Veni, vidi, vici

Chi sono le squadre che stanno ammazzando il campionato, in giro per l'Europa. Quanto il dominio delle solite influisce sull'appeal dei tornei?

Quattro assassini si aggirano per l’Europa. Hanno un nome, dei colori sociali, molti volti, e non servono né scientifica né detective per beccarli. Agiscono ogni maledetta domenica in barba a portieri e difensori, non hanno pietà e infieriscono sulle loro vittime. Hanno ucciso i loro campionati con efferatezza ma senza indugiare, perché il sadico e spettacolare gioco del gatto col topo non interessa. Sono dei professionisti seri, concentrati sulla loro missione: eliminare ogni speranza degli avversari il prima possibile. E la missione è compiuta già a gennaio: Ligue 1, Super Liga serba, campionato ungherese e Souper Liga greca sono defunte, le loro sagome disegnate col gesso su campi di calcio che di fatto non avranno più molto da dire fino al prossimo agosto.

Il primo killer è il Paris Saint-Germain. Ricco, affascinante, dannatamente famoso, colleziona vittime come Barbablù. 17 vittorie e 3 pareggi, 54 punti, 20 di vantaggio sui carneadi dell’Angers, 50 gol fatti (il secondo miglior attacco, il Nizza, è fermo a soli 33), solo 9 subiti. Numeri che dicono una ovvietà e lasciano una profezia: la prima è banalmente che il Psg è di gran lunga la squadra più attrezzata di Francia, anche se bastava leggere la rosa per capirlo. La seconda è che la già fragile concorrenza si è sgretolata. Montpellier sciolto al sole dopo il sorprendente titolo del 2012, Lione ridotto all’anonimato, Monaco pressoché smobilitato, Marsiglia suicidatosi dopo la sanguinosa faida interna che ha portato all’addio di Bielsa: se il primo avversario deve essere l’Angers neopromosso, in prospettiva gli emiri possono festeggiare per un buon decennio.

Psg facile sul Monaco: 3-0 in trasferta.

Il secondo viene dal passato, dai seppiati anni Cinquanta. È il Ferencvaros “nipotino” dello squadrone di Florian Albert, che con 18 punti di vantaggio sull’Ujpest si avvia a vincere il 29esimo titolo di campione di Ungheria a 12 anni dall’ultimo successo. Due sconfitte nell’ultimo mese del 2015 hanno un po’ sporcato il ruolino di marcia della squadra allenata dall’ex laziale Thomas Doll, ma la pochezza del campionato magiaro è ormai cronica e il club – nato con gli Asburgo ancora regnanti a Budapest – non ha comunque la benché minima ombra di rivale.

Ancora più spietata, e per certi versi più romanzesca, è la carriera di ammazza-campionato della Stella Rossa di Belgrado. Fosse un personaggio letterario, il club sarebbe il Raskolnikov di Dostoevskji: aristocrazia decaduta, forti problemi economici, una vitalità e una forza d’animo slava che bruciano dentro. Schiacciata per anni dalla dittatura degli odiati cugini del Partizan, la Crvena Zvezda quest’anno era partita malissimo, eliminata dai preliminari di Europa League dagli oscuri kazaki del Kairat. Una vittoria all’esordio in campionato, due pareggi e le prime cocenti critiche al tecnico, Miodrag Bozovic. Poi, qualcuno deve aver attivato un interruttore nascosto e dalle parti del Marakana è risuonata la massima di José Mourinho: «Un vincente non è mai stanco di vincere». Detto, fatto: 19 vittorie consecutive, 65 gol fatti, 25 punti di vantaggio sul Cukaricki alla 22esima giornata su 30. Sarebbe già matematicamente campione se la formula della Superliga non prevedesse un secondo girone di playoff tra le prime 8 in cui ogni squadra parte con la metà dei punti fatti nella stagione regolare.

FK Partizan v FK Crvena Zvezda - Serbian Super League

Il merito è di Bozovic, detto “il Conte”, «l’allenatore più alto del mondo», come ama definirsi. Un genio inquieto, questo gigantesco ex difensore col vizio di lasciare le squadre dopo un solo anno di panchina. E soprattutto un ex Delije, ovvero ultrà biancorosso. Quando in piena guerra civile la “Tigre” Arkan accoglieva Mihajlovic e compagni di ritorno dalla coppa Intercontinentale offrendo loro una zolla di Slavonia, Bozovic giocava in Montenegro ma tifava Stella Rossa. Poi una carriera mediocre tra Indonesia, Olanda, Giappone e Cipro, gli esordi da allenatore in Montenegro, sette anni in Russia sulla panchina più orientale d’Europa, quella dell’Amkar Perm, e su quella della squadra più sfigata della capitale, l’FC Mosca. Ovunque successi, un gioco brioso e d’attacco, disciplina ridotta a (quasi) zero. Il segreto di questa Stella Rossa mostruosa, più che nei gol del semisconosciuto Hugo Vieira (14 reti in stagione, pari a tutti quelli segnati nei precedenti cinque anni di carriera) e nei talenti di Aleksandar Katai, Luka Jovic e soprattutto Marko Grujic (il giovane e colossale centrocampista appena comprato dal Liverpool per 3 milioni), va cercato proprio in Bozovic. Uno che si presenta alla festa della squadra indossando la t-shirt di Putin col colbacco, uno che scherza sui guai finanziari dicendo che mancano pure i soldi per il caffè in ritiro, uno che ai media, critici per le foto dei calciatori mezzi ubriachi e con le sigarette in mano, risponde: «Eravamo a un matrimonio, cosa dovevamo fare? Allunghi e ripetute?».

Il talento di Marko Grujic

L’ultimo assassino di speranze altrui, invece, è l’Olympiacos. Diciassette vittorie su diciotto, unico stop l’1-1 con il Platanias, nell’ultima gara. I sinonimi dello strapotere sono infiniti : per l’Olympiacos sarebbe il 43esimo titolo (il 18esimo in 20 anni…) in un Paese che dall’88 vede festeggiare solo le tre squadre di Atene. Con 17 partite di fila, la squadra del tecnico portoghese Marco Silva – curioso personaggio con all’attivo un surreale esonero per non aver indossato la divisa ufficiale dello Sporting Lisbona a una premiazione in quanto «era da lavare» – ha raggiunto la Steaua Bucarest e l’Inter del 2006-07. Impressionante lo stato di forma dell’intera rosa, dal centrocampista-goleador Kostas Fortounis alla punta Brown Ideye, fino allo stopper spagnolo Alberto Botia e alla vecchia conoscenza Esteban Cambiasso. Uno squadrone che ha battuto 2-0 il Paok, 4-0 l’Aek, 3-0 (anche se a tavolino) i nemici del Panathinaikos, ma che nonostante tutto è stato fischiato. Sì, perché questo succede quando si vince sempre: il successo diventa scontato, ci si abitua, lo si pretende. Così quando l’Arsenal ha trionfato ad Atene per 3-0 relegando l’Olympiacos in Europa League e la domenica successiva la squadra ha vinto “solo” 1-0 su rigore, gli ultras del Gate 7 hanno fatto quello che un uomo razionale non potrebbe mai fare dopo 17 gioie di fila: hanno fischiato.

Una delle solite vittorie dell’Olympiacos, 3-1 sul Levadeiakos.

Neppure vincere sempre può salvarti dall’irrazionalità del tifo. Chiedere agli juventini dell’era Conte, quando lo scudetto era formalità pura e sembravano contare solo le delusioni europee. Chi più ottiene, più pretende, a vincere senza pericolo si trionfa senza gloria. È per questo che televisioni e federazioni dei campionati uccisi troppo in anticipo sono preoccupati e non vedono di buon occhio le manifestazioni di forza come quelle di Olympiacos o Stella Rossa: temono che la monotonia causi il crollo dell’attenzione (e degli spettatori) e la riduzione delle leghe a dinamiche da Patto di Varsavia, dove i campionati dei Paesi comunisti venivano monopolizzati per decenni dalle squadre del regime. Lo denunciò anche Mourinho, quando il suo vecchio Chelsea non smetteva più di vincere: «Tutti vogliono che perdiamo. Quando accadrà, indiranno una festa nazionale», ironizzò. Ecco, resta da decidere quando saranno le feste nazionali nella Grecia e nella Serbia di Olympiacos e Stella Rossa.

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Nel frattempo, la statistica sfata anche quest’ultimo mito: i campionati uccisi in anticipo non intaccano l’affluenza allo stadio. Qualche esempio dal sito www.european-football-statistics.co.uk: in Serbia, dopo due stagioni di vivace alternanza ai vertici, la media spettatori era crollata del 30%, mentre in questa stagione senza storia segna un minimo miglioramento dello 0,5%. In Grecia, dal 2010 il pubblico si è più che dimezzato, ma a testimoniare che poco c’entra il fatto che ciò dipenda dalla scarsa competitività, in quest’anno a senso unico l’aumento è stato vertiginoso: 37%. Indicativo anche il caso della Germania, dove invece la crescita è stata costante nonostante il Bayern Monaco sia ormai altrettanto costantemente campione. Morale: gli spettatori crescono se il sistema è sano, non ci sono incidenti, gli stadi sono confortevoli; e calano quando in curva puoi beccarti un razzo, la crisi taglia le possibilità di spesa e i biglietti costano troppo. Punto. Che si lotti fino all’ultima giornata o che si decida tutto a febbraio conta poco per il tifoso da stadio. Conta invece per il tifoso occasionale da divano, che se la partita in tv non è decisiva si distrae più volentieri e fa zapping senza pietà.

Insomma, al di là delle preoccupazioni delle federazioni, delle invidie degli avversari e della noia dei viziati tifosi, alla fine i killer di campionati non fanno poi granché male al pallone. Al massimo confermano che – più degli ideali olimpici – al calcio si addice di più l’immortale frase di Vince Lombardi, mitico coach di football americano: «Se vincere non è tutto, allora perché diavolo tengono il punteggio?».

 

Nell’immagine in evidenza, i giocatori del Psg festeggiano a Stamford Bridge. Paul Gilham/Getty Images