Ricordo ancora precisamente il momento in cui mi innamorai. Era sabato mattina e avevo appena chiuso la porta di 170 The Drive, una delle tante case a schiera del quartiere di Ilford, un sobborgo nel nord-est di Londra. Percepii immediatamente che l’aria, il sabato mattina in Inghilterra, era diversa. Sarà stato per gli odori, l’immancabile sibilo del vento o le sirene in lontananza. O per un’incomprensibile convinzione che tutto il Paese, in quegli attimi, fosse impegnato nei piccoli medesimi rituali. C’era aria di attesa. Che già di per sé è magica perché per natura pregna di aspettative e pensiero positivo. Aria di cambiamento. Il primo giorno della settimana in cui l’olio nella miscela del motore non era l’ossessiva produttività scandita dagli sguardi seri che si incontrano in metro durante la settimana, ma il calcio.
L’importanza di un prima
Questo vaneggiamento sensoriale può sembrare ricco di retorica ma lo utilizzerò come strumento utile per fare un viaggio nel tempo. Precisamente proiettato all’inverso a un’Inghilterra sicuramente più triste e spettrale, ma proprio per necessità più creativa ed energica. Così degradata da partorire con carisma una cultura urbana poi in grado di ramificarsi a velocità supersonica nella musica, nella moda e nel calcio. Tutto così indissolubilmente legato. Ieri come oggi. Un modello che respira ancora nei racconti della gente e nei libri, foto e riviste che vengono esposti come reliquie nei negozi di memorabilia.
L’Inghilterra di un tempo è difficilmente riconoscibile nella Premier League di oggi, ma rivive attraverso piccole sfumature. Sulla lega contemporanea sarebbe superfluo soffermarsi. Sulla qualità di calciatori e allenatori, sugli stadi sempre pieni e ormai in maggioranza avveniristici, sulla profondità della copertura televisiva, capace di catturare ogni respiro dei protagonisti e ogni angolo del palcoscenico. Tutto questo piace. Altrimenti non si spiegherebbe l’interesse degli appassionati di tutto il mondo nonché la scrittura di questo articolo. Ma piace – a mio avviso – perché c’è un prima. Una tradizione, per molto tempo ignorata o semplicemente sottovalutata, ma che ora diventa la spina dorsale di un campionato che, valorizzando la storia, spettacolarizza l’evento senza incorrere nel rischio di scivolare in una Saudi League qualunque.
La tradizione, talvolta incautamente calpestata, resiste allo scorrere del tempo. Anche se – bisogna essere onesti – molto è cambiato. Gli stadi di oggi, per esempio, non prevedono più l’intimità dei celebri narrow tunnels, quei corridoi così stretti da costringere i giocatori a respirare la stessa aria del nemico a pochi istanti dal fischio d’inizio. O in alcuni casi estremi, ad affrontarsi. Se i muri del vecchio Highbury potessero parlare alzerebbero la mano per raccontare l’elettricità dello scontro verbale tra Patrick Vieira e Roy Keane, capitani di Arsenal e Manchester United, le due potenze più dominanti tra la fine degli anni Novanta e l’inizio degli anni 2000. La promessa, o se preferite minaccia, I’ll see you out there (ci vediamo lì fuori) di Keane resta ancora il momento più ad alta tensione in uno spazio chiuso della storia della Premier League. Oggi, di tanto in tanto, i due discutono amabilmente al tavolo di commento di Sky Sports.
Rivalità, nuovi stadi, riti prepartita
Cosa dicevamo? Spettacolarizzare l’evento e valorizzare la tradizione. Ecco un esempio manifesto. Esperimento perfettamente riuscito. A pensarci bene, quella rivalità tra Manchester United e Arsenal fatica a rivivere nelle sfide di oggi. Non tanto per l’unicità di due manager leggendari come Sir Alex Ferguson e Arsène Wenger (che hanno indubbiamente contribuito a renderla mitologica). Ma per il disprezzo, l’astio, il risentimento che gli uni provavano per gli altri. Bad blood, direbbero gli inglesi. In tal senso, fu come sempre geometricamente perfetta la traiettoria, questa volta descrittiva, di Paul Scholes quando rivelò di non aver mai scambiato la maglia con nessun giocatore dell’Arsenal. Non che i Gunners fossero dispiaciuti al riguardo. Vieira contro Keane poteva essere la copertina, ma l’Arsenal odiava il Manchester United dalla testa ai piedi. E così viceversa. Basta guardare il rigore sbagliato da Ruud van Nistelrooy nei minuti di recupero della sfida di Old Trafford nell’anno che consacrò l’Arsenal come prima squadra inglese “Invincible” dell’era moderna (2004). Al suono della traversa, un grappolo di giocatori dei Gunners guidati da Martin Keown planò fisicamente su Ruud, bullizzandolo per l’errore ma soprattutto per essersi procurato quel rigore in modo poco corretto.
Il destino volle che il confronto successivo a Old Trafford coincise con la fine della striscia di 49 partite di imbattibilità dell’Arsenal in una battaglia dagli spigoli ancor più pronunciati di quella precedente. Old Trafford, un patrimonio dell’UNESCO calcistico, che è riuscito a resistere alle impellenti esigenze di modernità di un Paese in costante trasformazione. Per non oltraggiare la storia resiste analogamente al suo “amico” Anfield. Quest’ultimo ha barattato la sopravvivenza con una ristrutturazione che ne ha rivoluzionato l’aspetto ma salvaguardato gli elementi essenziali del mito come la Kop o la Kenny Dalglish Stand.
Lo stesso non possono dire Tottenham e West Ham con i compianti White Hart Lane e Boleyn Ground, le più profonde espressioni della working-class londinese, capaci di dare voce, almeno per un giorno alla settimana, a chi difficilmente l’aveva. Per lo meno i tifosi del Tottenham possono godere di tutto ciò che gravita intorno allo stadio. Il nuovo, modernissimo Tottenham Stadium, è sorto sulle ceneri del vecchio Lane. Dunque, pur considerando lo psichedelico cambio di skyline (immaginatevi se il vostro scorcio cambiasse così: una palazzina diventa una navicella spaziale), quanto meno hanno mantenuto intatti i riti prepartita. Il povero West Ham, invece, non solo ha abbandonato il suo bellissimo Upton Park, ma spostandosi a Stratford, ha salutato la Boleyn Tavern, pub di riferimento, Nathan’s, storica locanda di pie and mash (tortino di carne e purea di piselli, pasto simbolo della Londra lavoratrice e meno abbiente), la statua del leggendario capitano Bobby Moore e tutti i luoghi che di generazione in generazione hanno forgiato gli orgogliosi Claret and Blue del club dell’East End.
La tradizione resiste
Ora che le parole stanno pericolosamente sfociando in un rigurgito nostalgico, è giusto tornare al punto d’inizio. A ciò che resiste nel qui e ora. A ogni sabato mattina in cui Londra si colora di blu, di rosso, di bianco, di claret. Al giorno in cui i treni diventano posti di ritrovo, di condivisione. Di amicizia. La corsa viaggiante di un sentimento che pur muovendosi resta sempre lo stesso. Il binario di umanità che si crea in questi rapporti legati da un filo di destino comune è il nesso tra ciò che era e ciò che è. Indipendentemente dagli stadi che cambiano, dai soldi che girano, dagli interessi che incalzano. Lo dimostrano i 7000 tifosi del Sunderland nel settore ospiti di Blackburn nell’ultimo Boxing Day, o i 3000 tifosi del Newcastle partiti da casa alle 2.30 del mattino per essere a Londra al kickoff dell’ora di pranzo. D’altronde, se Alan Shearer rifiutò i soldi e la gloria promessi dal Manchester United pur di indossare la maglia numero 9 che amava da bambino, una sveglia antipatica che sarà mai?
La bellezza continua a vivere nella connessione che si genera automaticamente tra la gente. E pazienza se i tifosi del Brentford non potranno più scegliere a quale dei quattro pub presenti in ogni angolo del vecchio Griffin Park andare a bere una birra prima della partita. La tradizione resiste. Come quell’inevitabile sguardo indiscreto rivolto alle case dei residenti salendo le scale del settore ospiti di Kenilworth Road, stadio del Luton Town. Come l’arrivo via Tamigi allo stadio del Fulham, Craven Cottage. O una passeggiata lungo il fiume Trent, con i due stadi di Nottingham agli angoli. Come chi, pur dimenticandosi i dettagli di ciò che la società contemporanea ha etichettato come più importante (soldi, fama, carriera), ricorda invece perfettamente dov’era, ma soprattutto con chi era, il giorno in cui un pallone è entrato in una rete.
Da Undici n° 61
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