Negli ultimi venti o trent’anni, lo possiamo dire senza timore di essere smentiti, gli allenatori sono diventati dei brand che camminano. Come i calciatori, molto più che i calciatori, e non potrebbe essere altrimenti: in fondo parliamo di uomini fondamentalmente soli – col tempo gli staff tecnici sono cresciuti a dismisura, ok, ma perché preferire la verità al romanticismo? – ai quali viene affidato un potere decisionale enorme, che sono scelti e assunti per dar vita alle loro idee, che di fatto vendono – e quindi sono – uno stile di gioco e di comando, la loro stessa immagine, un’identità composita, se vogliamo usare una locuzione dal sapore antropologico. In un contesto del genere, è facile che le definizioni sommarie inventate dai media finiscano per essere sovrapposte a una realtà necessariamente più sfumata. Nel senso: è quasi inevitabile pensare che Guardiola sia il tecnico del tiqui-taca, che Allegri è quello del corto muso, che Klopp è quello del gegenpressing e che non possano esistere contaminazioni, deviazioni anche momentanee, cambi di visione o di partito.
Antonio Conte è arrivato a quota 18 anni di carriera in panchina, e col tempo è diventato un allenatore che è fin troppo semplice identificare a partire dalla narrazione che si fa di lui secondo lo schema che abbiamo descritto, quindi da concetti semplici e ridondanti. Sulla sua figura sono state apposte delle etichette (virtuali, ma pur sempre delle etichette) enormi, riconoscibili da chiunque segua il calcio in maniera poco più che superficiale, quindi difficilissime da staccare: quella dell’amore incondizionato per il 3-5-2 o comunque per la difesa a tre, quella per cui Romelu Lukaku è il centravanti perfetto per il suo calcio, quella per cui il turnover non è proprio la specialità della casa, quella per cui i suoi metodi di allenamento sono estremamente faticosi e rigorosi, alla stregua di bootcamp militari, così com’è estremamente rigoroso il suo modo di rapportarsi con i giocatori e con i suoi datori di lavoro. A pensarci bene, basta fare una rilettura critica degli ultimi anni vissuti da Conte per rendersi conto che una buona parte di queste storie, in effetti, coincidono con la realtà dei fatti. Oppure che lo stesso Conte, come dire, non è che abbia fatto molto – in campo, quando è stato intervistato – per smentirle. Da quando è arrivato a Napoli, però, alcune cose stanno andando in maniera molto diversa. In maniera sorprendente, viene da dire.
Il bello è che tutto era iniziato come da programma, cioè sembrava che il Napoli avesse acquistato il solito pacchetto completo del brand-Conte: la notizia circolata in città ancora prima dell’ufficializzazione del suo arrivo era che De Laurentiis avesse bloccato Romelu Lukaku, e allora non potevano esserci dubbi su chi sarebbe stato il nuovo allenatore; alla sua prima conferenza stampa come tecnico azzurro, Conte aveva adoperato il suo storico frasario sulla necessità di allenarsi duramente, fino al limite e anche oltre, e così poche ore dopo il Napoli aveva già messo in vendita una maglia con la scritta “amma faticà”, pronunciata in dialetto dal nuovo tecnico; fin dalle primissime amichevoli estive la squadra azzurra è andata in campo con la difesa a tre che diventa a cinque in fase passiva, e quando qualcuno ha chiesto a Conte il perché di questa scelta – un cambiamento netto rispetto a quello che si è visto a Napoli negli ultimi anni – lui ha risposto che «il Napoli del 4-3-3 ha subito 48 gol ed è arrivato decimo in classifica». Infine, negli ultimi accesissimi di mercato, è davvero arrivato Romelu Lukaku.
Le prossimità col passato, però, si fermano qui. E la cosa più singolare è la modalità con cui si è interrotto il flusso: all’improvviso, senza avvisaglie, senza svolte apparenti. Da un certo punto in poi, è come se Conte avesse smesso di percorrere le solite strade. E avesse iniziato a prenderne altre, anzi a costruirne altre. È un discorso essenzialmente tattico, ma non per questo risulta noioso: tutto comincia – o finisce, a seconda dei punti di vista – a Torino nel giorno di Juventus-Napoli, era il 21 settembre scorso e la squadra azzurra è scesa sul campo dell’Allianz Stadium con una nuova versione – più accorta, più equilibrata, meno orientata al possesso palla – del buon vecchio 4-3-3/4-5-1. Pochi giorni dopo, contro il Palermo in Coppa Italia, Conte ha cambiato dieci giocatori della formazione titolare (!) e li ha disposti con un sistema molto particolare, una sorta di 4-2-2-2 alla brasiliana, con gli esterni d’attacco che diventavano trequartisti centrali e si muovevano alle spalle di due punte. Poi è arrivata la sfida interna col Monza e il Napoli ha cambiato di nuovo assetto, McTominay ha oscillato tra centrocampo e attacco e quindi ha fatto da cuneo tra il 4-3-3, il 4-2-3-1 e il 4-2-4 puro, mentre Politano ripiegava costantemente sulla linea dei difensori: e così, quando c’era da recuperare il pallone, il Napoli si disponeva con un 5-4-1 asimmetrico. Infine è arrivata la gara contro il Como, in occasione della quale Conte ha fatto una vera e propria masterclass di trasformismo: ha iniziato con un 4-2-4 che si trasformava in 5-3-2 in fase di non possesso, poi nella ripresa è passato al 5-4-1 con pressing altissimo. E proprio grazie a questa mossa è riuscito a vincere la partita.
Proprio il match contro il Como di Fàbregas ha mostrato tutti i lati della nuova anima tattica di Conte: il gol segnato da McTominay pochi istanti dopo il calcio d’inizio è arrivato grazie a un classico schema da 4-2-4 preparato in allenamento, è stato lo stesso allenatore a confessarlo nelle interviste prepartita, ma poi il possesso sinuoso dei vari Sergi Roberto, Perrone e Nico Paz ha preso il sopravvento, ha permesso al Como di impadronirsi della partita e di trovare il pareggio. Durante l’intervallo Conte non ha cambiato la formazione, piuttosto ha messo in discussione le sue scelte, il suo piano-partita: come detto ha modificato la disposizione del Napoli in fase di non possesso, e insieme ha chiesto e ottenuto maggiore intensità da parte dei suoi uomini. Così ha inaridito il gioco ambizioso e spavaldo dei suoi avversari. I gol di Lukaku (su rigore) e di David Neres sono stati l’inevitabile conseguenza dei cambi tattici e del cambio d’inerzia.
Gli highlughts di Napoli-Como
A questo punto potremmo essere caduti nella trappola dell’esagerazione, cioè potremmo essere arrivati a pensare che Conte, nel corso della sua carriera, non abbia mai affrontato – e soprattutto non abbia mai vinto – delle partite agendo in questo modo, indirizzandole con scelte tattiche inattese o semplicemente contro-intuitive. Naturalmente non è così, anzi a pensarci bene tutte le soluzioni che stiamo vedendo a Napoli (il 4-2-4, il 4-3-3, il 3-4-3 utilizzato in avvio di stagione) fanno parte del passato di Conte, della sua storia tattica: le conosce, le ha adoperate, quindi certamente le ha studiate. Il nocciolo di tutto questo discorso, cioè la novità da sottolineare, è che Conte non era mai stato così vario, e quindi così liquido, nel costruire una sua squadra. O meglio: la sua prima Juventus (stagione 2011/12) era stata progettata per giocare in un certo modo e poi cambiò fisionomia, cioè passò dal 4-2-4 al 4-3-3 e infine al 3-5-2, ma proprio da quel giorno Conte ha finito per irrigidirsi, come se si fosse radicalizzato. E infatti negli anni successivi la Juventus non avrebbe più derogato se non sporadicamente dalla difesa a tre, esattamente come tutte le altre squadre – la Nazionale italiana, il Chelsea, l’Inter, il Tottenham – che in seguito sono state affidate a Conte.
E qui torna utile il discorso fatto all’inizio, quello sugli allenatori-brand: a Napoli, almeno finora, Conte ha messo in mostra qualcosa che non sembrava trovare spazio nella sua carta dei servizi. O che comunque non era in cima alla lista dei motivi per cui viene considerato un grande tecnico. Questo non significa che Conte non sia più Conte, che sia cambiato totalmente: il suo Napoli è una squadra innanzitutto solida, fisicamente e difensivamente, che sa sempre cosa fare con e senza palla, che di fatto difende a cinque quando la palla ce l’hanno gli altri, che ha dei principi e dei meccanismi di riferimento in grado di sostenere tutta l’impalcatura, che sono come le fondamenta di qualsiasi edificio ben costruito. Tutte condizioni che caratterizzano da sempre l’approccio e il lavoro di Conte.
Allo stesso tempo, però, questa nuova esperienza ci sta facendo riapprezzare delle qualità di Conte che francamente avevamo rimosso, seppellito in un baule in cantina, pure a causa delle sue scelte: la capacità di sperimentare e anche di correggersi, la pura intuitività, l’inventiva. La flessibilità che determina l’adattamento al contesto e alle singole partite, non importa che si tratti di inserire McTominay nell’undici titolare, di trasformare Politano in un esterno a tutta fascia o di chiudere le linee di passaggio da e verso Nico Paz. Ecco, forse tutta questa varietà non permetterà al Napoli 2024/25 di essere ricordato come una squadra di Conte, filosoficamente vicina all’immaginario che abbiamo del suo allenatore. Solo che forse quell’immaginario andrebbe aggiornato, andrebbe riscritto, anche in virtù del fatto che questo nuovo Conte ha preso un Napoli disastrato, l’ha reso una delle squadre tatticamente più interessanti della Serie A e l’ha (ri)portato in testa alla classifica. Non è poco, non era e non è scontato. Non lo è mai.