Quando si entra nella sala stampa del Madison Square Garden per una partita dei New York Knicks, c’è un foglio che balza subito all’occhio. Tra i vari elenchi delle postazioni dei giornalisti – se vieni dall’Italia quasi certamente finirai in “piccionaia”, ma si è visto di peggio: dal nuovo The Bridge che sovrasta il campo si vede comunque benissimo — e avvisi degli orari delle conferenze stampa gli allenatori, ce n’è uno che si chiama “CELEBRITY ROW”. Uno dopo l’altro vengono dettagliatamente elencati tutti i VIP presenti a bordo campo con tanto di posto a sedere e orario in cui verranno inquadrati dalle telecamere, sia per dare ai fotografi delle coordinate per concentrare i propri scatti, sia per i giornalisti che vogliono dare un po’ di colore ai propri pezzi. Esiste una cosa più newyorkese di questa? Attori, registi, star e pseudostar dello spettacolo non sono mai mancate a bordo campo per le partite alla “World’s Most Famous Arena”, figuriamoci adesso che la squadra sta andando incredibilmente bene.
Poche ore fa è arrivata la vittoria della NBA Cup, pochi mesi dopo la sconfitta in finale di Conference – traguardo che i Knicks non raggiungevano dal 2000. Sono giorni di entusiasmo enorme, raro. Il Madison Square Garden è piantato nel cuore di Manhattan, di fianco a uno snodo cruciale come Penn Station, e i Knicks che lo detengono (anche fattivamente: la proprietà della squadra possiede anche l’arena, oltre alla squadra di hockey dei Rangers) nell’ultima primavera hanno finalmente dato ai newyorkesi più di una ragione per tifarli. Il tifo di New York è sempre stato molto caldo, seppur con delle differenze tra ciò che accade dentro il MSG e ciò che accade fuori. I prezzi esorbitanti dei biglietti per le partite e il fiume ininterrotto di turisti che vogliono vedere una partita in un luogo storico dello sport mondiale rende inevitabilmente più “annacquata” l’esperienza di una gara rispetto a quello che era una volta, ma basta sempre pochissimo per accendere di entusiasmo il pubblico di casa e a far “vibrare” l’arena. Un tuffo di un giocatore, un canestro che costringe gli avversari al timeout, una stoppata tonante o una schiacciata spettacolare: quando il Garden è in serata, non c’è nessun altro posto che regga il confronto — e questo lo sostengono soprattutto i protagonisti in campo, che adorano giocare su quel campo e tengono per quel palcoscenico il meglio del loro repertorio.
La vera differenza dell’ultima stagione sta in quello che è accaduto fuori dal Madison Square Garden, dove un entusiasmo del genere non si vedeva da decenni. I Knicks hanno organizzato numerosi viewing party da dieci dollari in giro per la città, anche in location storiche come il The Oculus al World Trade Center, la Radio City Music Hall, Central Park e, ovviamente, l’esterno del Garden stesso, dove durante i playoff si sono viste scene sopra le righe — nel bene, come l’entusiasmo travolgente dei tifosi, e nel male, con diversi tifosi di squadre avversarie “accompagnati” non proprio simpaticamente dai tifosi della squadra di casa mentre lasciavano l’arena — tutto molto spesso a favore di smartphone per postare il prima possibile sui social.
A rappresentare meglio di chiunque altro questa dicotomia tra i Knicks dentro al MSG e quelli fuori c’è il nuovo tifoso VIP per eccellenza dei blu-arancio: Timothée Chalamet. A suo modo, l’attore di Dune è diventato protagonista dei playoff tanto quanto i giocatori in campo. Pur essendo una delle celebrità più famose al mondo, Chalamet è un tifoso vero, non di facciata: nel 2010, a soli 15 anni, aveva usato tutti i suoi risparmi per acquistare un abbonamento annuale ai Knicks nella speranza che LeBron James decidesse di firmare con New York, così da vedersi le partite di King James e, eventualmente, rivendere il suo posto in alcune partite per rientrare dall’investimento. James però scelse Miami e Chalamet si ritrovò in più di un’occasione fuori dal Garden a svendere il suo posto, cercando di racimolare qualche soldo.
Sempre nel 2010, poi, rispose correttamente a un quiz sui social organizzato da due giocatori della squadra, Landry Fields e Andy Rautins, vincendo due biglietti per una dimenticabile partita interna contro gli Washington Wizards. La foto di lui 14enne (facendosi chiamare peraltro Tim) in mezzo ai due giocatori della sua squadra del cuore ha fatto il giro dei social, così come il suo volto è stato inquadrato in ogni partita ai playoff della sua squadra del cuore. Chalamet è stato presente tanto in casa (portandosi al fianco la fidanzata Kylie Jenner, per la gioia dei paparazzi) quanto soprattutto in trasferta, spesso insieme a un altro VIP come l’attore comico Ben Stiller. E anche quando non è potuto essere presente di persona, ha preferito paccare un evento clou come il MetGala per rimanere a casa a guardare i Knicks impegnati in gara-1 contro Boston insieme ai suoi amici. Ha avuto ragione lui, visto che ne è uscita una rimonta epica con tanto di vittoria all’overtime. Tutti questi elementi hanno portato Chalamet a essere eletto a nuovo tifoso VIP della squadra, andando a intaccare un posto che storicamente appartiene a Spike Lee. Il regista di Fa’ la cosa giusta ha legato a doppio filo la propria immagine pubblica a quella della sua squadra del cuore, di cui non si perde una partita per nessun motivo al mondo, pagandosi tutti i biglietti (anche perché i rapporti con il proprietario James Dolan sono estremamente tesi) e partecipando anche a eventi di scarso interesse, tipo la cerimonia del secondo giro al Draft NBA oppure le conferenze stampa degli allenatori, dove è quasi la normalità vederlo vedersi in fondo alla sala per ascoltare.
Chalamet è il volto fresco e nuovo dei Knicks, ma Spike Lee è la memoria storica che lega i ruggenti anni Novanta alla rinascita di New York — e non ha intenzione di perdersi neanche un minuto di una squadra finalmente vincente dopo anni di disastri. La terza partecipazione consecutiva ai playoff ha infatti rimesso i Knicks al centro del discorso newyorkese dopo decenni in cui se ne parlava solamente male. Tra il 2000 e il 2023 sono riusciti ad arrivare ai playoff solo sei volte, vincendo a malapena una serie di playoff, passando attraverso momenti di gestione tragici come quelli guidati da leggende del calibro di Isiah Thomas e Phil Jackson.
Vincere a New York sembrava impossibile: troppe pressioni, troppa stampa, troppe distrazioni, troppa incompetenza da parte di Dolan, personaggio a dir poco impopolare tra i tifosi blu-arancio per la sua onnipresenza dietro le quinte e il suo assenteismo ogni volta in cui è arrivato il momento di prendersi le responsabilità. Poi un potentissimo agente come Leon Rose ha deciso di cambiare carriera e diventare dirigente dei Knicks, assumendo Tom Thibodeau come capo-allenatore e prendendo Jalen Brunson sul mercato dei free agent nel 2022, e tutto è cambiato. Pezzo dopo pezzo, a New York hanno costruito una squadra non solo vincente, ma anche nella quale è facile identificarsi per i suoi tifosi:
Avere dei New York Knicks rilevanti e competitivi è assolutamente un bene per la NBA, che ha bisogno che una delle sue franchigie più storiche — i Knicks hanno disputato la prima partita in assoluto nella storia della lega contro i Toronto Huskies nel 1946 — abbia successo in un mercato di dimensioni gigantesche come quello della Grande Mela. Serve per rimanere attrattivi in un mondo in cui guadagnare l’interesse delle persone è tanto facile quanto perderlo in un secondo: ora che si sono ripresi il cuore di New York, i Knicks non hanno intenzione di lasciarselo sfuggire tanto facilmente. Ed è anche per questo che, pur avendo vissuto la stagione di maggior successo nel nuovo millennio, hanno deciso di cambiare guida tecnica, licenziando Thibodeau e prendendo al suo posto il due volte Allenatore dell’Anno Mike Brown. Perché anche loro sanno che l’asticella deve andare di pari passo con le aspettative sempre maggiori. Una volta tornati in finale di Conference, una volta vinta la NBA Cup, ora ci si aspetta il ritorno alle Finals per la prima volta dal 1999. E, ancor di più, il primo titolo dal lontanissimo 1973. Altrimenti è un attimo ritornare nel dimenticatoio in una città che notoriamente non dorme mai, ed è anche capace di cambiare umore nello spazio di un secondo.