggio mediatico. Le altre, vuoi per scelta o per standing, non lo soni. O non del tutto. Miryam Sylla potrebbe a occhi chiusi essere protagonista nello show-business. Immaginiamo che lo sappia perfettamente, come dimostra la sua presenza a Sanremo nel dopo festival. Un po’ dive probabilmente si nasce, come lo era Francesca Piccinini. Vale lo stesso per lo sci: Sofia Goggia buca lo schermo più di Federica Brignone. Manuela Di Centa più di Stefania Belmondo. Sono campi diversi. Oseremmo dire sport diversi. Loro, le campionesse della pallavolo, sono atlete. Come dice Velasco, il loro obiettivo è giocare meglio a pallavolo, diventare più brave. E lo sono diventate. Oggi sono famose e richiestissime perché hanno vinto. Ma hanno vinto perché si sono impegnate. Perché sono migliorate negli aspetti tecnici. Perché hanno imparato a fare cose nuove. A soffrire da squadra. Hanno lasciato il segno così, facendo al meglio il proprio lavoro. Il resto è una conseguenza. Questa è la lezione di Julio Velasco.