Da chi deve ripartire la nuova Juventus di Allegri?

Quali giocatori della rosa bianconera sono adatti per la restaurazione?

Nell’ormai celebre intervista rilasciata a Mario Sconcerti e al Corriere della Sera nel dicembre 2019, Massimiliano Allegri si disse convinto che una delle riscoperte più interessanti del calcio contemporaneo consistesse nel «capire  l’importanza dei giocatori e il vero ruolo dell’allenatore» in un mondo in cui, a suo dire, «non esistono gli schemi, non esiste l’intelligenza artificiale», ma in cui «conta l’occhio del tecnico». Insomma, secondo Allegri quello dell’allenatore è un ruolo residuale o comunque subordinato all’idea che tutto sia legato all’abilitò di valutare intuitivamente gli elementi a disposizione, e alla capacità di metterli nelle migliori condizioni possibili, quelle che gli permettono di rendere al meglio.

Si trattava, e si tratta ancora, del manifesto allegrista per eccellenza, è la dichiarazione d’intenti di un allenatore vecchia scuola che si è visto improvvisamente catapultato nell’era dei “laptop trainer” ai quali opporre l’idea di un gioco semplice, da riconsegnare ai calciatori, senza la necessità di ulteriori sovrastrutture filosofiche e culturali: «Il calcio è di tutti. Se non hai il regista che cerchi, niente ti vieta di giocare con due mediani nel mezzo. L’importante è la qualità dei giocatori». È un pensiero, diretto, essenziale, è l’espressione di un minimalismo anti-sistema nell’epoca in cui lo star system di chi sta in panchina eguaglia – e supera, in certi casi – quello di chi va in campo. «A giugno voglio rientrare: non sono in astinenza ma mi manca godere delle gesta dei miei calciatori», disse Max lo scorso marzo nel salotto di Sky Calcio Club.

Ne deriva che, per provare a immaginare quella che sarà Juventus 2021/22, bisogna partire proprio da loro, dai calciatori, dalla loro centralità in un contesto in cui è il sistema a dipendere dagli interpreti e non il contrario, dal loro poter essere – o poter diventare – dei giocatori di Allegri in senso stretto. Dei giocatori, cioè, reattivi, multidimensionali, adattabili, già formati nella loro conoscenza calcistica di base e nella capacità di lettura delle situazioni all’interno di quelli che lo stesso Allegri ama definire «i momenti della partita». Non è tanto – o non è solo – una questione di avere i calciatori più forti ma di avere i calciatori più adatti, cioè più funzionali nell’assecondare ciò che un allenatore come Allegri vuole e può arrivare a chiedere, soprattutto nel corso di una stagione da 60 gare potenziali in tutte le competizioni.

Per questo, se da un lato la scelta di affidare di nuovo la panchina ad Allegri risulta perfettamente coerente con l’idea di rivalutare e far rendere una rosa assemblata negli anni seguendo la logica dell’opportunità hic et nunc, dall’altro questa decisione sembra non tenere conto del tipo di lavoro che Allegri sarà chiamato a svolgere dopo due anni di sostanziale inattività. Un lavoro diverso per una Juventus diversa, un lavoro di (ri)costruzione più che di rifinitura, improntato alla definizione di un’identità tattica chiara, e non più solo alla gestione delle risorse di un parco giocatori qualitativamente e quantitativamente superiore alla concorrenza. Un lavoro, quindi, che contrasta con l’immagine che siamo abituati ad associare ad Allegri o, meglio, con l’immagine dell’Allegri post finale di Cardiff 2017: un Allegri conservativo, reattivo e, per certi versi, persino integralista nella difesa a oltranza del primato del risultato sulla prestazione, così come nella lotta contro i filosofi che parlano con «slogan riversati su ragazzi che a loro volta scambieranno il calcio con un’altra serie di slogan». Un paradosso per un tecnico che, tra il 2014 e il 2017, era sempre riuscito a trovare il compromesso tra il fine e i mezzi, tra estetica e praticità, sperimentando, rinnovando e rinnovandosi, andando oltre le sue convinzioni di partenza.

Se ne facciamo una questione di nomi (vecchi) che costituiscano le fondamenta della Juventus (nuova), uno spunto interessante lo ha fornito Adrien Rabiot in una recente intervista alla Gazzetta dello Sport: «Allegri ha vinto tantissimo con la Juve, all’epoca firmai anche perché sapevo che c’era lui in panchina. Penso che in questi due anni abbia osservato le evoluzioni del calcio». Una dichiarazione significativa perché proveniente dal giocatore più allegriano di tutti dell’attuale rosa bianconera, e che è risultato decisivo nell’ultimo: il francese, infatti, ha mostrato come il suo profilo coinciderebbe alla perfezione con quello della mezzala di corsa e inserimento da schierare sul lato di Cristiano Ronaldo in un ipotetico 4-3-3. Rabiot, insomma, giocherebbe nel ruolo che fu di Matuidi, un centrocampista con la stessa superiorità fisica e atletica, che però aveva mezzi tecnici piuttosto grezzi e limitati. Il condizionale è d’obbligo nella misura in cui non c’è certezza circa la permanenza di Ronaldo – da convincere, magari, a giocare da prima punta – ma nemmeno dello schema base su cui poi innestare gli accorgimenti richiesti da partita e avversario.

Se si guarda alle caratteristiche dei giocatori offensivamente più importanti e futuribili – quindi Chiesa, Morata, Kulusevski e Cuadrado – risulta quasi scontato immaginare una Juventus più dinamica, più immediata e verticale rispetto al passato recente, una Juventus schierata con un 4-2-3-1 organizzato per blocchi difensivi bassi e che, in attacco, punti a ripartire in campo aperto dopo il recupero palla. In un sistema del genere, lo stesso Rabiot difficilmente potrebbe essere impiegato come interdittore in un centrocampo a due, laddove per compiti e funzioni, risulterebbe più adatto un Bentancur in cerca di riscatto – e che proprio a Massimiliano Allegri deve il debutto da titolare in Champions League, per di più al Camp Nou, contro il Barcellona nel 2017. Accanto a lui, poi, servirebbe un “5” in grado di gestire i tempi dell’uscita del pallone dalla difesa: un ruolo che sembra più nelle corde di Danilo che di Arthur. L’ex Barcellona è più una mezzala di possesso che tende a giocare sempre ad almeno due tocchi, e che troverebbe collocazione solo in un centrocampo a tre in cui i compiti di prima costruzione fossero demandati ad un giocatore come Locatelli, dotato di una diversa velocità di piede e di pensiero. Trenta metri più avanti, Paulo Dybala dovrebbe tornare a essere – salvo nuove storyline di calciomercato – il candidato naturale a ricoprire il ruolo di trequartista/sottopunta che lo consacrò a livello internazionale nella seconda parte della stagione 2016/2017, soprattutto in considerazione del fatto che Ramsey avrebbe tutto per essere titolare, tranne l’affidabilità fisica che servirebbe per diventarlo con la necessaria continuità; sugli esterni, poi, Chiesa e Kulusevski, oltre a occupare le tracce di corsa in situazione dinamica, avrebbero il compito di creare la superiorità numerica e posizionale in situazioni di attacco a difesa schierata, sfruttando la naturale inclinazione di entrambi ad accentrarsi, calciare, rifinire e generare occasioni senza dover essere per forza schierati a piede invertito.

Danilo è stato il giocatore più utilizzato da Pirlo nella stagione 2020/21: ha accumulato 3.831 minuti di gioco spalmati su 46 partite di tutte le competizioni (Valerio Pennicino/Getty Images)

Diverso il discorso se si ragiona in ottica 3-5-2. Dando per scontata l’inamovibilità di De Ligt – che però, dal punto di vista dell’interpretazione del ruolo, ha un background culturale opposto a quello dei difensori che Allegri è stato abituato ad allenare fino a due anni fa – il ritorno alla difesa a tre permetterebbe di facilitare il (re)inserimento in pianta stabile di Demiral, garantire la necessaria alternanza tra Bonucci e (forse) Chiellini e gestire le rotazioni contando su quattro centrali puri e su due elementi come Danilo e Alex Sandro, terzini eclettici da utilizzare all’occorrenza come braccetti di destra o di sinistra. Un cambiamento non da poco rispetto all’epoca fondata sul culto e sulla forza narrativa della BBC, da sempre individuata come unico punto di partenza possibile per arrivare alla vittoria. Il problema si pone nel momento in cui si prova a immaginare l’omologo di Cuadrado come esterno a tutta fascia sul lato sinistro: provare un recupero tecnico e psicologico di Bernardeschi o adattare Chiesa con il rischi di diminuirne incisività e impatto nell’ultimo terzo di campo? Ad oggi entrambe le opzioni appaiono poco praticabili a medio termine, soprattutto in previsione di un ulteriore avvicinamento di Chiesa alla porta avversaria, una mossa che permetterebbe di utilizzarlo da seconda punta classica, spalancando le porte al 4-3-1-2 tanto amato da Allegri. A quel punto, il trequartista dinamico (per esempio De Paul) o fisicamente dominante (per esempio Milinkovic-Savic) diventerebbero il target/focus del prossimo mercato bianconero, a meno che non si voglia trasformare McKennie nel Vidal o nel Pereyra del 2021, investendo su una mezzala – per esempio Aouar, o uno dei tanti “Pogba wannabe” in rampa di lancio.

Si tratta, in ogni caso, di speculazioni. O meglio: di suggestioni che, al momento, mancano del riscontro fattuale del campo e che risultano fatalmente legate al ricordo che abbiamo di Allegri e al suo modo di intendere il calcio. Qualcosa che potrebbe anche essere stato superato dal mondo e dal tempo o dalla circostanza di una sfida professionale diversa da quelle cui si era abituato. Ipotizzare che Allegri “conosca” – nel senso di conoscenza di limiti, potenzialità e caratteristiche – e sappia cosa fare di buona parte della Juventus attuale è plausibile; immaginare che riparta in blocco da tutti quegli elementi che gli assoceremmo sulla base di ciò che è stato nel suo ultimo biennio su una panchina di un top club è un esercizio di stile che non tiene conto di ciò che Allegri stesso potrebbe essere diventato nel frattempo. Un dettaglio non da poco e che potrebbe ribaltare la concezione di “Juventus che riparte da” che stiamo costruendo sulla base di rumors, voci, sensazioni, certezze che non sono tali. Perché l’unica cosa certa è che Massimiliano Allegri ripartirà dai giocatori, prima ancora che da sé stesso: quali e perché è persino irrilevante. Come al solito, come sempre.