È l’estasi oltre l’ultimo respiro. Nel patrimonio calcistico di un popolo, certe notti brillano ancora di più perché del tutto inaspettate. Sono figlie della disperazione, dell’astinenza immemore da un grande torneo e di una preghiera collettiva sotto forma di spiovente in area del portiere – calcia Caoihmin Kelleher, ma è come se fosse tutta l’Irlanda a farlo: palla lunga, la testa di Nathan Collins riesce ad allungarne la traiettoria ed è lì che si consuma l’inverosimile. Perché Troy Parrott, fino a pochi giorni fa l’anonima riserva del giallorosso Evan Ferguson, è il più lesto di tutti – soprattutto dei difensori ungheresi – e sa già come va a finire. Arpiona il pallone con la suola e tanto basta: un tocco sporco che è insieme controllo, tiro, gol. Il terzo della sua serata. Il più importante della storia recente del suo Paese. Il tempo si ferma: 95 minuti e 12 secondi. La parola fine è un mucchio sfrenato che da Budapest rimbomba fino a Dublino.
Si dirà: la storia, quella che conta, è ancora tutta da giocare, visto che tra l’Irlanda e il Mondiale americano ci sarà l’enorme scoglio dei playoff – e mica da favorita. Vero. Ma al contempo ingannevole. Perché il valore di certe partite prescinde da quel che ci sarà dopo, soprattutto se quel che c’era stato fino ad allora difettava di acuti degni di nota. E comunque vada a finire, fra vent’anni gli irlandesi racconteranno ai loro figli della leggendaria tripletta di Troy Parrott. Per intenderci: l’areoporto internazionale di Dublino, privo di particolari intitolazioni, oggi ha cambiato nome ed è dedicato all’attaccante 23enne – almeno sui social network, in pieno sballo da postpartita. Altra scena immaginifica: Robbie Keane – il più grande giocatore che l’Irlanda abbia mai conosciuto, e che per un assurdo scherzo del destino oggi allena il Ferencvaros in Ungheria – pizzicato in un pub della capitale ad arringare la folla e a cantare “There’s only one Troy Parrott”. Da vedere e rivedere.
La dimensione dell’impresa giustifica dunque ogni entusiasmo, sul piano personale e nazionale. L’ultima volta che l’Irlanda era andata ai Mondiali fu nel lontano 2002. Fece una signora figura, trascinata proprio dai gol – e dalle iconiche capriole – di Keane: chiuse da imbattuta e fermò sull’1-1 sia la Germania futura viceampione sia la Spagna, che agli ottavi di finale la eliminerà soltanto ai rigori. Da allora più nulla. Nessun altro sussulto di respiro globale. E un’intera generazione priva di quei ricordi. L’exploit di Parrott restituisce al suo popolo quelle scintille emotive, ma c’è di più. Se per esempio a segnare il gol-partita fosse stato Johnny Kenny qualche minuto prima – e Dénes Dibusz, cognomen omen, non avesse sfoderato la parata della vita –, tecnicamente il risultato sarebbe stato lo stesso. Ma che a firmare il sigillo sia stato l’attaccante dell’AZ Alkmaar ha contorni da film: prima la doppietta che schianta il Portogallo – in occasione della prima storica espulsione di CR7 in Nazionale, per aggiungere record a record –, poi il tris nella leggendaria Puskás Aréna. In due notti, tanti gol quanti nel resto della sua militanza con la Jack’s Army. E nessun irlandese aveva mai segnato tre reti in una sola trasferta. Nemmeno Robbie Keane.
Ci è riuscito forse il giocatore più inatteso, ma che agli albori della sua carriera era carico di aspettative. Cresciuto nelle giovanili del Tottenham – il club di Keane per antonomasia, altro fil rouge –, Parrott ha mosso i primi passi in Premier League ai tempi di José Mourinho. Con alterne fortune: “Quel ragazzo si atteggia, ha la mentalità del sono troppo bravo rispetto a voi“, racconterà poi lo Special One. E infatti Troy finirà subito in una lunga spirale di prestiti nelle serie minori, senza mai incidere davvero, fino a sbarcare in Eredivisie. Lì attirerà l’attenzione dell’AZ, che lo acquista alla vigilia della scorsa stagione. Finalmente, in Olanda, Parrott inizia a segnare con continuità. Anche se più che un goleador resta una punta dinamica, abile ad attaccare gli spazi e a crearli per i compagni – da ieri lo sa tutta l’Europa. Altro enorme what if: senza il recente infortunio di Ferguson, questa storia non sarebbe nemmeno cominciata. E l’Irlanda non avrebbe l’eroe di cui aveva bisogno.
“Avevo detto che la vittoria sul Portogallo ha mostrato di cosa sono fatti i sogni”, sorride Parrott all’indomani del 2-3 in Ungheria. “Ma ora penso che non potrò vivere una notte più bella di quella appena trascorsa. È una favola. Non si può nemmeno immaginare una cosa del genere. Non ho parole per descrivere quello che provo”. Nemmeno gli irlandesi: bastano i gesti, gli abbracci, i canti e le urla in quell’attimo che ha riconsegnato il calcio alla Repubblica. Quando nessuno ormai ci credeva più, tranne un ragazzo spinto dal destino.