La grande crisi di talento del calcio spagnolo

Il movimento calcistico più vincente del XXI secolo fa fatica a produrre nuovi campioni, centrocampisti a parte. Colpa di un modello ormai superato o della pura e semplice ciclicità?

Nella lingua spagnola c’è un termine preciso per indicare un calciatore dribblomane e individualista, uno un po’ fastidioso che non la passa mai perché innamorato del pallone e della sua abilità in conduzione: Chupón. È un una parola bellissima e molto specifica, come quasi tutte quelle del vocabolario calcistico di chi parla la lingua di Cervantes. Ma rischia di cadere in disuso, perché in Spagna non dribbla più nessuno: non ci sono giocatori spagnoli disposti a sfidare l’avversario in un faccia a faccia da film western, credendo di poter nascondere la palla per farla riapparire qualche metro più in là; non ci sono esterni egoisti che quando sono raddoppiati provano a passare attraverso i corpi degli avversari anziché scaricare il pallone al compagno libero. Il dribbling è un rischio, un azzardo, quindi inaccettabile nel Paese del juego de posición, a volte esasperato nel juego de posesión, che vuole limitare i danni conservando il pallone, riciclandolo all’infinito. Di questa deriva controllista e della carenza di chupónes ho parlato pochi giorni fa con Miguel Quintana, voce di Radio Marca e volto di Dazn in Spagna: «È vero che in Spagna si esagera con il palleggio», dice a Undici. «Ma non è un problema solo della Liga o dei campionati professionistici, se guardi il calcio in strada o le partite tra amici si gioca molto il pallone indietro, si cerca sempre di non perdere il possesso e non ci sono individualisti disposti a tentare la giocata». È una prudenza portata all’estremo. E che, come tutti gli estremi, alla fine toglie qualcosa alla squadra e al gioco. Anche ai giocatori stessi. 

L’assenza di dribbling nel calcio spagnolo non è retorica e nemmeno una novità del 2023. Quindici anni fa il calcio iberico ha iniziato a raccogliere i frutti di una rivoluzione che ha trasformato un gioco fisico e verticale – il nickname Furie Rosse non è nato per caso – in un gioco di possesso ispirato un po’ dalla Spagna di Luis Aragonés, campione d’Europa nel 2008, e molto da Pep Guardiola. Quella rivoluzione ha cambiato la storia del calcio, nel senso che ha tracciato una nuova traiettoria nell’evoluzione del gioco, prima in Spagna e poi nel resto del mondo. Negli anni il modello è stato esportato, poi copiato, ritoccato, aggiornato, superato, ma la Spagna è stata un po’ meno ricettiva degli altri rispetto al cambiamento. È la trappola del primato: pensare che il proprio modo di fare le cose sia quello giusto, sempre e comunque, per assioma, solo perché lo è stato a un certo punto della storia. Accade in tutti i settori, dallo sport alla politica, all’industria (citofonare Nokia per saperne di più).  


La formazione della Spagna che vedete qui sopra è quella mandata in campo dal ct De la Fuente lo scorso 28 marzo, per la gara contro la Scozia. C’era qualche assenza, d’accordo, ma è una della Selección di livello più basso viste negli ultimi quindici anni. L’undici di De la Fuente è il sintomo di una carenza di talento che va molto oltre la mancanza di chupónes. «La Spagna ha problemi a produrre talento d’élite e mantenere gli standard della generazione dorata, se escludiamo i centrocampisti», dice Miguel Quintana. Soprattutto, si vede che fa fatica a sviluppare un certo tipo di giocatori: esterni aggressivi, ma anche attaccanti capaci di fare gol». L’assenza di centravanti è un argomento che interessa Italia, Germania, Francia e tanti altri Paesi, ma in Spagna viene raccontato da un po’ di tempo come il riflesso di una crisi che ha fatto sparire il nueve dalla Nazionale che è stata di Fernando Torres e David Villa, e prima ancora di Raúl e Fernando Morientes. Il 31 marzo, su El Mundo, Abraham Romero ha raccolto testimonianze di direttori sportivi, procuratori e allenatori, e scritto che lo spagnolo con più gol in stagione è Fran Navarro, calciatore di proprietà del Gil Vicente, seguito da Joselu, Borja Iglesias e Iago Aspas (tutti a 12 gol in Liga): anche in un anno in cui gli attaccanti fanno fatica in tutta Europa, gli spagnoli non sono i più interessanti del panorama. 

Il movimento calcistico spagnolo non è condannato all’irrilevanza, ma al momento sembra avere pochissime certezze. Una è quella capacità quasi mistica di produrre i migliori centrocampisti del mondo in ogni generazione, indipendentemente da tutto il resto e oggi il trio Rodri, Pedri, Gavi rappresenta un’eccellenza mondiale che riesce a mascherare il vuoto di altri reparti. L’altra è da ricercare in quell’enorme bacino di giocatori che popola i campionati di tutta Europa (e ormai di tutto il mondo). La Spagna ha una delle migliori filiere di sviluppo del talento a livello giovanile, frutto di cultura, strutture e know-how di altissimo livello: secondo l’ultimo rapporto CIES, nove tra i primi cento migliori settori giovanili del calcio mondiale sono in Spagna. Ma, appunto, è un parametro quantitativo più che qualitativo: quando ci si avvicina all’élite gli spazi si restringono e in questa fase sembra essercene sempre meno per i giovani catalani, baschi, andalusi, galiziani. 

La trappola in cui è caduto il calcio spagnolo ha cristallizzato l’intero movimento nazionale. Dopo la Generación de Oro campione del mondo e bicampione d’Europa è arrivata la Generación Perdida, quella nata all’inizio degli anni Novanta che ha ormai scollinato i trent’anni senza aver raggiunto i risultati sperati: è quella di Thiago Alcántara e Koke, di Pablo Sarabia e De Gea, di Isco e Morata, di Carvajal e Bartra, di Muniain e Canales. Una generazione che ha perso un giro, con una seconda incamminata sullo stesso pendio – quella dei Fabián Ruiz, dei Pablo Fornals, Ceballos, Asensio e Oyarzabal. Da qualche anno la Spagna, intesa sia come Nazionale sia come movimento, sembra sorpassata dal tempo e da avversari che vanno più veloce, pensano calcio più in verticale e sono più adatti al gioco di quest’epoca. 

Pedri e Ansu Fati sono due dei quattro giocatori spagnoli, tra quelli nati dopo il 2000, che valgono più di 35 milioni secondo Transfermarkt. Gli altri due sono Gavi e Yeremi Pino (Alex Caparros/Getty Images)

Se il calcio spagnolo sembra invecchiato male nell’ultimo decennio è anche perché, di fatto, è vero, nel senso che è invecchiato anche a livello anagrafico. Nella Liga che il Barcellona sta per vincere l’età media dei calciatori è di 27,8 anni, mentre un decennio fa era di 26,3 (dati Transfermarkt). Le motivazioni sono certamente legate a dinamiche economiche, industriali, al momento storico del Paese: la pandemia ha impoverito molto i club e praticamente ridotto a zero gli investimenti di società che già non se la passavano benissimo. Adesso sembra sparita quasi del tutto anche quella programmazione che per anni è stata un marchio di fabbrica della Liga: «Stiamo vedendo sempre più progetti a breve termine, sento dire “non parlarmi di prospettiva a tre anni perché la mia priorità è finire il più in alto possibile in questa stagione o non retrocedere”. Questo significa che in posizioni specifiche, come per gli attaccanti, si scommette su giocatori molto navigati anziché su giocatori giovani», ha detto Loren Juarros, ex attaccante e ex direttore sportivo della Real Sociedad in questa analisi del Periodico de Espana. 

La buona notizia è che un periodo di carestia non è definitivo o irreversibile, ancor meno in un Paese con la cultura, la storia e le strutture della Spagna. La coincidenza di fattori – tra talenti individuali, qualità degli allenatori, forza della classe media – che ha portato alle vittorie della Generación de Oro non sembra ripetibile nei prossimi anni, ma non è detto che la Nazionale andata in campo contro la Scozia sia il destino calcistico del Paese. Il futuro non deve per forza essere un revival delle Furie Rosse che non avevano vinto niente, né deve per forza essere un’esasperazione del gioco di palleggio che ha raggiunto l’apice agli Europei del 2012. Proprio come nelle generazioni precedenti, anche quella formata dagli ultimi Gen Z spagnoli sembra promettente ora che è all’inizio della sua parabola: i nomi sono quelli di Pedri (2002), Zubimendi (1999), Gabri Veiga (2002), Arnau Martínez (2003), Álex Baena (2001), Alejandro Balde (2003), Gavi (2004) e Iván Fresneda (2004). Certo, ancora manca un attaccante e non c’è un singolo giocatore che verrebbe voglia di chiamare chupón, ma questi sono nomi che potrebbero trovare spazio e anche un ruolo da protagonisma nelle Champions League, ai Mondiali e agli Europei dei prossimi anni. A patto, però, che sappiano stare nel calcio della loro epoca, senza dover somigliare a qualcuno del passato.