È il calcio dei giovanissimi, come mai prima d’ora. Si guardi la Premier League, il campionato migliore del mondo: Max Dowman a 16 anni da compiere è stabilmente nel giro della prima squadra dell’Arsenal; nel 2022 – alla stessa età e un po’ meno, esordio assoluto a 15 anni e 181 giorni, tuttora record nazionale – era toccato a Ethan Nwaneri; stessa musica al Liverpool, dove lo scorso gennaio Rio Ngumoha – a 16 anni e 135 giorni – aveva segnato il primato societario di precocità; in questa stagione il 17enne Bradley Burrowes ha debuttato nell’Aston Villa; il 18enne Josh King è un punto fermo del Fulham. E così via. Una tendenza netta, sempre più ricorrente, soprattutto fra i top club. Non si è più troppo giovani: da un lato un sollievo – ci vuole in ogni caso coraggio e grande competenza gestionale per lanciare i teenager del pallone –, da un altro un rischio che dev’essere sempre ben calcolato.
Il fatto è che non tutti sono come Lamine Yamal – anzi, nessuno, nel presente come nel passato. Il fenomeno del Barça è l’enfant prodige per antonomasia: dominante, trascinatore, perfino sfacciato per naturale bravura. S’è perso presto il conto dei record messi a segno dal 18enne blaugrana (ma per chi volesse un breve ripasso, ecco qui). Eppure anche per lui, nonostante le mille tutele del caso – imprescindibili, quando il valore della sua clausola rescissoria è di un miliardo di euro –, le insidie contro una crescita sana ed equilibrata sono sempre dietro l’angolo. Lo ha fatto notare anche Hansi Flick, criticando duramente la Nazionale spagnola per la recente gestione dell’attaccante: affinché Yamal giocasse due gare di qualificazione ai Mondiali, gli sono state somministrate iniezioni di antidolorifici per aggirare un infortunio. “Questo fatto mi rattrista molto”, ha dichiarato l’allenatore del Barcellona. “La Spagna ha i giocatori migliori del mondo, in ogni posizione del campo. Si parla tanto dell’importanza di prendersi cura dei calciatori più giovani: ecco, questo è l’esempio opposto”.
E se perfino Yamal deve sottostare a simili forzature, figurarsi tutti gli altri. Il calendario è fitto d’impegni, il calcio non aspetta nessuno. Ma il problema è che Lamine e coetanei ingannano tutti col loro smisurato talento: danno la sensazione di essere dei fuoriclasse pienamente formati – e tecnicamente magari lo sono, chi più chi meno – ma il loro fisico resta comunque quello di un adolescente di 15, 18, 20 anni. Cioè in pieno divenire, con altissimi gradi di variabilità all’interno dello stesso gruppo d’età proprio perché lo sviluppo del corpo umano non è assimilabile ai semplici dati anagrafici. Ci sono giocatori – lo è stato per esempio Wayne Rooney, due decenni fa – particolarmente precoci anche dal punto di vista biologico: sono cioè più pronti dei loro compagni a sostenere ritmi di allenamento adulto, per sforzo atletico o tenuta fisica come richiede la Premier League. Altri invece hanno bisogno di più tempo. Fino ai 20 anni passati, per completare lo sviluppo di alcune formazioni osse e muscolari delle articolazioni e del bacino.
Come racconta The Athletic, un ulteriore problema è poi rappresentato dal “ping-pong” fra giovanili e prima squadra: i giocatori sottoposti a questo tipo di doppio regime – carichi diversi, allenamenti diversi, partite diverse anche all’interno della stessa settimana – sono anche quelli più a rischio di rotture del legamento crociato in età giovanile. E al contempo vanno più di frequente incontro a patologie croniche – malattia di Sever, malattia di Osgood-Schlatter – con cui dovranno fare i conti per il prosieguo della loro carriera. Dunque serve estrema prudenza, almeno quanto l’entusiasmo di voler lanciare questi ragazzi nel grande calcio. Ma per l’appunto: ragazzi restano. Con tutte le loro fragilità fisiche e psicologiche che non ammettono salti quantici. Va dato tempo al tempo, nello sport soprattutto.