Pochi minuti dopo l’annuncio dell’arrivo di Antonio Conte al Tottenham, tutti i siti internet dei grandi giornali inglesi avevano gli stessi due articoli in apertura: uno su Antonio Conte al Tottenham, ovviamente, e poi accanto ce n’era un altro incentrato sul Manchester United, sul fatto che i Red Devils si fossero fatti beffare dagli Spurs, sull’idea per cui il netto risultato maturato nello scontro diretto dell’ultimo turno di Premier League (0-3 a Londra in favore di Ronaldo e i suoi compagni) abbia sancito l’esonero di Nuno Espírito Santo, ma abbia anche allungato la permanenza di Ole Gunnar Solskjaer sulla panchina di Old Trafford – quando ormai l’esonero del tecnico norvegese e la sua sostituzione con l’ex allenatore dell’Inter sembravano due ipotesi percorribili, se non già delineate all’orizzonte. La maggior parte di questi articoli di spalla, tra l’altro, si dicevano certi di una cosa: la dirigenza del Manchester United si pentirà prestissimo della scelta che ha fatto, del mancato esonero di Solskjaer e, quindi, della mancata assunzione di Conte.
Al di là delle – facili, inevitabili – ironie sulla scarsissima considerazione che tutti hanno di Solskjaer, sul fatto che la fiducia intorno all’allenatore del Manchester United sia poco più che trasparente, viene fuori un dato piuttosto significativo: in Inghilterra Antonio Conte ha un’aura mitica e mistica, è «uno che vince e basta, ovunque vada» (Nicky Bandini, sul Guardian) e altre definizioni impegnative di questo tipo. Considerando la sua storia, questa sua dimensione di allenatore proiettato ineluttabilmente al successo, Conte è stato presentato come l’uomo potenzialmente in grado di rompere il sortilegio del Tottenham – gli Spurs hanno appena “celebrato” 5000 giorni senza un trofeo sollevato al cielo. Ma non solo: sarebbe stato anche uno dei pochi tecnici in grado di riportare ordine nel Manchester United. Due imprese molto differenti tra loro ma entrambe enormi, da supereroe, anzi da vero e proprio messia della panchina.
I giornalisti inglesi non hanno esagerato. La loro visione si basa sui numeri, sui fatti, su un’esperienza diretta. Antonio Conte, infatti, ha vinto la Premier League nel 2016/17, dopo una stagione in cui il Chelsea – di Mourinho e poi di Hiddink – era finito al decimo posto in Premier League ed era stato eliminato nel sesto round di FA Cup (dall’Everton), al quarto round di League Cup (dallo Stoke City) e agli ottavi di finale di Champions League (dal Paris Saint-Germain). Il fatto che sia andata più o meno allo stesso modo anche con la Juventus (lo scudetto è arrivato al primo anno dopo un lungo periodo di digiuno per la società bianconera) e con l’Inter (scudetto alla seconda stagione dopo aver raggiunto la finale di Europa League, anche qui al termine di dieci anni senza titoli per i nerazzurri) alimenta la sensazione per cui prendere Conte equivalga a sottoscrivere un’assicurazione per la vittoria di un grande trofeo, per di più nel breve periodo. E che quindi Conte possa essere l’allenatore che farà rifiorire il Tottenham, a prescindere da qualsiasi valutazione sulla reale forza dei giocatori degli Spurs, sulla loro eventuale aderenza al calcio meccanico che dovranno praticare da oggi in poi. Quasi come se ci fosse la certezza che al tecnico salentino basterà camminare sui campi di allenamento dell’Hotspur Way Training Ground e imporre le mani sulle teste dei suoi nuovi calciatori perché il Tottenham possa trasformarsi in una squadra vincente.
Ovviamente la realtà è molto più complessa, e quindi questo processo sarà tutt’altro che immediato, tutt’altro che agevole. Per diversi motivi. Al di là dei discorsi più strettamente tattici, il Tottenham di oggi è un club che paga un gap – tecnico ed economico – molto più ampio rispetto a quello accusato dalla Juventus del 2011, dal Chelsea del 2016 e dall’Inter del 2019 rispetto alle loro concorrenti; per vincere, insomma, gli Spurs non dovranno sconfiggere non solo i loro demoni, i loro storici complessi mentali – per cui servirà fare un lavoro che Conte sa svolgere come pochissimi altri allenatori al mondo – ma anche e soprattutto delle grandi corazzate, delle società che sono molto più avanti nel loro progetto, che hanno risorse praticamente infinite e quindi continueranno inevitabilmente a progredire.
Questo differenziale risulta evidente se guardiamo al campo: al netto di quello che succederà nelle prossime finestre di mercato, il Tottenham resta una squadra-underdog, ha la quinta rosa della Premier per costo aggregato di tutti i cartellini (secondo i dati di Transfermarkt) e dei valori a dir poco squilibrati tra i vari reparti; la forza dei giocatori offensivi (Kane, Son, Lucas Moura) è superiore a quella dei centrocampisti (Holbjerg, Winks, Lo Celso, Ndombélé, il giovane Skipp) e soprattutto dei difensori (Romero, Davinson Sánchez, Dier, Tanganga); ci sono due terzini (Emerson Royal e Reguillón) che potrebbero diventare dei buoni esterni a tutta fascia per il centrocampo a cinque di Conte, ma ovviamente andrà verificata la loro predisposizione a svolgere dei compiti fondamentali nel sistema del loro nuovo manager; e poi ci sono dei laterali offensivi e dei trequartisti (i vari Bryan Gil, Alli, Bergwijn, lo stesso Lucas Moura) che – in virtù delle loro caratteristiche fisiche e tecniche – faticheranno a trovare spazio nella formazione titolare, a meno che Conte non rivoluzioni completamente il proprio approccio al gioco.
È evidente che la scelta di unirsi al Tottenham debba essere considerata una svolta, nella carriera di Conte. Certo, gli Spurs possiedono uno stadio e un centro di allenamento senza pari al mondo, ma è difficile immaginare che possano essere competitivi ai massimi livelli già nell’arco delle prossime due stagioni – Conte ha firmato un contratto fino al 2023. Magari l’ex allenatore dell’Inter avrà ricevuto delle rassicurazioni sulle campagne acquisti che verranno, oppure si sarà fatto convincere dall’insistenza di Paratici (direttore generale del Tottenham ed ex compagno d’avventura di Conte ai tempi della Juve), dal generoso stipendio garantitogli dal presidente Levy, dall’assenza di altre possibilità/offerte concrete a breve termine – Conte ha dichiarato di aver rifiutato gli Spurs in estate «perché ancora troppo emotivamente coinvolto con l’Inter», ma è francamente difficile credere che abbia davvero agito in questo modo, forse voleva godersi il sacrosanto e meritato diritto di potersi guardare intorno, prima di scegliere la sua prossima squadra. Ragionando in termini più romantici, si potrebbe pensare che Conte si sia lasciato ammaliare dal Tottenham perché il Tottenham gli ha offerto una libertà d’azione che nessun’altra squadra gli avrebbe mai garantito: al Manchester United, per esempio, Conte avrebbe avuto a che fare con Cristiano Ronaldo, ma soprattutto con il fantasma di Ferguson, con tutti gli ingombranti monumenti di un passato – antico e recente – ancora più grande di lui. E lo stesso discorso sarebbe valso anche per l’Arsenal, il Psg, il Barcellona, per tutte le grandi squadre che stanno cambiando o potrebbero pensare di cambiare allenatore nel breve o medio periodo.
Al Tottenham, dunque, Conte potrà fare ciò che gli riesce meglio: arrivare in loco, osservare e decifrare le macerie e poi costruire un progetto tutto suo, una legacy tattica ma anche emotiva che sopravvivrà al suo passaggio – come successo alla Juventus e all’Inter. Del resto a Londra sono reduci da due anni di caos, di cattiva gestione, di allenatori sbagliati (Mourinho, Espírito Santo) alla ricerca del passaggio di stato definitivo dopo l’era-Pochettino. E allora il mondo degli Spurs è un terreno fertile per una leadership totale come quella di Conte: forse solo Harry Kane, tra tutti coloro che ne fanno parte, ha uno status e un curriculum paragonabile ai suoi, tutto il resto è da creare, da plasmare, da levigare, e in questo senso non c’è un manager migliore di Conte, un rigido uomo di campo in grado di dare un’identità profondissima alle sue squadre, di creare un rapporto simbiotico con i suoi giocatori, di spingerli al punto da farli rendere ben oltre il loro valore.
Il dubbio, però, nasce esattamente in questo punto: diamo per certo che Conte permetterà al Tottenham di essere di nuovo una squadra credibile, ma dove saranno posti i limiti e gli obiettivi di questo progetto? In attesa di capire come verrà integrata o allargata la rosa attuale, fino a dove potrà arrivare il valore aggiunto di e da Conte? Quanto e su cosa la proprietà del Tottenham sarà disposta a investire, considerando che il bilancio fa segnare debiti per un miliardo di sterline dopo la costruzione del nuovo stadio? Ripensandoci, tutti gli addii di Conte – alla Juventus, al Chelsea, all’Inter – sono avvenuti proprio perché lo stesso allenatore aveva evidenziato la necessità di investire ancora dopo aver vinto, alludendo – più o meno velatamente – al fatto che lui avesse fatto il massimo mentre le sue società non avrebbero potuto garantirgli una crescita ulteriore – non a caso FourFourTwo, qualche settimana fa, si è chiesto se assumere Conte sia una scelta economicamente sostenibile. In virtù di tutto questo, il Tottenham si può già definire come la sfida più difficile nella carriera di Antonio Conte. Vincere con gli Spurs in queste condizioni di partenza, contro certi avversari, cancellando pure una maledizione che sembra eterna – la vittoria dell’ultimo titolo nazionale risale al 1961, l’ultimo trionfo europeo, in Coppa Uefa, al 1984 – sarebbe un’impresa eccezionale, a maggior ragione se si trattasse di un successo in Premier League, o anche del primo trofeo internazionale della sua vita in panchina. In questo senso, la Conference League potrebbe essere un’occasione enorme per farlo da subito, come da tradizione. Per iniziare a costruire un Tottenham in grado di cambiare la sua stessa storia. Per confermare l’aura mitica e mistica di Conte, la sua ineluttabile proiezione verso il successo. E, ovviamente, per far mangiare le mani a tifosi e dirigenti del Manchester United, ancora una volta.