Allegri è tornato alla Juventus per vincere ancora, e per avere ragione

Ha iniziato il suo secondo ciclo in bianconero con un consenso enorme, ma stavolta la sfida sembra più difficile. Riuscirà a ripetersi?

Per ragioni che presto o tardi dovrò chiarire con l’aiuto della psicanalisi, guardando la conferenza stampa di (ri)presentazione di Massimiliano Allegri alla Juventus mi è tornato in mente il leggendario monologo che Alan Moore mise nella mente di Rorschach, la sconvolgente apertura dell’opera che avrebbe cambiato per sempre il fumetto americano (e non solo). Per motivi che prima o poi dovrò farmi spiegare da un analista, i miei occhi mi mostravano Allegri avvolto dal trench beige, addobbato con il fedora pecan, protetto dai guanti di pelle marrone che compongono il costume-non-costume disegnato da Walter Gibbons per l’alter ego vigilante di Walter Kovacs. E invece della voce di Allegri sentivo quella arrochita di Jackie Earle Haley, che di Rorschach è stato l’interprete nella trasposizione cinematografica di Watchmen diretta da Zack Snyder. «Carcassa di teorico in un vicolo stamattina, tracce di tacchetti sullo stomaco spappolato. Questo campionato ha paura di me. Io ho visto il suo vero volto. Gli stadi sono grosse pozzanghere e le pozzanghere sono piene di filosofia e quando alla fine le fogne si ricopriranno di croste tutti i teorici affogheranno, la tattica e gli approfondimenti accumulati come sudiciume li sommergeranno fino alla cintola… E i giochisti e gli esteti guarderanno verso l’alto e grideranno: “Salvaci!”. E io sussurrerò: “È molto semplice!”».

Dopodiché la mia mente ha riacciuffato la frequenza della realtà e il mondo è tornato quel che è: Allegri era Allegri, la conferenza stampa una conferenza stampa, la Juventus una squadra di calcio. Ma adesso non me la tolgo più dalla testa l’analogia che porta Allegri a essere il brutale ed efficace vigilante della Serie A: «Nessun compromesso, nemmeno di fronte all’Apocalisse», me lo immagino a dire ad Andrea Agnelli per convincerlo che Morata va benissimo, Padoin è perfetto, che bisogna cominciare a pensare al rinnovo di De Sciglio perché con la scadenza al 30 giugno dell’anno prossimo quello non sta tranquillo e non rende quanto potrebbe.

Allegri è tornato in bianconero per (ri)vincere, è un’intenzione ovvia ma anche un obiettivo difficile: questa Juve è messa peggio, molto peggio, sia di quella che ricevette da Conte sia di quella che lasciò (a malincuore, come abbiamo appurato) a Sarri. Allegri è tornato alla Juventus per avere ragione, per il piacere dolciastro e meschino che solo la frase “ve lo avevo detto, io” sa suscitare in chi la pronuncia. Se ne andò (fu mandato via) perché il suo calcio era molto italiano, come la direbbe Stanis La Rochelle: «Io divido gli allenatori in tre categorie. La prima è quella che comprende un piccolo drappello di geni, di innovatori, che mettono il gioco al centro del loro progetto. La seconda è quella degli orecchianti che seguono la moda senza sapere un granché. La terza riguarda quelli orgogliosamente aggrappati al passato, che fanno della tattica esasperata il loro modus operandi, che sono ingessati a un solo sistema di gioco. Max è una via di mezzo tra le prime due: è un grande tattico, sa cambiare in corsa, però non deve accontentarsi solo di vincere» disse di lui Arrigo Sacchi in un’intervista a LaPresse in cui arriva a pure a paragonare la Juve al Rosenborg, cioè vincente per sempre in patria e poi basta. Da vanitoso, quindi da permaloso, Allegri non gliel’ha mai perdonata, tra lui e Sacchi le storie sono sempre state tese. Tanto più che Sacchi, nella stessa intervista, fece lo smielato con Antonio Conte, l’unico al quale Allegri abbia dovuto cedere il passo da quando ha lasciato la provincia per trasferirsi nella città del calcio italiano. È un dispiacere che i due, Allegri e Conte, si siano incrociati solo una volta fino ad adesso, per una stagione epica di cui resta il gol di Muntari e «devono vincere lo scudetto ma devono cacare sangue». Si capisce, ovviamente, che non tutti gli anni possono reggere la tensione drammatica di quella volta. Ma si capisce, pure, come il calcio ormai viva delle personalità larger than life in cui si incarna: quanto sembra già più stuzzicante la prossima stagione con il ritorno di Allegri, di Spalletti e di Sarri e nonostante Conte se ne sia andato un’altra volta?

Dopo due anni, però, l’opinione pubblico-calcistica italiana ha scoperto che “A NOI LA QUALITÀ CI HA ROTTO IL CAZZO!”, sempre per stare nell’aforismario di Boris. Gli stessi che lo sminuivano perché così provinciale ora festeggiano Allegri e il ritorno del tanto pragmatico: vincere non è importante, è l’unica cosa che conta, soprattutto alla fine di un anno in cui la maggiore soddisfazione del calcio italiano è stata la Roma in semifinale di Europa League. Per due anni Allegri se ne è stato comodo comodo a godersi lo spettacolo della vox populi che arrivava a sovrapporsi alla vox dei (cioè alla sua): “è molto semplice” è il grido di battaglia con cui una fazione è riuscita a ridurre tutti i problemi del calcio italiano a un passaggio di troppo e troppo vicino all’area di rigore. Allegri, con l’intuito populista degno di un seggio in Parlamento, ha interrotto il riposo solo in un paio di occasioni e solo per ribadire il messaggio: una volta in un’intervista a Mario Sconcerti sul Corriere della Sera, un’altra per una serata semi-seria allo Sky Calcio Club di Fabio Caressa. In entrambe le occasioni la sostanza era la stessa: certo che è molto semplice e certo che sto tornando. Poi, certo, ogni volta resta la domanda: ma perché fa così? È talmente evidente la contraddizione tra quello che dice e quello che fa: il suo bellissimo Cagliari era una squadra “molto semplice”? E il suo Milan campione d’Italia? E la sua Juve tra le grandi d’Europa? L’arcano che sta incastonato al centro del personaggio-Allegri è proprio l’indecifrabilità del personaggio che ha scelto di interpretare. Cui prodest?

E ora è di nuovo alla Juve, ma per la prima volta ci sta con un consenso ai livelli dei presidenti nei loro primi 100 giorni al governo. Non gli era successo al Milan e non era andata così la prima volta alla Juve, e forse è proprio per questo che alla fine andò bene da una parte e benissimo dall’altra: Allegri è di quelli che si sentono in credito fortissimo con la sorte, che da calciatore gli ha negato la carriera che il suo talento gli aveva promesso e che da allenatore gli ha negato il consenso (di più, l’affetto) popolare nonostante risultati che nessun altro tecnico italiano ha nemmeno sfiorato. Per riscuotere questo credito è sempre stato disposto, ed è sempre riuscito, ad andare oltre lo scetticismo maggioritario e le premesse traballanti. E da lì sei scudetti in bacheca e due Champions League sfiorate.

Il primo ciclo di Allegri alla Juventus è durato dal 2014 al 2019: il suo score complessivo è stato di 191 vittorie, 43 pareggi e 37 sconfitte in 271 gare di tutte le competizioni, con la vittoria di cinque scudetti, quattro Coppe Italia e due Supercoppe Italiane (Valerio Pennicino/Getty Images)

Allegri è tornato alla Juve ma è come se ci arrivasse la prima volta. La squadra è da risistemare e, non fossimo in mezzo allo sconquasso economico lasciato dalla pandemia, quest’anno l’Inter sarebbe ovviamente la squadra da battere e la Juve quella da ricostruire, la stagione prossima o addirittura quella dopo ancora la scadenza per riportare la vittoria ai bianconeri. E invece l’Inter rifonda per non affondare, quindi la Juve parte favorita pur dovendo rifondare: sì può fare la solita cosa e allo stesso tempo cominciarne una nuova? Si può vincere come se questa fosse la sua vecchia squadra e allo stesso tempo lavorare per mettere assieme la prossima? È una sfida da manager più che da mister, da allenatore che comanda in ogni ambiente e in ogni momento e in ogni movimento della sua squadra. E in effetti questo ritorno di Allegri alla Juve sa di promozione, di un fedele impiegato che finalmente ottiene la promozione al ruolo dirigenziale che da tanto stava aspettando: la versione della pace dei sensi accettabile per un workaholic, un nevrotico, un ossessionato. «Il mio lavoro è sempre quello dell’allenatore aziendalista, una parola che mi piace molto», dice in conferenza stampa, con la faccia di uno che parla per insinuazioni: anche a fare l’aziendalista c’è chi può e chi non può, e Sarri non può, e Pirlo non può.

Questi primi giorni di nuovo in bianconero confermano l’impressione: il ruolo di vice-capitano negato a Bonucci in passato sarebbe stato il primo scazzo della stagione, e invece stavolta è tutto “molto semplice”, il contatore delle presenze si è azzerato quando lui se ne è andato al Milan (vanitoso, permaloso, rancoroso, Allegri non dimentica) e quindi adesso quel posto spetta a Dybala, e a Bonucci resta solo il post su Instagram in cui si mostra tutto sudato, tutto accaldato all’inseguimento della fiducia perduta, e ai giornalisti i rimasugli di una polemica che sarebbe potuta essere e di un articolo che si sarebbe scritto da solo. Il ritorno in panchina di Allegri è una bella notizia: questa stagione ci dirà se ha ragione lui, se davvero è tutto molto semplice e se davvero vincere è l’unica cosa che conta.