«Quello contro la Roma è il miglior Napoli della stagione?». La domanda, posta a Conte nel post-partita dai giornalisti di DAZN, è risuonata come un giudizio sul percorso di una squadra che, negli ultimi diciotto mesi, ha cambiato pelle più volte. E la risposta, almeno osservando ciò che si è visto all’Olimpico, sembra avvicinarsi a un sì piuttosto convinto. Roma–Napoli 0-1, infatti, non è stata soltanto una vittoria pesante in chiave classifica: è stata soprattutto l’ennesima grande dimostrazione dell’evoluzione tattica vissuta da Conte da quando è diventato allenatore del Napoli. Un’evoluzione che è iniziata lo scorso anno e che continua ancora oggi, che ha trasformato gli azzurri in una squadra capace di scrivere un manifesto di applicazione collettiva, gestione dei momenti e maturità strategica.
All’Olimpico, infatti, il Napoli ha vinto grazie a una pressione intelligente, che cercava il recupero immediato del pallone ma, nel caso in cui i giallorossi superavano la prima pressione, orientava le loro azioni verso zone di campo meno pericolose. Le linee restavano compatte, le distanze corte, e gli uomini più tecnici dei giallorossi, Soulé e Pellegrini in primis, venivano tagliati fuori dalla manovra attraverso marcature uomo su uomo, accoppiamenti che non sono cambiati lungo tutto il corso del match. Lobotka ha guidato la squadra come un metronomo difensivo, rallentando le accelerazioni romaniste e trasformando il pressing avversario in possesso sicuro, mentre le verticalizzazioni erano rare ma chirurgiche, studiate più che improvvisate, con i movimenti di Neres e Lang a scavare lo spazio per le incursioni delle mezzali. È stato un Napoli “contiano” in ogni dettaglio: poco appariscente, molto solido, lucidissimo. Che ha risposto all’emergenza infortuni – per la gara contro la Roma, Conte ha dovuto rinunciare a Lukaku, Meret, De Bruyne, Anguissa, Gilmour e Gutiérrez – inventandosi un nuovo modo di stare in campo, di aggredire l’avversario.
Era andata così anche l’anno scorso, a pensarci bene: all’inizio del suo ciclo a Napoli, Conte aveva impostato gli azzurri a partire dal 3-4-3, con Di Lorenzo utilizzato nel ruolo di braccetto atipico, capace di trasformarsi in esterno aggiunto in fase di possesso. In un momento in cui la squadra doveva ancora costruire automatismi e ritrovare fiducia dopo una stagione difficile, quel sistema garantiva sicurezza, ampiezza e protezione, mentre davanti la presenza di Kvaratskhelia assicurava estro e velocità. Era un Napoli ancora grezzo, meno fluido rispetto alle versioni successive, ma già riconoscibile nella ricerca di verticalità e nella cura maniacale dell’equilibrio. Quando la rosa gli ha ampliato il ventaglio delle soluzioni, Conte è passato al 4-3-3. Ma non a quello “spallettiano”, fatto di palleggio insistito e occupazione delle mezzali negli half-spaces: la sua versione era più verticale, più pragmatica; McTominay diventava mezzala di rottura e ripartenza, Kvaratskhelia riceveva libertà maggiore per entrare al centro del gioco e i terzini restavano più bassi, pronti a contenere le transizioni. La squadra si allungava meno e cercava imbucate rapide, quasi sempre sulla figura onnisciente di Lukaku. Il sistema è poi evoluto ulteriormente quando Conte ha dovuto rinunciare a Kvara e ha inserito stabilmente Neres sulla sinistra, aprendo la variante più offensiva del 4-3-3: un’ala pura in grado di creare superiorità sul dribbling, un’ampiezza più marcata, movimenti simultanei delle mezzali e un Napoli che, a seconda dei momenti della partita, si disponeva con un 4-2-3-1 mascherato o un 3-2-5 in fase di costruzione.
Poi Neres si è fatto male e l’impatto di Okafor – il sostituto di Kvara arrivato sul mercato – è risultato nullo. È per questo che Conte ha sperimentato anche un 4-3-3 spurio, con Raspadori finto esterno che si stringeva per diventare quasi una seconda punta: una soluzione meno aggressiva in ampiezza, più ricercata nelle combinazioni interne, utile in quei momenti in cui serviva un Napoli più paziente, capace di manipolare gli avversari con il pallone più che con la corsa. Ed è così che McTominay è diventato un invasore letale, ed è con quel modulo che è arrivato lo scudetto.
Poi è stata la volta del 4-1-4-1, forse l’assetto più maturo del ciclo intermedio: Lobotka davanti alla difesa, Anguissa e McTominay ai suoi fianchi, e quando possibile De Bruyne a illuminare il gioco tra le linee. Con questo sistema il Napoli controllava meglio il pallone, così ha cercato di trasformarsi in una squadra corta, equilibrata, europea nella gestione delle due fasi. L’evoluzione più recente, quella arrivata proprio alla vigilia del match con la Roma, è stata il ritorno al 3-4-3, ma in una versione completamente diversa da quella iniziale. Di Lorenzo non è più un braccetto che sale, ma un esterno a tutta fascia, capace di interpretare tre ruoli in uno a seconda della zona in cui si sviluppa l’azione; Neres, invece, è statp portato molto più vicino alla porta, quasi come una seconda punta, libero di attaccare gli spazi interni. La struttura difensiva resta ordinata, le distanze impeccabili, e il Napoli è diventato più aggressivo e più pericoloso, come ha dimostrato contro Atalanta, contro il Qarabag e contro la Roma.
Ed è qui che ritorna la domanda del post partita: questo Napoli è stato il migliore della stagione? Probabilmente sì, almeno sotto il profilo tattico. È stata la versione più compatta nelle distanze, la più attenta nella chiusura delle linee di passaggio, la più disciplinata nel pressing e la più lucida nella gestione dei momenti della gara. Forse non la più creativa,, ma sicuramente la più consapevole della propria forza. Conte ha sempre sostenuto che una squadra forte è quella che «difende per attaccare», dopo la partita con la Roma ha detto che «venire all’Olimpico a correre e difendersi in avanti è una cosa da grande squadra. Ecco, a Roma si è visto esattamente questo: un Napoli maturo, solido, pronto a essere definito proprio così, una grande squadra. E il merito, ancora una volta, è di un allenatore che non ha mai cambiato così tanto, nel corso della sua carriera.