Un anno fa, dopo un eloquente 6-2 in casa del Deportivo La Coruña, Zinédine Zidane utilizzò queste parole per valutare la prestazione di Isco: «È fenomenale, fa cose che non tutti sono in grado di fare». È una frase molto impegnativa, per chi ha dovuto pronunciarla e per chi ha dovuto leggerla: la caratteristica principale del calcio di Isco è proprio la sua completezza formale e sostanziale, il fantasista malagueño unisce un formidabile campionario tecnico a letture tattiche avanzate, in qualsiasi zona del fronte offensivo, perciò può permettersi giocate superiori e libere rappresentazioni rispetto al sistema di squadra. La frase di Zidane ha questa doppia interpretabilità, si fa fatica a comprendere quale sia il suo primo riferimento. Ma non è troppo importante, anzi l’adattabilità di questo concetto caratterizza e descrive una nuova idea di calciatore universale, figlia dell’evoluzione storica del gioco.
L’affermazione del juego de posición come prima fonte di ispirazione in fase offensiva ha inevitabilmente portato alla nascita di una generazione di calciatori molto tecnici e associativi, in grado di reagire ad ogni singola azione in base al contesto spazio-temporale disegnato dai compagni, e alla posizione della palla. Alcuni di questi (De Bruyne, David Silva e Insigne, per esempio) hanno subito una metamorfosi chiara e precisa, che ha definito la loro qualità composita in un ruolo univoco ma sfumato – mezzala, esterno offensivo –, come impone l’approccio tattico contemporaneo. Altri, invece, si sono giovati di modelli meno rigidi, più fluidi, esaltandosi proprio grazie a una maggiore libertà di movimento.
La storia di Isco al Real Madrid racconta un’evoluzione di questo tipo, secondo una trama di influenze reciproche: arrivato al Bernabéu dopo un percorso di formazione come «trequartista o playmaker offensivo, portato a giocare dentro il campo piuttosto che ad allargarsi sulle fasce» (Outsideoftheboot, 2012), l’ex canterano del Valencia è diventato un calciatore estremamente poliedrico, in grado di occupare tutti gli slot offensivi nei vari sistemi sperimentati da Ancelotti, Benítez, Zidane. Un esempio su tutti: lungo la stagione 2014/15, con Modrić fuori per infortunio, Isco è stato spesso schierato in un centrocampo a due, e veniva addirittura indicato come possibile alternativa per l’interno croato. La sua anti-specializzazione nasce dalla volontà di giocare di più in una rosa piena di fuoriclasse, ma ha finito per determinare il Real Madrid di oggi, una squadra liquida, in grado di cambiare molti abiti tattici durante la stagione e all’interno della stessa partita, di trasformare il 4-3-3 in 4-4-2 passando per la mediana a rombo, senza perdere la sua identità, continuando a gestire i ritmi attraverso un possesso palla funzionale, multiforme, non ideologizzato o esasperato.
Juventus-Real Madrid, highlights personali di Isco. Zidane lo ha schierato come trequartista ma è un ruolo solo nominale, in realtà si muove come calciatore a tutto campo. E ha la missione di associarsi con i compagni, di costruire superiorità numerica in zona-palla.
Isco è il capo tecnico e spirituale di una setta di giocatori apparentemente anarchici, senza una chiara dimensione posizionale ma in grado di declinare le attribuzioni offensive secondo il primato della qualità e della libertà di movimento. Anche Marco Asensio, James Rodríguez e Thomas Müller, per restare nel perimetro delle ultime semifinali di Champions, hanno i titoli per far parte di questo gruppo, ovviamente con caratteristiche molto differenti. Müller, per esempio, ha fondamentali meno raffinati, il suo calcio si basa su letture anticipate dello spazio più che sul rapporto privilegiato con la palla. Il calciatore tedesco viene raccontato da Davide Coppo in un pezzo su Undici: «Raumdauter, dunque, è il nome del suo ruolo in campo. La traduzione inglese è qualcosa come “the space investigator”. Negli appunti che ho preso guardando i suoi video ho scritto: “è intangibile, come la luce. È IL movimento”. Eppure è sgraziato, non è uno a cui affidare il pallone perché non sa dribblare, sia la corsa che il passaggio che il tiro sembrano poco efficaci, gesti eseguiti male».
La digressione su Müller è una parte fondamentale del racconto: il tedesco è stato uno dei primi calciatori a imporre il primato dell’associatività, a celebrare il passaggio all’era contemporanea del calcio liquido, dei nuovi giocatori universali. Il concetto di Raumdauter ha dato inizio a una storia, ha rappresentato il prototipo di una professionalità tecnico-tattica che oggi appartiene a elementi di grande raffinatezza, in grado di ripulire il pallone, di aumentare la qualità della manovra come di essere creativi – se non determinanti – nelle porzioni di campo in cui si costruisce il gioco offensivo. Questa ricerca di tecnica assoluta in assoluta libertà, per esempio, ha spinto Ancelotti a trasformare Ángel Di María da esterno offensivo in mezzala, una metamorfosi che ha permesso al Fideo di diventare «l’uomo chiave del Real Madrid campione d’Europa 2014» secondo lo stesso allenatore emiliano.
Un percorso di formazione calcistica portato avanti anche con Isco e con James Rodríguez, prima in Spagna e poi in Germania, al Bayern Monaco. Il colombiano, anche dopo l’addio di Ancelotti e il ritorno di Heynckes all’Allianz Arena, ha occupato una posizione spuria, mobile, interno sinistro in un 4-3-3, trequartista o esterno offensivo in un 4-2-3-1. Più che la sua collocazione in campo, però, è importante riconoscere i principi che regolano il suo movimento, il suo rapporto con la squadra ed il pallone: ogni volta la geografia è mutevole, in base allo sviluppo del gioco James può decidere di associarsi con i compagni, esplorare la profondità o attaccare il lato debole, occupare gli spazi di mezzo per rendere più fluido il possesso. È la definizione del calcio liquido e del calciatore universale, per cui il modulo diventa un concetto dinamico e ogni azione offre una possibilità diversa, una circostanza da interpretare prima degli altri, meglio degli altri, con movimenti e giocate in funzione della squadra.
Schalke-Bayern 0-3, per James Rodríguez un ruolo fondamentale in tutti i gol dei bavaresi: rigore procurato, rete personale e assist decisivo. Un elogio all’imprevedibilità, posizionale e di interpretazione.
In un articolo di Bleacher Report, Marco Asensio viene presentato così: «Ha doti tecniche squisite, ma anche la capacità non comune di interpretare correttamente tutti i momenti della partita. Zidane lo utilizza soprattutto come esterno offensivo, ma il meglio del suo calcio viene fuori quando ha la possibilità di muoversi, di scegliersi lo spazio migliore in cui ricevere il pallone». È un’altra possibile descrizione del calciatore universale, forse più limitata rispetto a quella di Isco, James, Di María. Questione di status e di esperienza, di personalità e intelligenza calcistiche ancora in costruzione. Una condizione simile a quella del calciatore italiano più vicino a questo nuovo concetto di associatività in libertà: Federico Bernardeschi. Anche il numero 33 della Juventus è stato impostato da Allegri come esterno a piede invertito, ma la sua propensione naturale è quella di «svariare lungo tutto l’arco della trequarti offensiva avversaria, con una lieve predilezione per il centro-sinistra» (Claudio Pellecchia, su Undici). Non a caso, il 57% delle occasioni costruite in questa stagione (8 passaggi chiave per 6 assist decisivi) nascono dalla zona centrale del fronte d’attacco. Ispirato da queste sue caratteristiche, il tecnico della Juventus vede per Bernardeschi un futuro da mezzala, ovviamente al termine di un percorso di sviluppo che ne accentui le capacità cerebrali, di read and react situazionale. Questo è uno dei due requisiti necessari per interpretare al meglio questa nuova funzione di dominio disordinato del campo, anche se il disordine è solo in apparenza.
L’altro attributo fondamentale è senza dubbio la tecnica di base. Perché tutto parte dalla lettura del gioco, ma si esprime nell’efficacia della giocata – la compiutezza del controllo, la creatività del passaggio, la precisione del tiro. Se Müller è un calciatore universale e associativo di tipo finale, che agisce e sposta gli equilibri della sua squadra nell’ultima parte dell’azione, un protagonista della Serie A spiega al meglio come la qualità a tutto campo possa rappresentare la nuova frontiera del playmaking offensivo. Si tratta di Luis Alberto, raccontato così in un pezzo di Undici: «È una seconda punta ma anche un enganche, l’elemento che fa da raccordo fra il centrocampo e Ciro Immobile. Gioca in piena libertà, così da offrire sempre una soluzione di passaggio diversa: centralmente a Lucas Leiva, venendosi a prendere il pallone, oppure sulla banda sinistra, dove spesso si allarga e può giovarsi del contributo di Milinkovic-Savic. Il dribbling nello stretto è esaltato da eleganti tocchi di suola che gli permettono di scegliere i giusti tempi della giocata, il momento esatto in cui si apre lo spazio tra le linee o in profondità. Rallenta, valuta, e se la situazione lo richiede, strappa o serve assist al bacio, con i giri contati». La Lazio 2017/18 è stata costruita intorno alla variabilità del gioco di Luis Alberto, alla perfetta compensazione con lo strapotere di Milinkovic-Savic: il serbo sfrutta la sua fisicità e un controllo avanzato per mettere a terra il pallone e difendere il possesso in spazi brevissimi, lo spagnolo ex Liverpool può supportarlo da vicino oppure costruire una linea di dialogo più sofisticata, ultimo step prima di esplorare la profondità – magari servendo Immobile nello spazio. Grazie alle sue qualità, ma anche a un contesto tattico che asseconda la sua fluidità, Luis Alberto è il primo calciatore in Serie A per assist decisivi (16) e il terzo in assoluto per passaggi chiave (2,6 ogni novanta minuti).
La centralità mobile di Luis Alberto, e la sua qualità
Luis Alberto sta perfettamente nel solco di Isco, James Rodríguez, Asensio, è il rappresentante per la Serie A di una rivoluzione in corso fondata sulla tecnica, sull’intelligenza, sull’adattabilità – reciproca e continua – tra i giocatori e il sistema delle loro squadre. La nuova idea di calciatore universale, centrale anche se non specializzato, potrebbe rappresentare la sintesi perfetta tra l’evoluzione del gioco in senso sistemico e l’irrinunciabile necessità del talento: da una parte la costruzione di una sovrastruttura per principi, dall’altra la sensibilità e la qualità che servono per compiere il tutto, per chiudere il cerchio tra teoria e pratica, tra filosofia e realtà, nel nome della modernità.