Cristiano Ronaldo ha lasciato la Juventus in macerie?

Stavolta Massimiliano Allegri dovrà ripartire da zero, e non sarà così semplice.

Prima ancora che per il contenuto delle sue dichiarazioni, il post Juventus-Empoli di Massimiliano Allegri è stato significativo per la prossemica dell’allenatore bianconero, per come certe parole sono state dette. Mentre parlava di una gara giocata «sui singoli anziché di squadra», e di «un gruppo di giovani di valore che, però, necessitano di equilibrio», a colpire erano le espressioni del viso, il linguaggio del corpo, la difficoltà con cui cercava di spiegare e spiegarsi qualcosa che evidentemente non si aspettava, qualcosa per cui non sembrava essere preparato fino in fondo. Come se il tecnico livornese si fosse reso conto, all’improvviso, che in questi due anni di inattività il mondo e il calcio erano comunque andati avanti mentre la Juve – anzi: la sua idea di Juve – era rimasta ferma, ancorata sui retaggi rassicuranti ma antiquati della «compattezza» e dei valori che «prima o poi verranno fuori», impantanata in una visione conservativa, speculativa e gestionale dei momenti di una partita che non basta più, non può bastare più, nemmeno in un campionato tecnicamente impoverito come la Serie A 2021/22. Anche la chiosa finale – «in qualche modo la sistemiamo», più qualche generico riferimento al lavoro e alla crescita individuale e di squadra – è stata sintomatica delle difficoltà tipiche di chi ha bisogno di tempo per riassestarsi, per comprendere il contesto culturale e filosofico in cui si è ritrovato; qualcosa di nuovo, inaspettato, per certi versi persino preoccupante per chi è stato richiamato soprattutto in virtù del suo passato, della sua conoscenza dell’ambiente.

A pensarci bene è questa – molto più che il gol annullato a Cristiano Ronaldo nel finale della partita di Udine – la prima vera polaroid della Juventus post CR7. O meglio: della Juventus che deve andare oltre CR7 dopo tre stagioni in cui il portoghese ha condizionato – nel bene e nel male – sogni, speranze, ambizioni, prospettive di crescita dentro e fuori dal campo. «In questo momento non possiamo più pensare a Ronaldo», ha detto Allegri dopo la sconfitta dello Stadium, quasi a voler sradicare subito, dal racconto della sua Juve 2.0, un argomento di discussione che rischia di nascondere problemi ben più radicati, endemici, strutturali. «Ho un gruppo ottimo con cui lavorare, ma non per questo, non perché siamo la Juventus, bisogna pensare che si riesca a vincere facile. In questo momento bisogna capire che dobbiamo compattarci di più».

Non è però così semplice. Si tratta di una questione strettamente legata anche a ciò che Ronaldo lascia in termini di legacy, allo star power di queste superstar spesso considerate bigger than club nel quale giocano. Il fatto che, pochi anni dopo dopo Dani Alves, Cristiano sia il secondo giocatore di quel livello ad essere “scappato” dalla Juventus dopo averla scelta per consolidare una fama e una riconoscibilità globali, ha alimentato la percezione di un club inadatto a gestire personalità così ingombranti. E che, oltretutto, ha snaturato sé stesso per accelerare il suo ingresso nel gotha del calcio europeo. Come ha scritto Daniel Verdù su El Pais, la Juventus ha scelto di «giocare al Real Madrid facendosi male», in pratica ha sacrificato una crescita organica, progressiva e costante sull’altare di una rivoluzione che non è stata tale nei fatti, e che ha visto come unico cambiamento radicale l’affidarsi in tutto e per tutto a un giocatore solo. Un giocatore, per altro, a cui la Juventus non era pronta, nella misura in cui avrebbe dovuto sostenere ambizioni, pressioni, aspettative, necessità tecniche, costi economici e di leadership mai sperimentati nel recente passato. Nel 2018 si pensava che mancasse solo Ronaldo; nel 2021 ci si è accorti che dietro Ronaldo – per non dire a causa di Ronaldo, se ne facciamo una questione di risorse economiche fagocitate dalla presenza in rosa del portoghese – mancava tutto il resto. E che, a queste condizioni, separarsi era la soluzione migliore per entrambi.

Senza voler necessariamente sposare la lettura apocalittca di Jonathan Wilson sul Guardian – il giornalista inglese ha raccontato di un Ronaldo che «ha fatto della Juventus una squadra peggiore» di quella che trovò nell’estate di tre anni fa – o adeguarsi alla narrazione di un ridimensionamento tecnico ed economico del progetto sportivo in senso assoluto, le prime due gare ufficiali hanno dimostrato come il processo di costruzione e consolidamento di nuove certezze sia lungo, difficile, molto più complesso di quello che lo stesso Allegri avviò nell’estate 2014. Anche allora il livornese ereditò una Juventus privata dell’individualità accentratrice e totalizzante per eccellenza, vale a dire Antonio Conte. Solo che aveva a disposizione le “valvole di sicurezza” del 3-5-2, della solidità della BBC, degli esterni di corsa a tutta fascia, del quadrilatero di centrocampo Pirlo-Vidal-Pogba-Marchisio, della ferocia agonistica di Tévez, della naturale associatività di Llorente. Oggi, invece, la sfida è quella di ripartire praticamente da zero, di farlo con un gruppo nuovo, per di più reduce da tre anni di discontinuità tecnica e quindi alla ricerca di una sua identità, di una sovrastruttura su cui innestare le qualità spacca-partita dei singoli, così da dare forma e concretezza a quell’idea di calcio semplice, diretto, immediato e verticale che Allegri dice di immaginare per questa squadra.

Ciò che si è visto contro Udinese ed Empoli, però, non contrasta solo con questa potenziale visione di campo, ma anche con quella dell’Allegri allenatore efficace e pragmatico durante la gara che siamo abituati ad attribuirgli. Gli errori nella scelta della formazione iniziale, la difficoltosa gestione dei cinque cambi – qualcosa che, tra il serio e il faceto, aveva anticipato nella conferenza stampa di presentazione – e poi il non riuscire ad adattarsi in corsa alle caratteristiche dell’avversario, l’incertezza nel declinare il cliché per cui «abbiamo sbagliato troppo tecnicamente», tutto questo è la conseguenza – più che la causa – di un cortocircuito di fondo: è come se la Juventus e il suo allenatore avessero ripreso da dove avevano lasciato nel maggio di due anni fa, senza però avere la stessa base, gli stessi giocatori, la stessa superiorità di partenza rispetto alle avversarie. Esperimenti come Danilo play basso, McKennie trequartista atipico alla Vidal o la coppia d’attacco Dybala-Chiesa non dovrebbero appartenere a una fase di (ri)costruzione, piuttosto a quella di miglioramento/evoluzione di una rosa già consapevole di mezzi, limiti, potenzialità. E che ha a disposizione il tempo necessario per esplorarle. Oggi, alla Juventus, questa risorsa non sembra essere a disposizione di nessuno: «In questo momento è difficile», ha detto Allegri a Dazn dopo Juve-Empoli, «ci serve per crescere e bisogna affrontarlo al meglio. Miglioriamo attraverso il lavoro. A Udine abbiamo capito cosa bisogna fare, oggi anche, spiace aver lasciato cinque punti. Dopo la sosta avremo scontri importanti, ci prepareremo al meglio». Il punto è proprio questo: che Juve sarà quella che avrà dovuto metabolizzare questo inizio di stagione così complesso? Cosa sarebbe lecito aspettarsi da una squadra che avrà fatto definitivamente i conti con l’idea di dover rinunciare al suo principale riferimento offensivo e anche carismatico?

Da quando è approdato alla Juventus, nell’estate 2015, Paulo Dybala ha accumulato 255 presenze ufficiali in tutte le competizioni, con 101 gol realizzati (Alessandro Sabattini/Getty Images)

Se queste domande fossero state poste due anni fa, magari in un momento di difficoltà comparabile, la risposta sarebbe stata scontata, ovvia, naturale: ritorno alla difesa a tre organizzata per blocchi posizionali bassi, un esterno a tutta fascia più difensivo a equilibrare la libertà offensiva concessa all’omologo sul lato opposto, Dybala giocatore di trama e ordito dell’intera fase offensiva chiamato a sviluppare le connessione con le due mezzali e a sfruttare gli spazi aperti dal lavoro con e senza palla del numero 9. Ma era un’altra Juve e probabilmente anche un altro Allegri, quindi si tratta di una soluzione che al momento non sembra esplorabile, soprattutto per le caratteristiche dei giocatori a disposizione: tornare al vecchio sistema significherebbe sacrificare le caratteristiche di base di Kulusevski e soprattutto di Chiesa, reduce da una stagione in cui è esploso quando è stato messo in condizione di aggredire costantemente l’ultimo terzo di campo; con questo assetto, inoltre, il crossing game di Cuadrado sarebbe la prima (e unica) opzione offensiva di una squadra che, da parte sua, fatica tremendamente ad occupare l’area di rigore. In virtù di tutto questo, ipotizzare un centrocampo a due composto da Locatelli e Bentancur – con Rabiot primo cambio in caso di passaggio al 4-3-3 o comunque adattabile da esterno nel 4-4-2 in non possesso – permetterebbe di schierare un 4-2-3-1 dinamico, coerente con le idee dell’allenatore e naturalmente predisposto all’attacco della profondità e all’aggressione dello spazio in verticale dopo il recupero palla, con Chiesa e Kulusevski sugli esterni e Dybala rimesso alle spalle dell’unica punta, con Morata e Kean ad alternarsi nel ruolo di supersub.

Ripartire dalle basi, dalle cose semplici, dai giocatori migliori schierati nelle posizioni che gli sono più congeniali, è il primo passo per ricostruire anche mentalmente un gruppo che sembrava quasi prigioniero della necessità emotiva di affidarsi solo a Ronaldo in quei momenti di sofferenza – fisica, tecnica, psicologica – in cui serviva una reazione collettiva prima ancora che individuale, facendo in modo che lo stesso CR7 potesse seguire i suoi compagni prima ancora di poterli guidare con un gol, un assist, una giocata decisiva. Tutto questo in realtà si è visto soltanto nella notte da leggenda e da tregenda contro l’Atletico Madrid, in una sorta di rappresentazione plastica di ciò che poteva (e doveva) essere e non è stato. La responsabilizzazione della rosa, prerequisito fondamentale per avviare la ricerca dei leader tecnici ed emotivi dell’oggi e del domani – De Ligt e Chiesa su tutti – e per cercare di avviare un player development proiettato al futuro, è probabilmente il compito più delicato che attende Allegri, l’aspetto del suo lavoro che sarà discriminante per il suo giudizio, che dirà se è in grado di essere un allenatore diverso (ma ugualmente vincente) rispetto a quello che è stato. Un allenatore, cioè, che può trascinare la Juventus in una nuova era: quella senza Cristiano Ronaldo