Allegri si sta auto-indebolendo con la sua strategia di comunicazione?

L'allenatore della Juventus sembra essere diventato schiavo delle sue battaglie ideologiche.

In una delle prime scene di The Dark Knight Rises, a Peter Foley viene detto che il commissario Gordon sta per essere scaricato dal sindaco di Gotham City perché «è un eroe di guerra e noi siamo in tempo di pace». Volendo forzare un parallelismo secondo cui nel calcio i tempi di pace coincidono con i cicli vincenti dei grandi club mentre quelli di guerra corrispondono alle annate più difficili, si potrebbe dire che la scelta di Massimiliano Allegri, quella di affidare la sua verità sulla crisi della Juventus a una chiacchierata – non si sa quanto informale – con Mario Sconcerti, sia stata quella tipica di un eroe di pace ritrovatosi catapultato all’improvviso in tempi di guerra. Solo che, nel caso di Allegri, si tratta di una guerra che lui stesso ha parzialmente contribuito a scatenare e dalla quale sta uscendo sconfitto. Anche, se non soprattutto, sul piano dialettico.

Normalmente, infatti, le valutazioni sulla parabola e sull’evoluzione degli allenatori delle grandi squadre dipendono per lo più dalla loro capacità di adattarsi e anticipare i cambiamenti, dalla sovrapponibilità tra il loro sistema e una nuova e diversa visione delle cose, dal modo in cui riescono a convincere i grandi giocatori a disposizione dell’efficacia di ciò che propongono quotidianamente in allenamento, dal come riescono a tradurre le indicazioni e le intuizioni teoriche nella pratica della partita. Con Allegri e per Allegri, invece, il giudizio del campo sembra già non essere più appellabile per ciò che riguarda l’immobilità, l’inefficacia e l’anacronismo della proposta di gioco, e allora l’unico altro modo per capire cosa non funzioni più in lui consiste nell’individuare cosa non funziona più della sua comunicazione, un tempo considerata come l’ulteriore unità di misura che segnava la differenza tra lui e il resto del mondo – in particolare tra lui e Antonio Conte, il predecessore alla Juve perennemente imprigionato nella sua visione io contro tutti.

La differenza sostanziale non sta nel mezzo che Allegri ha scelto per raccontare e raccontarsi – a Sconcerti e al Corriere della Sera, nel dicembre 2019, aveva già affidato il manifesto programmatico poi replicato a Sky Calcio un anno e mezzo dopo in una celebre puntata del Club – ma nel come questa verità venga percepita dai destinatari diretti e indiretti, dalla credibilità che le sue affermazioni assumono in assenza del conforto che solo i trofei possono dare. Tanto più in ragione di quel resultadismo abbracciato ormai senza riserve, in opposizione fiera e feroce ai «filosofi» che hanno reso il calcio «un mondo di professori» in cui sono in pochi a comprendere i valori della genuinità, della semplicità, della tecnica dei calciatori che prevale sugli schemi e degli uomini che sono ancora «più forti della tecnologia». E se fino a qualche anno fa Allegri poteva permettersi di dire tutto e il suo contrario, riuscendo comunque a risultare lo scanzonato guascone in grado di stravolgere i protocolli e i rigidi formalismi della sala stampa, oggi questa continua necessità di un esegeta – sia esso Sconcerti, il club di Caressa o il vecchio maestro Galeone – che ne interpreti le parole, che traduca e giustifichi i suoi pensieri, i suoi gesti e le sue intenzioni, è lo specchio fedele delle sue difficoltà in una situazione per lui inusuale. Da qui si è generato un cortocircuito che da individuale è diventato collettivo, fino a risultare allo stesso tempo causa e conseguenza della crisi di gioco, risultati e identità della Juventus.

La principale critica che normalmente viene rivolta ad Allegri riguarda il suo non saper più uscire dal personaggio che ha deciso di interpretare subito prima e poi dopo la famigerata lite in diretta tv con Adani, al culmine di una stagione in cui il confronto – filosofico prima ancora che tecnico o tattico – con Maurizio Sarri lo aveva logorato ben più di quanto avesse cercato di dare a vedere. Al punto che la sua visione e i suoi comportamenti possono essere considerati un atto di ribellione contro i “giochisti” e i “teorici” che impediscono di riconoscere «l’importanza dei giocatori e il vero ruolo dell’allenatore». È sicuramente così, ma è vero pure che quello di Allegri è un approccio quasi scientifico per celebrare un sistema di valori ben riconoscibile: il suo. Il tecnico della Juve sta applicando una strategia che ricalca quella tipica degli spin doctor e dei social media manager dei politici moderni e che, nel suo caso, trova riscontro nel fatto di porsi come riferimento credibile dell’appassionato medio attraverso un manifesto ideologico di facile impatto: quello del calcio semplice, l’unico argine alla deriva tecnologica e statistica che rischia di annacquare il ricordo dei bei tempi che furono.

Il punto è che i risultati hanno sostenuto queste parole fino al termine del suo primo ciclo in bianconero. Ora non è più così, anche perché la continuità tra il pensiero di Allegri e ciò che la Juventus-squadra fa in campo è piuttosto distante da ciò che sembra voler fare la Juventus-società. È accaduto e sta accadendo rispetto all’idea del Live Ahead, letteralmente vivi avanti, il nuovo motto coniato nel 2019; con il progetto giovani prima annunciato dal ds Cherubini nel settembre 2021 in un’intervista esclusiva a Tuttosport e poi ridimensionato dal tecnico nemmeno due mesi dopo, con queste parole: «Quelli che vengono avanti sono i giocatori che vengono dalla Lega Pro, poi passano dalla Serie B e poi ancora arrivano in Serie A come si faceva trent’anni fa. La crescita di ogni singolo giocatore deve essere quella, non bisogna inventarsi niente». E, in fondo, è accaduto pure con il progetto di sport entertainment legato alla Super Lega, un’utopia pensata per le nuove generazioni che però confligge con la retorica del corto muso, con le teorie per cui «nel calcio non si inventa nulla», per cui «gli schemi non esistono», per cui il lavoro settimanale è marginale perché «l’allenatore si riconosce solo il giorno della partita», per cui l’efficacia dei nuovi modelli di riferimento è solo frutto di un grande equivoco.

Massimiliano Allegri è tornato ad allenare la Juventus nell’estate 2021: da allora il suo score è di 31 vittorie, 15 pareggi e 15 sconfitte in 61 gare di tutte le competizioni (Marco Bertorello/AFP via Getty Images)

Nell’estate 2021 tutti ci chiedevamo cosa dovessimo aspettarci da una Juventus allenata da un tecnico rimasto fermo due anni, e se nell’Allegri 2.0 la rinnovata voglia di allenare dipendesse dal bisogno di vincere o dalla necessità di dimostrare di avere ragione dopo aver subito l’onta di un esonero di cui non ha mai compreso le motivazioni. Quindici mesi dopo, le sue interviste e il modo in cui le affronta rendono sempre più evidente il fatto che Allegri sia animato da un profondo sentimento di rivalsa, e questo lo porta a esprimersi per dogmi e frasi fatte – lui che si è sempre presentato come l’anti-dogmatico per eccellenza – a costo di andare contro ciò che il campo e la realtà gli stanno dicendo.

Il risultato sono dei monologhi auto-assolutori che, ed è questo il vero problema, finiscono per indebolire la sua credibilità da allenatore e quindi il suo progetto alla guida della Juventus. Innanzitutto perché frasi come quella pronunciata dopo l’1-1 di Firenze e alla vigilia della sfida in casa del Psg – «Siamo realisti, la partita più importante della Champions è quella in casa con il Benfica» – ridimensionano le potenzialità della sua squadra. Come se non bastasse, poi, è arrivata anche la sconfitta dell’Allianz Stadium contro i portoghesi, un 1-2 ben più devastante di quanto non dica il punteggio se consideriamo la facilità con cui la squadra di Roger Schmidt è riuscita ad andare oltre lo svantaggio iniziale e poi ha dominato e vinto la gara. Ovviamente il riferimento non è casuale: se nel calcio esistono quelle categorie che sono state al centro di altre dichiarazioni piuttosto controverse di Allegri, secondo cui «nel calcio ci sono delle categorie altrimenti alcuni giocatori non costerebbero di più di altri», è vero pure che la squadra messa in campo da Schmidt non era poi così superiore a quella schierata da Allegri. E allora si può giocare per sovvertirle, quelle categorie, piuttosto che accettarle passivamente.

Sulla medesima lunghezza d’onda si trovano ulteriori uscite di Allegri in questo inizio di stagione: il riferimento sistematico a una «Juve virtuale» perché priva di diversi infortunati e il ribadire che che Miretti ha grandi qualità «ma non è Pogba» fotografano una porzione di verità, di realtà, ma di certo non aiutano gli aspiranti titolari a sentirsi apprezzati o valorizzati; allo stesso modo, dire che «basta passare il pallone a quelli con la maglia dello stesso colore» e che le partite non si vincono «perché la squadra ha sbagliato troppo tecnicamente» finisce per polarizzare il dibattito solo sui giocatori, come se Allegri non volesse ammettere a se stesso, prima ancora che gli altri, che anche lui può fare male dei calcoli e/o non avere intuizioni esatte. Che forse il calcio non è una cosa così semplice. Anche sostenere che «i giocatori di oggi non interpretano ma ubbidiscono perché è la strada più facile» è un modo per de-responsabilizzarsi, e in qualche modo si pone in contrapposizione a un nemico che in realtà non esiste. Insomma, la comunicazione di Allegri ci restituisce l’immagine di un allenatore che, più o meno come Arthur Fonzarelli di Happy Days, pare essere incapace a dire ho sbagliato. Solo che in Happy Days Fonzie riusciva comunque a fare un passo indietro, a risolvere la situazione traducendo nei fatti ciò che non voleva dire con le parole. Mentre l’allenatore della Juventus e quindi anche la Juventus non sembrano essere più in grado di fare altrettanto.