Antonio Conte migliora i giocatori

Bonucci, Lautaro Martínez, ora Kulusevski e Bentancur: sono solo alcuni dei calciatori che hanno fatto il salto di qualità con l'attuale manager del Tottenham.

Dejan Kulusevski deve essere un attento osservatore della bolla social juventina. Doveva sapere di toccare un tasto dolente per i tifosi bianconeri quando ha parlato delle differenze tra la sua nuova squadra, il Tottenham, e quella bianconera. Ha detto che in Inghilterra «va tutto meglio rispetto a Torino. […] Si lavora meglio che in Italia e il merito è di Conte», che rispetto ad Allegri «è completamente diverso: dalla Juve agli Spurs mi è cambiato il mondo». Tutto questo mentre lui è rimasto sempre lo stesso: «Alla Juve non funzionava al di là di quanto mi impegnassi io». Forse voleva essere una di quelle frecciatine che si lanciano durante le interviste della pausa per le Nazionali, forse è andato dritto contro l’immobilismo della Juventus, l’incapacità del club di trarre il meglio dai suoi giocatori e di valorizzare gli asset che ha tra le mani. Però sono anche le parole di chi vuole prendersi una rivincita e quindi esagera, esaspera certi concetti con una punta di sadismo. Perché in verità Kulusevski è cambiato molto in questi mesi, è diverso in tante cose: è dentro le partite come non era mai stato a Torino, sembra aver cambiato chip nel modo di approcciare al lavoro per cui è pagato, ha un’aggressività e una cattiveria che alla Juventus non aveva mai manifestato. In meno parole: è migliorato, è migliorato molto negli ultimi nove mesi.

Dejan Kulusevski, nel suo discorso, cita due allenatori: Massimiliano Allegri e Antonio Conte. Del Di Allegri abbiamo parlato tantissimo, soprattutto del fatto che negli ultimi due anni abbia rifiutato ogni forma di approccio olistico al calcio, fondando un partito all’opposizione rispetto a chi crede che il lavoro in settimana possa migliorare i singoli e la squadra. Conte si posiziona esattamente dall’altro lato del diagramma: allena per accompagnare i giocatori nella sua visione del mondo, li istruisce e li guida per farli stare nella sua squadra – dove “sua”è inteso nel senso più forte e totalizzante possibile. È probabilmente l’allenatore che più di tutti riesce a imporre un sistema di gioco a un nuovo gruppo. Anche al Tottenham, così come al Chelsea, all’Inter e alla Juventus – con le dovute differenze – è riuscito a dare la sua impronta, seppur con qualche mese di ritardo dal momento che è arrivato a stagione in corso: nel nuovo White Hart Lane ha portato il suo calcio estremamente codificato fatto di ritmo, costruzione dal basso e creazione di triangoli per muovere il pallone. Un sistema rigido che permette anche ai calciatori meno talentuosi di esprimersi a livelli molto alti, a patto che siano in grado di rispettare le assegnazioni.

«Conte ti trasforma in un vincente», ha detto Andrea Ranocchia nel video con cui ha annunciato il suo addio al calcio. «Cambia il tuo modo di pensare e non sei più quello che eri quando lui se ne va». Il caso di Ranocchia è significativo: Conte lo ha allenato ad Arezzo durante la sua prima esperienza tra i professionisti, è l’allenatore che lo ha lanciato nel grande calcio, che gli ha permesso di costruire una mentalità e uno stile di gioco moderno, la base per una carriera al piano più alto del calcio italiano, con 16 stagioni consecutive in Serie A. I due si sono ritrovati a Milano, quando Conte era un allenatore più maturo e consapevole, probabilmente ancora migliore, e Ranocchia era nell’ultimo tratto della sua parabola, finito ai margini delle rotazioni nerazzurre. Ma nonostante questo il rapporto tra i due non è cambiato. Eppure non tutti i giocatori sono come Ranocchia. Nel senso: non tutti i giocatori sono tagliati per stare in una squadra di Conte – di nuovo, qui i complementi di specificazione sono più forti che in altre frasi. Al Tottenham, per esempio l’allenatore ha rinunciato a diversi giocatori – Giovanni Lo Celso, Tanguy Ndombele e anche Bryan Gil, che è in rosa ma è come se non ci fosse – perché il loro talento e il loro modo di intendere il gioco non si sposano con il sistema.

Non è necessariamente un dogma inscalfibile: in nessuna tappa precedente della sua carriera, infatti, Conte avrebbe rinunciato a Paul Pogba, Eden Hazard o Carlos Tévez. Solo che certi campioni sono superiori a qualunque schema, indicazione tattica o idea di gioco. Non fanno testo. Anche con Conte, che ha fatto in modo di ritagliargli uno spazio nelle sue teorie e tecniche calcistiche. Ma non sono loro i giocatori di Conte, quelli cioè plasmati da Conte: come Kulusevski e Ranocchia, ci sono stati tantissimi altri atleti che hanno beneficiato del sistema per emergere, per trovare fiducia e automatismi, e garantirsi così un posto anche ai livelli più alti. È successo con Lichtesteiner, Giaccherini e Bonucci alla Juventus: prima di incontrare il tecnico pugliese, nessuno di loro sembrava davvero in grado per reggere la titolarità di una grande squadra, invece sono diventati ingranaggi indispensabili, ognuno per un motivo, ognuno con le sue caratteristiche, ognuno nonostante i propri limiti evidenti, limiti che il sistema nascondeva o limitava per quanto fosse possibile. Abbiamo ancora davanti agli occhi la difesa a tre inventata per permettere a Bonucci di difendere con la copertura di due compagni e di essere il primo regista della costruzione bassa, per dare spazio alle corse lunghe di Lichtsteiner sui lanci millimetrici di Pirlo, mentre Giaccherini macinava chilometri da mezzala.

Da quando è arrivato al Tottenham, nello scorso novembre, Antonio Conte ha accumulato 27 vittorie, sette pareggi e 12 sconfitte in 46 partite di tutte le competizioni ufficiali (David Rogers/Getty Images)

All’Inter ha fatto un’operazione simile, ma partendo da premesse diverse: la squadra ereditata da Spalletti veniva da un trend di crescita lineare e positivo. Ma probabilmente non sarebbe riuscita a fare un salto di qualità così netto in una o due stagioni senza un allenatore in grado di portare a un livello più alto Darmian, Barella, Brozovic, e ovviamente la coppia Lukaku-Lautaro: per due anni, il belga e l’argentino sembravano legati da un rapporto in cui la dimensione tecnica e umana sfumavano fino a unirsi, un’intesa quasi vecchia scuola – con un centravanti grosso e uno più rapido a ruotargli attorno – però declinata in senso moderno, con entrambe le punte capaci di cucire il gioco sulla trequarti mentre l’altro si muove in profondità, entrambe straripanti nel condurre palla in transizione in spazi lunghi e attaccare l’area di rigore. Fatte le dovute proporzioni, Conte ha saputo costruire la bromance perfetta anche da ct dell’Italia. Anche se a pensarci bene quello composto da Éder e Pellè era un duo improbabile, parliamo in ogni caso della coppia titolare di una Nazionale arrivata a un passo dalle semifinali di un Europeo complicatissimo. Entrambi però erano perfettamente a loro agio in una sistema che chiedeva a uno di sfruttare (quasi) solo la sua bravura nelle giocate di sponda spalle alla porta, e all’altro (quasi) solo di attaccare le seconde palle e correre in campo aperto.

Ai tempi della sua prima esperienza in Premier League, Conte era partito da premesse diverse: i luogotenenti nello spogliatoio del Chelsea nel 2016/17 erano campioni già affermati, ma venivano da un decimo posto e l’intero ambiente avvertiva chiaramente il bisogno di un rinnovamento. Conte aveva visto il margine di crescita nell’Academy dei blues, da dove aveva pescato giovani come Ethan Ampadu, e in un cambio di sistema che razionalizzasse le qualità di David Luiz – reinventato come centrale à la Bonucci – e di Cesar Azpilicueta, schierato da braccetto di destra nel 3-4-2-1, e di Victor Moses nel ruolo di laterale a tutto campo anziché ala d’attacco. La capacità di migliorare i singoli a partire dall’adesione e dalla condivisione di un’idea di gioco che è tecnica e tattica, ma forse prima di tutto atletica e psicologica, è stata fondamentale per trasformare una squadra in disarmo finita a metà classifica in  una squadra da titolo in Premier. La libertà data a Eden Hazard ha portato il belga a vivere la stagione più luminosa della sua carriera, con 16 gol segnati in Premier League.

Fin dal suo arrivo al Tottenham, Conte ha trovato terreno fertile in uno spogliatoio da levigare, da modellare a piacimento, un gruppo a cui dare un’identità definita per portare il rendimento oltre il valore dei singoli. Se le capacità di centravanti totale di Kane e i movimenti affilati di Son avevano raggiunto già prima del suo arrivo un livello altissimo, gli altri elementi della squadra – da Emerson Royal a Eric Dier, da Ben Davies allo stesso Bentancur arrivato a gennaio – avevano bisogno di sviluppare automatismi e intese che potessero incanalare le loro qualità per metterle al servizio di un sistema riconoscibile e ormai mandato quasi a memoria. Dopotutto la rosa del Tottenham è solo la quinta per valore di mercato della Premier League (secondo Transfermarkt), con l’Arsenal subito dietro. Senza un lavoro di questo tipo difficilmente il Tottenham avrebbe avuto le armi per prendersi un posto in Champions League l’anno scorso, e tentare il bis quest’anno.

È evidente, insomma, che Conte ha proprio il bisogno di sviluppare e dare forma al talento dei giocatori a disposizione. I suoi metodi di lavoro e le sue idee necessitano di giocatori perfettamente integrati e funzionali per essere efficaci ai livelli più alti, per fare in modo che stiano nei modi e nei tempi come in uno spartito. La sua capacità maieutica è per certi versi una forma di sopravvivenza, un’abilità di cui non può fare a meno, indispensabile per dare alle sue squadre l’impronta che vuole, quella di cui ha bisogno per riprodurre il gioco-di-Antonio-Conte™. Probabilmente questa esigenza è allo stesso tempo il limite di un allenatore che raramente preferisce giocatori creativi e spontanei a quelli che sanno stare nel suo calcio codificato, che hanno bisogno di stare nel suo calcio codificato. Eriksen e Skriniar all’Inter sono state due eccezioni durate lo spazio di metà stagione, lo stretto indispensabile per portare a casa uno scudetto. E per strapparlo alla Juventus.