Amburgo resiste

La complicata stagione dell’Amburgo, che lotta per evitare la prima retrocessione in seconda serie. E prova a non imitare altri capitomboli illustri.

I dinosauri non si estinguono facilmente. Per far sparire dalla faccia della terra quelli in carne, ossa e artigli servì il più grande asteroide piovuto sul pianeta. Per cancellare dal palcoscenico della Bundesliga i “dinosauri” del calcio tedesco dell’Amburgo, invece, non è bastata una stagione 2013/14 conclusa ai playout e rischiano di non essere sufficienti neppure l’attacco peggiore di Germania, un calciomercato tanto deludente da far addirittura ritirare un prestito milionario per manifesta incapacità e una panchina su cui in nove mesi si sono succedute le più o meno fallimentari terga di tre allenatori e perfino quelle di un direttore sportivo scambiato per mister.

D’altronde una squadra non si guadagna il nomignolo di “Dino” o di “Urgestein” (i Veterani) senza essere dura a morire. E l’Hamburger Sport-Verein, che per quasi tutto l’anno è stato saldamente parcheggiato all’ultimo posto della classifica, è senz’altro la più dura di tutte. Primo club tedesco ad essere stato fondato nel 1887, è anche l’unica squadra ad aver sempre partecipato alla massima serie da quando la Bundesliga prese il via, nel 1963. Nemmeno i colossi del Bayern Monaco (in seconda divisione per le prime due stagioni) e gli arcirivali del Werder Brema (che raggiunsero la massima serie nel 1964) possono esporre lo striscione più invidiato: «Niemals Zweite Liga», mai stati in B.

Il coro più gettonato tra i tifosi dell’Amburgo: «Niemals Zweite Liga», mai stati in B.

Un fiore all’occhiello che vale almeno quanto la gioia più brillante, quella Coppa Campioni alzata ad Atene in faccia alla Juventus nel maggio dell’Ottantatré. Il destro di Magath incide la sigla HSV sul metallo del trofeo e chiude la carriera di Zoff, ma la consapevolezza di essere gli eterni primi della classe in un Paese di primi della classe regala un’aristocrazia ancor più indelebile. E genera una comprensibile torma di nemici che da anni siedono sulla riva dell’Elba aspettando di veder passare il cadavere dell’HSV e di assistere finalmente all’azzeramento del Bundesliga Uhr, l’orologio che sugli spalti dell’Imtech Arena segna da quanti anni, mesi, giorni, ore e minuti l’Amburgo milita in serie A.

Ecco, quell’ora forse arriverà tra qualche settimana. I primi rintocchi lugubri si erano avuti nel 2012, quando l’orologio dell’orgoglio amburghese si guastò e a ristrutturarlo fu chiamata un’azienda svizzera dal nome cimiteriale, Eterna. Risultato: 15esimo posto e tanta paura. Poi lo scorso anno, quando i tifosi del Bayern esposero uno striscione con il sarcastico conto alla rovescia: «Starete in Bundesliga ancora per sette giorni». Conto da rifare, perché l’Amburgo scampò di nuovo all’ineluttabile, stavolta allo spareggio contro il molto più plebeo Greuther Fürth.

Pierre-Michel Lasogga segna e Amburgo esplode di gioia: è la rete della salvezza nello spareggio dello scorso anno contro il Greuther Fürth

Stavolta invece una stagione più catastrofica del Cretaceo sembrava non lasciare scampo. L’alba promettente, con il magnate dei trasporti Klaus-Michael Kühne – cuore da tifoso e patrimonio da 12 miliardi di dollari – che in estate aveva concesso 25 milioni di euro di prestito per il calciomercato, aveva illuso tutti. Ma i soldi sono nulla se non li sai usare. Venduti Badelj e Rincón in Italia, ceduto il purissimo talentino Çalhanoğlu al Leverkusen, sono entrati il lungodegente Holtby, la promessa mancata Green e una pletora di mezzi giocatori. Una tale delusione da costringere Kühne a rivolere indietro i 25 milioni, e pure con gli interessi. Inevitabile una nuova via crucis tra kaputt in serie e gol più rari delle mattine di sole nello Schleswig-Holstein (fino a domenica scorsa il capocannoniere dell’Eintracht Alexander Meier aveva segnato tanto quanto l’intera rosa amburghese, 19 reti). Dal 9-2 incassato dal Bayern l’anno precedente, si è passati all’8-0 di quest’anno. Abbastanza per tremare. Sostituito il tecnico Mirko Slomka con l’allenatore delle giovanili Josef Zinnbauer; defenestrato Zinnbauer e squadra al direttore tecnico Peter Knäbel; rimesso alla scrivania Knäbel e spazio alla vecchia conoscenza Bruno Labbadia, look da attore italiano e un passato da assicuratore, come una kasko contro lo spettro della retrocessione. Una polizza che però potrebbe incredibilmente funzionare, dato che con due vittorie nelle ultime tre partite ora l’Amburgo è quintultimo a quota 31, con quattro squadre in due punti. E una salvezza che avrebbe qualcosa di soprannaturale non è più solo un miraggio.

0-8 all’Allianz Arena: un pomeriggio da incubo per l’Amburgo

È il dna dei dinosauri – Jurassic Park lo insegna – che sopravvive. Incastonato nell’ambra del vicino Baltico o in qualche angolo del talento assopito di Van der Vaart e Olić, l’Amburgo ha ripescato una traccia di dignità e ci sta provando. Intanto, dagli odiati cugini del Sankt Pauli in giù, i già citati nemici sulla riva del fiume non si rassegnano e continuano ad affilare le armi dell’ironia. I regicidi sanno essere spietati e i social network sono più taglienti di una ghigliottina. Su WhatsApp qualcuno ha chiesto «Chi salverà l’Amburgo» ma Superman, Chuck Norris, Cristiano Ronaldo e Dio hanno subito abbandonato il gruppo. Sotto il titolo «Cosa può fare l’Amburgo per salvarsi», la pagina di giornale postata su Internet è bianca. Su Facebook la pagina «Grigliata per la retrocessione dell’HaHaSV» conta migliaia di fan e il sondaggio «Cosa fare dell’orologio dello stadio?» ha dato la stura al proverbiale umorismo tedesco (finora vince l’ipotesi «Diamolo allo Schalke per contare da quanto non vincono il titolo»). È un complotto nazionale contro l’Amburgo, ma il finale è tutto da scrivere nelle ultime tre giornate. Stiamo pur sempre parlando di una squadra la cui tifoseria sfidò il Celtic disegnando sulla curva una immensa e provocatoria Union Jack in onore dei Rangers gemellati, con tanto di motto lealista «No surrender». Una tifoseria che copre le tribune con la citazione di Herman Hesse «Man muss das Unmögliche versuchen, um das Mögliche zu erreichen»: devi provare l’impossibile per raggiungere il possibile.

A volte però le nobili origini e l’azzimato pedigree non bastano per raggiungere il possibile. Anzi, la responsabilità si fa zavorra e il naufragio è più rapido, soprattutto in Sudamerica, dove la passione di hinchadas e torcida è a doppio taglio. In Argentina lo sanno bene, perché dal 2011 al 2013 due corazzate del calibro di River Plate e Independiente sono affondate come la General Belgrano al largo delle Falkland. I Millionarios e i Diablos Rojos erano rispettivamente da 110 e 108 anni in Primera Division e la loro caduta ha fatto la gioia del Boca Juniors, club più titolato al mondo e ora anche unica squadra argentina a non essere mai scivolata in Primera B. Stessa cosa in Brasile, dove nel 2014 è retrocesso il Botafogo di Garrincha e Nilton Santos e dove lo stesso triste giorno del dicembre 2013 retrocedettero Fluminense (da campione in carica) e Vasco da Gama, con tanto di gigantesca rissa allo stadio e tre feriti trasportati in coma in elisoccorso.

Ma la storia recente del calcio è disseminata di nobili decadute, senza bisogno di tornare al Norimberga retrocesso nel ’69 da campione di Germania in carica o agli scandali italiani di Totonero e Calciopoli, letali per Milan e Juve. Si va dal Leeds United, franato in terza divisione dopo aver sfiorato la finale di Champions League nel 2001, al Monaco e al Deportivo La Coruña dei miracoli, finiti entrambi in disgrazia dopo i trionfi europei degli anni Duemila. Retrocessioni che possono essere solo brutti e lontani ricordi, come quelle di Atletico Madrid (2000) e Manchester City (2001), oppure inferni duraturi, come quello in cui i debiti hanno fatto sprofondare l’Aek Atene e i Glasgow Rangers, che per la prima volta nella loro storia hanno dovuto conoscere il sapore della retrocessione una, del fallimento l’altra. Ora entrambe si giocano il ritorno nell’empireo: i greci ai playoff della Beta Ethniki, i Rangers ai playoff di Scottish Championship. Esempi di crolli rovinosi da cui ci si può rialzare, perché il sangue blu nel calcio non mente quasi mai e chi nasce grande, grande può tornare. Perché è sempre questione di dna, quello che quest’anno l’Amburgo ha saputo finora mostrare solo su Twitter. Quando la rivista Kicker dimenticò la squadra nella classifica della Bundesliga, la risposta ufficiale fu autoironica e orgogliosa: «Va bene che giochiamo male, ma wir sind noch drin», «siamo ancora dentro». Non vendete la pelle dei dinosauri prima di averli uccisi.

 

Nell’immagine in evidenza, tifosi dell’Amburgo nel febbraio 2014. Joern Pollex/Getty Images