La danza ipnotica e il tiro secco di Pedri, ovvero la scomposizione in blocchi del gol che ha permesso al Barcellona di battere il Siviglia nel match giocato qualche giorno fa al Camp Nou, è come se avessero aperto uno squarcio, un passaggio segreto nello spaziotempo: chi si è gustato quei secondi di accecante bellezza calcistica ha potuto rivivere il passato di Xavi e Iniesta e David Silva, e allo stesso tempo ha visto in anticipo il futuro che appartiene alla mezzala 19enne del Barcellona e ai suoi sodali. Stiamo parlando di Gavi, di Rodri, di Fabián Ruiz, di Carlos Soler, di Nico González, di una nuova grande generazione di centrocampisti spagnoli. Sono tutti calciatori che hanno un’età compresa tra i 17 e i 26 anni, e che quindi sono destinati a una carriera ancora lunga, in alcuni casi lunghissima. Sono tutti calciatori che hanno doti enormi, in alcuni casi viene da dire sovrannaturali, e che quindi sembrano felicemente condannati a dominare il calcio di domani molto di più di quanto non stiano già facendo con il calcio di oggi, anche se sono ancora giovani o giovanissimi.
È sempre straniante sentir parlare di dna calcistico per come viene normalmente inteso, cioè una serie di caratteristiche connaturate a una squadra di club, a un movimento nazionale, e perciò inestirpabili, destinate a restare immutabili per sempre. In realtà il concetto stesso di dna è esattamente contrario a questa idea di fissità: uno studio pubblicato qualche mese fa sulla rivista scientifica Science Advances ha infatti dimostrato che solo il 7% del codice genetico dell’Homo Sapiens, vale a dire l’essere umano contemporaneo, appartiene direttamente al più evoluto dei primati; il resto deriva dall’ibridazione con il mondo esterno, da tutta una serie di mutazioni spontanee e/o indotte dal contatto con altre specie. In virtù di tutto questo, usare le definizione dna calcistico per spiegare cosa ha portato la Spagna a produrre i migliori centrocampisti del mondo, perché le cose vanno così da quasi due decenni, è una semplificazione fin troppo evidente. Quindi è, inevitabilmente, una banalizzazione di tante cose molto più vaste e molto più complesse.
La situazione cambia se cominciamo a utilizzare parole e quindi concetti meno vaghi, meno vacui: studio, intuizione, lavoro. Tutte cose che diventano cultura e capacità di programmazione partendo da una rivoluzione che indica la strada. Nel caso della Spagna, la rivoluzione ha un nome, un cognome, una chioma di capelli fluenti e anche un luogo e una data di inizio: il nome è quello di Johan Cruijff, che viene nominato nuovo allenatore del Barcellona il 4 maggio del 1988, ovviamente nel capoluogo della Catalogna. Certo, sarebbe assurdo anche solo pensare che prima del ritorno di Cruijff in Catalogna – il fuoriclasse olandese aveva già giocato nel Barça dal 1973 al 1978 – la Spagna non avesse mai prodotto centrocampisti di qualità. Ovviamente non è così, e infatti l’unico calciatore iberico ad aver vinto il Pallone d’Oro è ancora oggi Luisito Suárez, un regista di qualità regale che i nostri nonni hanno apprezzato in Italia con le maglie di Inter e Sampdoria. Solo che la nascita di certi giocatori era una manifestazione rara all’interno di un ecosistema che parlava una lingua diversa: Graham Hunter, giornalista inglese trapiantato in Spagna, ha raccontato in un’intervista a These Football Times che «i componenti della Nazionale spagnola non venivano chiamati “Furie Rosse” per caso: ovviamente alcuni di loro erano talentuosi e creativi, ma basta riguardare le partite della Liga negli anni Settanta e Ottanta per sentire puzza di zolfo, per capire che in Spagna si giocava in modo brutale. Moltissimi calciatori spagnoli avrebbero potuto trasferirsi in Inghilterra e non sfigurare nelle durissime battaglie fisiche dell’allora First Division».
Fin dai suoi primissimi giorni come tecnico del Barcellona, Cruijff decise che la sua squadra avrebbe dovuto riscrivere, anzi ribaltare, questo contesto. Avrebbe dovuto scuoterlo e demolirlo dall’interno, per poi costruire dei nuovi edifici partendo da fondamenta completamente diverse: nella sua autobiografia, infatti, l’ex fuoriclasse olandese ha spiegato che «abbiamo fatto circa 10mila ore di allenamenti specifici per poter creare una circolazione palla che non si interrompesse mai, per poter far sì che undici giocattori si muovessero e costruissero continuamente dei triangoli sul terreno di gioco». Tutte queste scelte non furono solo il frutto di gusti e inclinazioni personali, ma anche di profonde analisi di tutti i dati, di tutte le prospettive, a cominciare da quelle antropometriche: oggi in Spagna la statura media dei maschi (167 centimetri) è la terza più bassa tra tutti i Paesi europei, e probabilmente 35 anni fa era ancora inferiore. Partendo da questa base, non avrebbe avuto senso puntare su un gioco fisico, fatto di contrasti e sprint in velocità. Di conseguenza, Cruijff decise – anzi: impose – che la prima squadra del Barça e tutte le formazioni giovanili avrebbero iniziato a praticare un calcio di grande purezza tecnica, a sostenere lunghissime sedute di allenamento basate sul trattamento della palla, a preparare le partite in modo da controllarle il più possibile attraverso il possesso.
Questa scelta strategica finì per far nascere un nuovo idealtipo di calciatore. È un discorso di caratteristiche tecniche che diventarono inevitabilmente anche fisiche, visto che gli atleti dal baricentro basso sono naturalmente più portati a danzare in spazi stretti senza perdere il controllo del pallone, ad avere una maggiore sensibilità tecnica. Conseguentemente, si trattava di di giocatori abituati a un certo stile, che «non devono percorrere, palla al piede o senza palla, più di dieci metri: da questo limite ne deriva un enorme vantaggio, cioè una formidabile economia di dispendio metabolico, dato che l’assenza di scatti lunghi previene l’appesantimento dei muscoli con accumuli lattacidi». Queste parole, tratte dal libro Il Barça di Sandro Modeo, descrivono la generazione degli Xavi e degli Iniesta e dei Busquets, la prima interamente coltivata dopo l’avvento di Cruijff, e intercettano i motivi per cui il possesso palla del Barcellona di Guardiola (l’era di Pep e del Tiqui-Taca inizia nel 2008) sembrava così vorticoso, così irrefrenabile. A quel punto, però, la svolta sistemica è già avvenuta: i grandi risultati colti da Cruijff sulla panchina azulgrana a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta hanno fatto scuola anche lontano dalla Catalogna, hanno convinto anche la Federazione spagnola a sposare quel progetto. A farlo proprio.
È qui, in questo punto, che le congiunture e le intuizioni – di Cruijff, del Barça – diventano un progetto trasversale e a lungo termine: già nel 1995, la Federazione spagnola aveva messo a punto un sistema di formazione – per giocatori e coach – basato sugli stessi concetti tecnico-tattici che regolavano il lavoro alla Masía, su uno scouting capillare e sull’accessibilità ai corsi per allenatori fin dalla più giovane età. Tutto veniva e viene coordinato dai dirigenti del centro federale di Madrid, che non solo scovano i migliori talenti in tutte le comunità autonome del Paese, ma organizzano un vero e proprio training camp per gli atleti Under 14 e Under 15 più promettenti (di solito ne vengono selezionati 55 per fascia d’età): prima che possano entrare nelle varie Nazionali giovanili, i ragazzini spagnoli con le doti tecniche più evidenti si sono già recati diverse volte nella capitale per conoscersi, per allenarsi sui meccanismi di possesso e di risalita del campo, sulla riconquista della palla in pressing, insomma per apprendere i concetti di gioco che poi dovranno attuare nel corso della loro carriera. Questo processo diventa sempre più frequente e approfondito con il passare degli anni, del resto il circuito delle rappresentative nazionali spagnole parte dall’Under 15, quindi i calciatori hanno sempre più opportunità per crescere secondo una cultura condivisa. La stessa cultura che respirano anche nei loro club, visto che gli allenatori si abbeverano alla stessa fonte, solo che le agevolazioni pensate per loro hanno una natura diversa: nel 2018, secondo quanto raccolto da These Football Times, sostenere un corso federale per ottenere la Licenza UEFA A su suolo spagnolo costava 1200 euro circa, e a questo prezzo si acquistavano 750 ore di formazione; in Inghilterra, invece, un corso per ottenere lo stesso identico patentino costava più di 3mila euro, con circa 250 ore dedicate alla didattica.
Così è nata la più grande generazione di talenti spagnoli, così sono arrivati dei risultati incredibili, mai raggiunti prima – con la stessa continuità – da nessun’altra rappresentativa nazionale: i successi della squadra senior ai Mondiali (2010) e agli Europei (2008 e 2012), così come i trionfi delle varie selezioni giovanili (dal 1995 a oggi la Spagna ha conquistato sei Campionati Europei Under 17 più cinque finali, nove Campionati Europei Under 19 più due finali, quattro Campionati Europei Under 21 più due finali, un Campionato Mondiale Under 20 più una finale) sono piuttosto significativi, senza tener conto del dominio europeo delle squadre della Liga (dal 1998 a oggi le squadre spagnole hanno vinto undici edizioni della Champions League e undici edizioni dell’Europa League). Questa stessa programmazione a lungo termine ha fatalmente concentrato la produzione del talento a centrocampo, e anche se non possono esserci dati a supporto di questa tesi è evidente che si tratti di un fatto oggettivo, verificato. Basta pensare che, dal 2000 a oggi, i vari ct che si sono succeduti sulla panchina della Roja hanno potuto contare su Xavi, Xabi Alonso, Iniesta, Fàbregas, Iniesta, David Silva, Cazorla, Busquets, Mata, Thiago Alcántara, Koke, Isco, Asensio, Rodri – solo per citare calciatori che hanno accumulato almeno 25 presenze nella Nazionale maggiore, altrimenti ci sarebbero anche Javi Martínez, Borja Valero, Luis Alberto, Dani Ceballos.
Questa lista di grandi centrocampisti è ovviamente larga, nel senso che comprende mediani e mezzali, incursori ed esterni e trequartisti di qualità trasformati in tuttocampisti universali; allo stesso tempo, però, è oggettivo che tutti questi calciatori siano accomunati da una scintillante tecnica di base, la stessa caratteristica che salta agli occhi quando guardiamo i Pedri, i Gavi, i Fabián Ruiz di oggi. E poi basta rileggere certi nomi e conoscere/ricordare un minimo di geografia della Spagna per comprendere come la tradizione creata da Cruijff al Barcellona si sia espansa oltre il quadrato magico della Masía e della Catalogna, arrivando fino alle Canarie (luogo di nascita di David Silva e di Pedri), ai Paesi Baschi di Xabi Alonso e Javi Martínez, all’Andalusia di Isco e Fabián Ruiz, alle Asturie di Santi Cazorla, ovviamente all’area di Madrid. Certo, al Barcellona sembrano ancora possedere una sensibilità maggiore nel riconoscere certe qualità, anche in prospettiva: in questo articolo di El Confidenciál si legge infatti che Pedri è stato bocciato dagli scout del Real Madrid perché «non aveva espresso il livello desiderato per entrare a far parte della Fábrica» in occasione di un provino a Valdebebas. Chissà oggi cosa pensa il coach che ha preso quella decisione.
Insomma, il Barça è ancora lì a guidare e ispirare la rivoluzione, solo che adesso i metodi che hanno reso grande il club azulgrana sono stati ripresi nel modo giusto, appartengono a tutte le squadre spagnole e perciò vengono perfezionati continuamente. Saper costruire grandi centrocampisti, dunque, non è una questione di dna calcistico, piuttosto è una cosa che riguarda il solito discorso sul valore delle idee, della progettualità, delle cose che occorre fare perché il talento diventi sistema, perché il calcio riesca diventare un evento controllabile, anche se in realtà è impossibile, proprio come è impossibile tenere un pallone a centrocampo per tutta una partita. Nessuno, prima e come la Spagna, ha dato la sensazione che entrambe queste utopie potessero trasformarsi in realtà, e forse ora sappiamo il perché.