Wembley 1996, quando il calcio è tornato a casa

Gli Europei che riportarono l'Inghilterra, e il suo stadio simbolo, al centro del calcio e della cultura europea. Un estratto dal libro Wembley La Storia e il Mito.

Il pomeriggio dell’8 giugno 1996 il cielo è coperto, ma il meteo promette bene e sul “santo prato” di Wembley la banda reale ha appena finito di suonare gli inni nazionali. È il giorno che apre un evento che definirà culturalmente (molto) e calcisticamente (forse un po’ meno) l’intero decennio: Inghilterra e Svizzera inaugurano gli Europei di calcio, ospitati dall’Inghilterra per la prima volta nella storia e a trent’anni esatti dal Mondiale del 1966, e Wembley è il logico centro della scena: sei partite vengono programmate qui, fra cui la partita inaugurale, la semifinale e la finalissima, in quello che si rivelerà come un mese irripetibile di entusiasmo nazionale. L’organizzazione dell’Europeo era stata assegnata all’Inghilterra nel maggio 1992, un po’ a sorpresa e un po’ come ideale risarcimento dopo il periodo di sospensione dalle coppe europee inflitto ai club inglesi (1985-1990) successivamente alla tragedia dell’Heysel. Era un’occasione più unica che rara per mostrarsi al mondo in una veste totalmente nuova, togliersi di dosso le etichette dell’hooliganismo e presentarsi con il biglietto da visita della neonata, scintillante Premier League. E non solo.

Euro 96 arrivò, in effetti, al culmine di un periodo di ritrovato orgoglio sociale, soprattutto giovanile, e di una voglia generale dell’Inghilterra di uscire definitivamente dall’austera epoca degli anni Ottanta che tanto aveva segnato la vita di tutti i giorni e lasciato un segno piuttosto evidente anche sul calcio. In effetti, l’Europeo si incastrò nel momento preciso in cui la cultura pop britannica era uscita dai club e dalla scena underground (dal punk di fine ‘70 alla MADchester di fine anni ‘80) ed era esplosa in un grido di libertà veicolato da cantanti e gruppi musicali che improvvisamente stavano dominando la scena mondiale.

L’universo musicale si chiamava Britpop e faceva parte di un momento di rinascimento nazionale definito Cool Britannia, per 68 riprendere la famosa canzone patriottica “Rule Britannia” e per celebrare la propria identità anche, banalmente, attraverso l’uso di simboli come la bandiera Union Jack appiccicata su qualunque oggetto (la chitarra di Noel Gallagher degli Oasis, per esempio, o il tubino di Geri Halliwell delle Spice Girls). Cool Britannia era soprattutto uno slogan, che diceva che la Gran Bretagna (non solo l’Inghilterra) era di nuovo un posto figo da visitare e conoscere, come annunciò con orgoglio il Primo Ministro inglese, John Major, nel novembre 1996: “La nostra moda, la nostra musica, la nostra cultura, uniti alla nostra gloriosa storia, fanno della Cool Britannia la scelta migliore per i turisti di tutto il mondo”.

Ben prima che i media sfruttassero lo slogan come titolo del racconto di trasformazione politica e sociale portato dal successivo Primo Ministro, Tony Blair (eletto nel 1997), la Cool Britannia era la realtà per l’Inghilterra popolare fin dal 1993 (considerato l’inizio ideale della musica Britpop, con l’uscita dell’album omonimo della band Suede) e l’estate di Euro 96 si rivelò come il manifesto di quell’epopea, che il Time qualche anno dopo definirà “la celebrazione della cultura giovanile inglese di metà anni ‘90”.

Molto di quello che in Europa, e in Italia, arrivò a livello culturale dall’Inghilterra fu proprio veicolato da quel torneo, che ancora oggi per gli stessi inglesi rappresenta un climax di entusiasmo tale da essere poi passato attraverso le maglie del revisionismo e della critica. “Three Lions”, canzone di Baddiel, Skinner e i Lightning Seeds, uscita poche settimane prima del torneo, celebrava la gioia di poter ospitare di nuovo un grande torneo dopo il 1966, ma anche la disillusione molto british di essere certi che, tanto, prima o poi, qualcosa andrà storto. Football’s coming home, recitava una parte del testo entrata oggi nella tradizione dei cori da stadio (il calcio sta tornando a casa) e trasformatasi in un inno non ufficiale dei tifosi inglesi. E nonostante il torneo non si sarebbe rivelato calcisticamente così valido (con molti 0-0 e la tremenda regola del golden goal che spegneva ancor di più lo spettacolo), Wembley era lì, testimone oculare di un pubblico inglese entusiasta come mai prima, con uno sventolìo infinito di bandiere di San Giorgio sugli spalti e un’altalena di emozioni impensabile, fino alla cocente eliminazione ai rigori contro la Germania nella sera del 26 giugno.

È interessante provare a fare un gioco mentale e immaginare che Wembley in quell’estate sia stato il centro di una seconda Expo della cultura inglese, dopo quella che lo aveva visto nascere fra il 1923 e il 1924. Ma questa volta si era trattato di una festa popolare, giovanile, vissuta attraverso lo sport e la musica, e foriera di nuove piccole tradizioni, come appunto il motto “Football’s coming home” o la diffusione dell’uso della bandiera nazionale in curva, fra i tifosi, che sostituiva quella della Union Jack (bandiera del Regno Unito) che aveva invece accompagnato soprattutto il periodo fra gli anni ‘60 e ‘80 a prescindere che in campo giocasse effettivamente l’Inghilterra o un’altra delle Nazionali del regno.

L’altro dettaglio curioso è che Euro 96 aveva sì lasciato negli occhi dei telespettatori e degli appassionati le riprese dei nuovi stadi inglesi, con le gradinate a ridosso del campo, le strutture moderne, l’impatto estetico così perfetto ma i momenti più importanti del torneo erano legati ancora una volta a Wembley, con la sua immagine austera ma nobile, dispersiva ma affascinante, così in bilico fra un passato che ormai stava sparendo e la nostalgia per ciò che aveva rappresentato.

Un estratto dal libro Wembley La Storia e il Mito, di Antonio Cunazza, edito da Urbone Publishing