Antonio Conte non è più lo stesso

L'avventura al Tottenham finirà in modo anonimo, ma il vero problema è che il suo modo di lavorare è fermo da troppo tempo. E che lui sembra rassegnato a tutto questo.

Se non conoscessimo Antonio Conte, se non avessimo già visto più volte cosa succede quando è davvero arrabbiato, allora le parole “Explosive Rant” – quelle con cui il canale YouTube di Sky Sports ha scelto di titolare il video della conferenza stampa dopo il 3-3 del Tottenham contro il Southampton – ci sembrerebbero più che appropriate. Però Antonio Conte lo conosciamo, e soprattutto conosciamo quel Conte che si manifesta dopo una partita così negativa all’interno di una stagione così negativa, e allora possiamo tranquillamente affermare che quella persona in conferenza stampa non sia Antonio Conte. O al massimo possiamo affermare che quello sia Antonio Conte in tono minore, quindi dimesso, distaccato, persino annoiato da un contesto che doveva dominare e che invece si è ritrovato a dover subire. David Hynter sul Guardian ha scritto che si è trattato della «tipica mossa drammatica del tecnico italiano». Ma in realtà il suo sfogo, a differenza di tanti altri che si sono ripetuti sempre uguali in questi anni, è destinato a tracciare una linea di confine piuttosto netta, a costituire un prima e un dopo nel modo in cui raccontiamo Conte. In continuità, per altro, con l’intervista rilasciata a gennaio in cui, per la prima volta, rivelò che stava rivedendo la sua scala delle priorità a seguito della tragiche scomparse di Ventrone, Mihajlovic e Vialli, e dei problemi di salute che sarebbero poi subentrati in seguito. 

Chiariamo: gli argomenti di discussione e i bersagli delle sue dichiarazioni continuano a essere quelli che ricorrono ciclicamente ogni volta che Conte sente di non poter più restare in un certo posto, e quindi ecco che la società non lo accontenta sul mercato, ecco i giocatori che non riescono più a seguirlo come sarebbe necessario. A cambiare, invece, è la forma, che in passato è stata più importante della sostanza: cambiano i tempi, i modi, la prossemica, gli sguardi di brace con cui normalmente metterebbe a ferro e fuoco la sala stampa e che stavolta, invece, tradiscono la stanchezza di chi non ne può più, di chi non vede l’ora di tornare a casa, di chi sta cercando il modo più semplice e rapido per farlo. E, quindi, cosa c’è di meglio di un attacco frontale all’ambiente tutto, in attesa di quell’esonero preannunciato dal Telegraph e che avrebbe il sapore della liberazione nonostante alla scadenza del suo contratto manchino appena tre mesi o poco più?  

In realtà, chiedersi cosa sia andato storto tra Antonio Conte e il Tottenham significherebbe affrontare solo una parte – la meno importante, probabilmente – di una serie di problemi che vanno oltre il campo e le difficoltà della singola stagione con gli Spurs. La questione, infatti, sembra ormai riguardare Antonio Conte e basta, i suoi limiti storici, i momenti che lo hanno portato a un punto della sua carriera – anzi: della sua vita – in cui tutto appare fermo, bloccato, come se lui per primo si fosse reso conto di non poter essere più l’allenatore di un tempo. Né tantomeno di poter essere l’allenatore che pensava di riuscire a diventare.

È la prima volta che Conte devia da una narrazione che, fino a oggi, si è fondata sulla sua capacità di spingersi oltre se stesso, e di convincere anche gli altri a farlo. Stiamo assistendo a un cambio di paradigma e di registro dettato dalla serena accettazione delle cose che non possono essere cambiate, nemmeno da uno come lui: «Arrivato a un certo punto e a un certo livello non bisogna parlare solo dell’allenatore ma del lavoro che si fa nel complesso. Questa è una squadra che deve lavorare tanto per diventare competitiva a livelli importanti. Non bastano 14 mesi per diventare competitivi, e non è questione di qualità ma di crescere a livello di personalità in questo tipo di partite. Ciò che conta per un allenatore è cercare di alzare l’asticella e noi stiamo facendo fatica a farlo quest’anno. Del resto, portare il livello da medio a buono è semplice, ma è a elevarlo ulteriormente che si incontrano difficoltà», ha detto Conte qualche settimana fa ai microfoni di Amazon Prime Video dopo aver subito l’ennesima eliminazione agli ottavi di Champions League contro il Milan.  

È questo il cambiamento negativo: Antonio Conte, l’allenatore che è sempre stato in grado di dare un’identità a squadre che non ne avevano, di trasformarle fin da subito in macchine da guerra riconoscibili per la loro ferocia agonistica, ora ammette – per di più con il sorriso – di aver perso il suo proverbiale tocco magico, ciò che gli permetteva di ridurre le differenze competitive con i suoi avversari fin quasi ad azzerarle. E là dove una volta – anche dialetticamente – si avvertiva l’urgenza, la fame, la necessità di fare quel passo in più che serviva a lui e ai suoi giocatori, oggi si percepisce la rassegnazione nei confronti di un destino già scritto. E che si manifesta in un gap tecnico e tattico talmente difficile da colmare sul lungo periodo da risultare immanente o, comunque, inevitabile. 

La tentazione, ora, sarebbe quella di ricondurre il tutto a un altro topos ricorrente della narrazione contiana, quello dell’allenatore che va bene fino a un certo punto, del tecnico bravo a costruire una base solida su cui tocca ad altri edificare i futuri successi, soprattutto per quel che riguarda le competizioni europee. In fondo è accaduto alla Juventus, la squadra che Massimiliano Allegri ha guidato a due finali di Champions League in tre anni dopo l’addio di Conte; è accaduto all’Inter, che tra qualche giorno si giocherà le sue possibilità di approdare alle semifinali di Champions League con Simone Inzaghi in panchina. È accaduto persino al Chelsea: dopo essere stati eliminati agli ottavi di Champions dal Barcellona nel 2017/18, i Blues hanno vinto Europa League, Champions League, Supercoppa Europea e Mondiale per Club nelle tre stagioni successive. Insomma, non ci sarebbe nulla di strano in una storia che si ripete di nuovo, secondo termini e modalità che ci sono già note e familiari.  

A essere diverse, però, sono state le premesse e, soprattutto, potrebbero essere le conseguenze di quella che sarà prevedibilmente la percezione di Conte dopo questa sua seconda parentesi inglese: l’avventura anonima vissuta al Tottenham potrebbe portare il multiverso calcistico a credere che Conte non sia più in grado di allenare quei club che da grandi vuole diventare grandissimi, ma nemmeno più quei club che partono da underdog per poi trasformarsi vincitori seriali in grado di incidere e cambiare la propria cultura. Insomma, la figura di Conte potrebbe uscire ridimensionata dal suo passaggio agli Spurs. Al punto da essere considerato un tecnico che non è più sostenibile per certe squadre e sul quale per altre non vale nemmeno la pena investire per un progetto a medio-lungo termine.

Quando, nel novembre 2021, venne scelto da Daniel Levy in persona per sostituire Nuno Espírito Santo dopo un corteggiamento iniziato nell’estate precedente, era evidente che il Tottenham avrebbe costituito per Conte la sfida più importante della carriera. Per la prima volta, infatti, avrebbe avuto davvero carta bianca per costruire da zero una legacy tutta sua che sarebbe potuta durare nel tempo, che gli sarebbe sopravvissuta perché indipendente dal blasone di una squadra che questo blasone voleva conquistarlo con e grazie a lui, attraverso lui. E che proprio per questo aveva deciso di ingaggiarlo. Si trattava, allora come oggi, di provare a esplorare un nuovo lato del Conte allenatore e manager, di una prima volta che doveva andare oltre la capacità di cementare le certezze di un gruppo attraverso un’impronta tattica ed emotiva immediatamente impattante e una qualità manifesta nel far crescere e migliorare i giocatori a sua disposizione. Fino ad allora, insomma, Conte si era dimostrato fenomenale nel lavorare con e sulle macerie di nobili decadute alla ricerca della tradizione perduta, mentre stavolta avrebbe dovuto essere lui a crearla quella tradizione, quell’attitudine alla vittoria che gli era così familiare e che al Tottenham era invece così estranea.  

Sulla panchina del Tottenham, Antonio Conte ha uno score di 41 vittorie, 12 pareggi e 24 sconfitte in 77 gare di tutte le competizioni (Ryan Pierse/Getty Images)

Non è facile individuare il momento esatto in cui questo progetto è naufragato sotto il peso di risultati e aspettative non all’altezza – per quanto gli Spurs siano ancora pienamente in corsa per confermare il quarto posto in Premier League della scorsa stagione – così come non è facile stabilire quando il tecnico brillante, innovativo e aperto alle contaminazioni del primo anno alla Juventus sia diventato talmente “schiavo” dei rigidi schematismi del 3-5-2 al punto da farne la sua forza e la sua debolezza, il tratto distintivo ma anche la coperta di Linus che ne sta ritardando l’evoluzione come tecnico di alto profilo.

Proprio per questo, per provare a immaginare dove andrà Conte, per cercare la squadra che potrebbe o non potrebbe allenare, non bisogna più riferirsi solo agli elementi ricorrenti di un passato che ritorna, ma anche all’attualità di un presente che racconta di un allenatore che non è più lo stesso, di un tecnico che prima logorava chi gli stava intorno e che ora è finito logorato da se stesso. È come se Conte si trovasse in un limbo, sospeso tra la necessità fisica e psicologica di fermarsi e gli spigoli di una personalità per cui stare fermo non è stata quasi mai un’opzione da considerare, al punto da arrivare a troncare di netto dei legami che parevano indissolubili per ricominciare da un’altra parte. Eppure un periodo di pausa sarebbe fondamentale anche in chiave tecnica, di studio e aggiornamento, per capire che tipo di allenatore può diventare, quali strade può percorrere per superare quell’immagine stereotipata alla base della fama che lo ha prima preceduto, e poi l’ha consumato. Se questo Conte possa riuscirci, se possa andare oltre sé stesso e ciò che lo ha portato a dubitare del suo percorso e delle sue scelte, è la domanda – quella vera – da farsi e da fargli. Dalla risposta dipende il modo in cui uno dei tecnici più influenti degli ultimi dieci anni verrà ricordato e raccontato. Il futuro non può più essere, e non sarà, al Tottenham, ma al momento non può essere nemmeno altrove.