Nel febbraio 2008 il giornalista statunitense Brian Phillips, sulle pagine Internet del sito The Run of Play, dedicava la rubrica del martedì “The Tuesday portrait” a Iker Casillas. Scriveva: «Iker Casillas is the most comfortable player in football, because, playing the most terrifying role, he’s better than anyone else at escaping when he’s out of position, in trouble and alone», e poi «[t]he ball rises over him at an unreachable angle, and somehow, leaping like a marionette whose master has just pulled its strings, he flings himself back and tips it safely over the bar. He’s fallen to the ground, well off his line; the attacker bears down on him; and somehow, rolling to smother the shot, he gets the ball away. A man turns into the spider and suddenly turns back». Somehow, in qualche modo: è l’avverbio perfetto per descrivere in modo compiuto una parata inaspettata, un movimento repentino che lo spettatore non si aspetta. Uno può aspettarsi il tiro, scelta razionale, assiste alla preparazione e segue la traiettoria del pallone verso la porta, dove il giocatore di movimento ha scelto di piazzarlo. La parata non si sceglie, non sempre, non quella ravvicinata: è l’istinto o sono i fili di un burattino che muovono il corpo verso destra, sinistra, in piedi e di nuovo per terra, in spaccata, è una coreografia grottesca e spesso poco aggraziata.
È il febbraio 2008 e Iker Casillas non è ancora entrato nella storia come, ad esempio, l’unico portiere ad aver vinto due Europei di calcio e un Mondiale. È il 2008 e il portiere campione del Mondo in carica è Gianluigi Buffon, il campione d’Europa Antonis Nikopolidis, il vincitore della Champions League Nelson Dida e della Coppa Uefa Andrés Palop. Iker ha appena vinto la Liga con il Real Madrid, allenato da Fabio Capello, eppure il premio Zamora è andato a Pato Abbondanzieri, del Getafe. Iker Casillas è uno dei migliori portieri in circolazione, ma senza la consacrazione internazionale. Ho cercato di capire a quale parata si stesse riferendo Brian Phillips, ne ho trovata una simile in un Clasico vinto dal Real Madrid al Camp Nou il 23 dicembre 2007. Il Barcellona sta spingendo da mezz’ora e al minuto 33, appena prima del contropiede madridista che porta Julio Baptista in rete, una palla tesa e rasoterra dalla fascia destra corre verso il centro dell’area (purtroppo non capisco di chi sia l’assist: guardando le formazioni, forse di Xavi). Qui arriva Ronaldinho, in corsa, che tira più o meno dall’altezza del dischetto del rigore, forte e non troppo angolato, quello che alcuni telecronisti chiamano “botta sicura”, e Iker Casillas si accartoccia sul pallone e lo respinge con il palmo della mano, la parte bassa, che poi (ho scoperto cercando su Google) è la parte in cui convergono le linee della vita, del destino, dell’intuito e della felicità, il che è strano e curioso quando si tratta di una storia come questa. La palla rimane nell’area piccola o poco fuori, un difensore madridista (Cannavaro? Ramos?) cerca di proteggerla ma è una scelta suicida e infatti da dietro arriva Iniesta che lo sposta e tira al volo, e qui il burattinaio che controlla Casillas alza la marionetta e la fa cadere sul posto con le gambe distese in avanti che respingono la palla, e tutto questo non accade in dieci righe ma in due secondi, forse al massimo tre.
È il periodo d’oro di Casillas, anche se ha 26 anni e già 9 stagioni da titolare alle spalle, due Champions League sollevate di cui una, quella del maggio 2002, subentrando al minuto 68 all’infortunato César e salvando il 2-1 (quello del gol da museo della bellezza, delle Gif o di YouTube di Zidane) con alcuni splendidi colpi di istinto consecutivi. Prima di entrare in campo si era fatto tagliare le maniche della divisa con le forbici da un massaggiatore, aveva i capelli corti e un taglio militare da teenager bello e un po’ tamarro, lo sguardo concentrato e duro eppure da bambino e urlava «Vamos!» per caricare una difesa disattenta e forse se stesso.
Forse la consacrazione definitiva arriva a Euro 2008, il campionato diviso tra Austria e Svizzera. Anni dopo, quando lui ha i tratti più maturi del trentenne arrivato e consapevole, gli chiederanno in un’intervista quale sia stato il momento più bello della sua carriera, e lui risponderà la coppa del 2008, anticipando poi come si anticipa un tap-in dopo una respinta la contro-domanda dell’intervistatore, dicendo sì, la coppa del 2008, ancora prima del Mondiale. Nel 2008 Casillas non sbaglia niente, anzi la Spagna vince il suo primo trofeo internazionale dopo 44 anni grazie a un innovativo schema di gioco che però, senza le sue parate decisive, soprattutto quelle sui calci di rigore avversari, sarebbe rimasto forse un bello schema velleitario, un bel vestito di raso e seta e velluto troppo poco funzionale per il freddo inverno della Spagna eternamente sconfitta, ve lo ricordate, vero, che la Spagna era la squadra che mai vinceva, i nati negli anni Cinquanta, mio padre anche, lo dicevano sempre, era uno degli ingredienti base dell’abicì calcistico di noi nati negli anni Ottanta, o Novanta, o pure Settanta, figlio mio, non ti curare della Spagna, tanto non vincono mai. E noi invece cosa diremo ai nostri figli? Diremo figlio mio, la Spagna ha vinto tutto come nessun altro prima di lei, e l’ha fatto grazie a uno schema di gioco innovativo e bello da vedere, e grazie al suo portiere, si chiamava Iker Casillas e sembrava il più forte di tutti, aveva gli occhi di chi è sempre sicuro e risoluto, fino a un certo punto.
Sul palco, alla consegna della Coppa, stringe la mano a Platini, ignora Joseph Blatter, saluta Zapatero e abbraccia molto teneramente, da vero madridista, il Re Juan Carlos.
Iker Casillas aveva un idolo, Luis Arconada, il portiere della Real Sociedad per quindici anni, capitano dei baschi e della Nazionale spagnola che arrivò seconda agli Europei del 1984 e vincitore del trofeo Zamora per tre stagioni consecutive. Iker arriva all’Europeo con il suo primo (e fino a ora unico) Zamora appena vinto, da capitano della sua Nazionale, con un nuovo contratto con il Real Madrid che fissa la clausola di rescissione a 150 milioni di euro e nove anni di durata. Il girone eliminatorio non è così semplice per la Spagna, che vince con un gol allo scadere sia contro la Svezia che contro la Grecia, e arriva ai quarti di finale contro un’altra squadra che ha sofferto molto, passando alle eliminatorie con una vittoria, una sconfitta e un pareggio: l’Italia di Roberto Donadoni. La miglior parata della partita (nei tempi regolamentari) la compie ancora una volta con i piedi, dimostrando che la sua qualità migliore è forse l’istinto, su una girata di Camoranesi, è una parata bellissima per coordinazione perché l’azione è confusa, e lui appena prima della spaccata con cui salva la Roja sta tornando in posizione correndo, e quindi come diceva Phillips era effettivamente molto «out of position, in trouble and alone», in effetti aveva appena sbagliato un’uscita, ma recupera e conclude il suo numero con l’ultimo salto, come il finale di una coreografia. Centoventi minuti finiscono zero a zero e Casillas si gioca la semifinale con il portiere con cui si sta contendendo il ruolo di migliore del mondo, Gianluigi Buffon che, mentre è a fianco a lui guardando l’arbitro che tira la monetina, sembra un vecchio padre a colloquio con il giovane apprendista, più basso, più esile, con meno cicatrici perfino, nella carriera o su altre superfici più metafisiche. Casillas è una persona pacata e non esulta quando para il secondo rigore italiano, quello tirato comunque forte da De Rossi, ha sempre gli stessi occhi di sfida perché probabilmente ha capito che quello può essere l’Europeo della storia per lui e per la Spagna.
Mi accorgo che guardando i video di Casillas finisco sempre con lo stupirmi dei suoi occhi, di cosa trasmettono. Qui, all’Ernst Happel Stadion di Vienna, quando para il rigore a Di Natale, lo sa che ha appena portato la Spagna in semifinale. Sa anche, perché ha giocato il giorno prima, che ci sarà la Russia e non l’Olanda, e che quindi la finale sarà probabilmente Spagna-Germania (perché sa anche che l’altra semifinale sarà Germania-Turchia). Eppure invece che esultare ha l’espressione severa di chi sta sfidando qualcuno, guarda verso il suoi compagni di squadra che sono una macchia rossa abbracciata a centrocampo che proprio in quel momento sta sfilacciandosi per iniziare la corsa a chi arriverà prima da lui ad abbracciarlo. È uno sguardo molto cinematografico, epico, sembra quasi recitato, non muove nemmeno un braccio per esultare, poi gli altri arrivano lo sommergono e saltano in cerchio con lui al centro, poi lo abbracciano singolarmente, uno per uno come a una processione, lo buttano per terra e lui piange di gioia come gli era successo anche dopo la finale di Champions League che aveva salvato in soli venti minuti, sei anni prima. La finalissima, in confronto, è una serenata noiosa. Sul palco, alla consegna della Coppa, stringe la mano a Platini, ignora Joseph Blatter, saluta Zapatero e abbraccia molto teneramente, da vero madridista, il Re Juan Carlos. Poi, per la prima volta, la alza.
Dopo l’Europeo, possiamo definire Casillas il migliore del mondo? Probabilmente sì, sicuramente ha scalato tutta la montagna della sua carriera ed è arrivato al punto più alto, o quasi. Non capita spesso che una parata di un campionato nazionale venga discussa nei salotti televisivi di quella nazione, capita ancora meno che una parata di un campionato nazionale venga discussa all’estero; succede con i gol, succede a volte con i falli o le espulsioni. Invece nell’ottobre 2009, dopo Real Madrid-Siviglia, è Gordon Banks, campione del Mondo 1966 e autore di quella che viene chiamata ancora “save of the century”, a incoronare Iker, dicendo: «Ha dei riflessi incredibili, lo conosco molto bene. Se continua su questa linea può diventare uno dei migliori portieri di sempre». La parata, più che di talento e tecnica, è un concentrato di intelligenza e rapidità: Negredo sulla fascia destra calcia verso il centro dell’area, è il classico gol in cui l’attaccante deve spingerla in porta, il portiere è generalmente sempre sul primo palo, e infatti Casillas è lì, ma scatta verso il secondo con una velocità impressionante che gli permette di lanciarsi e respingere sui palmi aperti l’appoggio di Perotti da meno di due metri dalla linea di porta (la cosa curiosa è che due anni dopo ne farà una praticamente uguale, sempre contro il Siviglia, forse ancora più bella).
Il Mondiale 2010 lo ricorderemo come quello della Spagna che, con un tiqui taca ancora più perfetto rispetto a quello di Aragonés nel 2008, ha dominato il mondo intero, annoiato da uno dei Campionati più noiosi di sempre e dal suono delle vuvuzelas. Quello che rimarrà forse meno impresso nella storia è l’attimo in cui la storia stessa sbanda e rischia di prendere una direzione che, come la farfalla di Edward Lorenz che sbatte le ali in Brasile provocando tornado in Texas, avrebbe cambiato la storia del calcio per come la conosciamo. Questo attimo è durato novanta minuti il 3 luglio del 2010 a Capetown, Sud Africa, e lo chiameremo “Paraguay zero, Spagna uno”. Questo attimo è il penultimo gradino che Iker Casillas deve salire per arrivare alla cima della piramide d’oro della sua carriera, è il rigore che para a Cardozo sullo zero a zero dopo un fallo stupido di Piqué sullo stesso attaccante. Cardozo ha gli occhi concentrati ma che sembrano terrorizzati, guarda il pallone per i lunghissimi secondi che l’arbitro si prende prima di fischiare, mai un’occhiata al portiere, la rincorsa è incerta e il tiro finisce tra le braccia di Casillas, che non respinge ma trattiene. Cardozo ha le mani in faccia e gli occhi ancora spiritati e sembra pensare “è successo davvero”. Poi anche Xabi Alonso sbaglia un rigore, segna Villa e sull’ultimo contropiede di Santa Cruz Casillas respinge ancora una volta un uno contro uno di piede, d’istinto, di spaccata.
L’ultimo gradino percorso, ovviamente, è la finale, l’ennesimo uno a zero della Spagna, l’ennesima partita finita senza incassare gol. Il momento d’oro è il minuto 61: Robben in campo aperto, ovvero senza nemmeno un difensore davanti se non il portiere spagnolo, esattamente sul dischetto del rigore, gambe larghe, sempre più basso come un ragno, sempre più fermo per non regalare un angolo all’attaccante olandese, che aspetta, poi aspetta ancora, poi non può più aspettare e nemmeno Casillas e il portiere e il tiro partono insieme, Iker copre la porta distendendosi e con la punta del piede respinge il tiro, quasi altrimenti perfetto, di Arjen Robben. La Spagna, dopo l’Europeo, vince il Mondiale, al fischio finale cinque, sei, sette, otto giocatori corrono verso la porta e si lanciano su Casillas come se l’avesse segnato lui il gol decisivo, perché è già il capitano dei record, alza il secondo trofeo internazionale in due anni, va negli spogliatoi, viene fermato dalla giornalista Sara Carbonero, lui ringrazia i genitori, il fratello, la gente, si ferma, trattiene delle lacrime, lei dice «no pasa nada», lui la abbraccia la bacia e se ne va. «Qué grande es este capitan, qué grande» dicevano dallo studio, e Iker era vincente e innamorato e baciava la sua fidanzata in diretta.
Il record è poi l’altro Europeo, quello della Spagna senza nessun rivale, quello del 2012. Iker Casillas ha fatto il pieno di record: l’unico capitano ad alzare due volte la Coppa del Mondo e quella d’Europa; unico giocatore ad aver vinto 100 partite con la sua Nazionale; portiere con più partite internazionale da imbattuto; portiere più giovane a giocare la Champions League; record di imbattibilità nelle fasi eliminatorie dei Mondiali e nella Liga spagnola e nel Real Madrid, e ce ne sarebbero altre ancora, più di quelle già elencate.
Questo è l’Iker Casillas che pensavo, pensavamo, sarebbe passato alla storia: l’indiscutibile volto merengue per gli annales del calcio a venire, per rappresentare la Spagna e i Blancos, e forse il calcio tutto, nei prossimi millenni interstellari. Aveva vinto più di tutti, era stato battuto meno di tutti, e non aveva mai avuto una sola incertezza. Poi è arrivato José Mourinho.
La storia è confusa, eppure è nota: lo spogliatoio del Madrid nel 2012 è, come titola il Guardian, sull’orlo della guerra civile. Mourinho accusa alcuni giocatori, dopo una sconfitta contro il Barcellona, di essere protetti dai media spagnoli, di essere troppo coccolati in quanto campioni del mondo, di essere i buoni quando lui, portoghese, doveva essere il cattivo. Nell’anno precedente il giornalista di El Pais Diego Torres aveva ripetutamente firmato articoli gonfi di indiscrezioni dallo spogliatoio del Bernabeu, indiscrezioni che la stampa, secondo Mourinho, non avrebbe potuto avere senza una talpa. La talpa, secondo Mourinho, era Iker Casillas. Qualcuno può immaginare cosa accade nella testa, nel cuore e nelle vene, nella produzione di adrenalina e serotonina di uno dei più grandi giocatori spagnoli e madridisti di sempre quando, dopo due Europei e un Mondiale vinto, il 22 dicembre 2012, viene messo in panchina contro il Malaga per “scelta tecnica”, e in campo viene mandato Antonio Adán, una riserva per vocazione? No, ma le sue espressioni su ognuno dei tre gol subiti da Adán dicono molto. Adán gioca male, il Real perde, a gennaio Casillas torna titolare ma da quel gradino della piramide, quello di pochi mesi prima, la discesa è troppo veloce.
I fatti, in breve: Casillas torna titolare, il 23 gennaio 2013 contro il Valencia in Copa del Rey. Sbaglia un’uscita, il pallone rimbalza in una mischia, lui cerca la palla con le mani, gli attaccanti con i piedi, Arbeloa vuole rinviare ma gli calcia la sinistra, lui si toglie il guanto e lo getta per terra e si siede e aspetta i soccorsi. Si copre il volto, fa male. Sembra che sappia cosa sta per succedere, sembra che viva in un film tragico girato male, in cui tutto è chiamato, dal primo minuto all’ultima scena. Mourinho compra Diego Lopez. Casillas starà fuori tutta la stagione. Mourinho lascia il Bernabeu, arriva Carlo Ancelotti, il 17 settembre Iker torna in campo contro il Galatasaray. Ci rimane 11 minuti. Esce, ancora per infortunio, in una delle scene più tristi della lunga serie Tv del calcio europeo. Non tornerà più, in più di un senso.
(Un aneddoto curioso, per stemperare questo crollo drammatico: prima che Iker nascesse i suoi genitori vivevano a Bilbao, dove il padre lavorava – che è poi il motivo per cui il portiere porta un nome basco. Un calzolaio amico della madre pregò la donna di non tornare a Madrid, e profetizzò che suo figlio sarebbe diventato un calciatore, uno dei migliori, e che avrebbe giocato nell’Athetic Club de Bilbao, la miglior squadra del mondo. Iker nascerà di lì a pochi mesi, però a Madrid, e giocherà e sarà uno dei migliori, però al Madrid, una specie di nemesi per l’Athetic.)
Con Ancelotti in panchina Casillas gioca la Copa del Rey e la Champions League, ma quello che è successo con Mourinho, e poi gli infortuni, hanno rotto qualcosa. Più tardi, in un’intervista con il famoso giornalista Iñaki Gabilondo, attesa in Spagna come una rivelazione o un sensazionale dossier politico, dirà di essersi sentito abbandonato dalla società durante l’infortunio. Dirà di aver pensato ad andarsene, e che se ne andrebbe ancora oggi se qualcuno non lo volesse più a Madrid. È orgoglioso ma sulla difensiva. Circola un’indiscrezione più personale che va ad appesantire il dramma del portiere: Iker ha deciso di rilevare interamente la Ikerca S.L., cioè la società di amministrazione del suo patrimonio fondata nel 2000 da José luis Casillas e María del Carmen Fernández, i suoi genitori. Le voci parlano di litigi e tensioni nella famiglia, un altro strato di difficoltà in un periodo in cui il portiere campione del mondo si è trovato a perdere il campo, a essere accusato di collusione con i media contro i suoi stessi compagni di squadra, a venire attaccato a causa della sua compagna, Sara Carbonero, giornalista, a tornare in campo e infortunarsi e tornare in panchina, o in ospedale, o in un centro di riabilitazione.
Sembra un portiere mediocre, insicuro, in balia dei nervosismi come era stato Adán in quella sconfitta contro il Malaga.
La vittoria della Champions League, la decima coppa delle merengues, è una vittoria strana: in finale, prima del colpo di testa di Sergio Ramos a tempo quasi scaduto, prima dei tempi supplementari e dell’esondazione della superiorità del Real sull’Atletico di Simeone, prima di tutto, c’era stato un errore grave di Casillas, l’errore che aveva permesso a Godin di portare l’Atleti sull’uno a zero, un risultato durato quasi settanta minuti. Un’uscita sbagliata del tutto, un’uscita difficilmente spiegabile: non sbagliati i tempi, non sbagliato il salto, ma inconcepibile la logica, l’idea. Sembra confuso o peggio, incapace di ritrovare se stesso, la concentrazione di un tempo, la forza di un tempo o anche solo la metà. Lo dirà sempre nell’intervista con Gabilondo, con una frase un po’ ironica ma soprattutto amara: «La scorsa stagione è stata quella in cui ho giocato meno, e curiosamente fu la migliore di tutte». Al Mondiale in Brasile, contro l’Olanda, sbaglia prima un’uscita (un salto a vuoto che permette agli Orange di segnare il 3-1) e soprattutto il controllo palla che regala a Van Persie il 4-1. Contro il Cile, nella partita da dentro o fuori, mentre Claudio Bravo non sbaglia un intervento (e soprattutto un’uscita), Casillas regala il 2-0 ai sudamericani, respingendo con i pugni una punizione sui piedi di Aranguiz. Sembra un portiere mediocre, insicuro, in balia dei nervosismi come era stato Adán in quella sconfitta contro il Malaga. Contro la Slovacchia, il 9 ottobre 2014, l’ennesimo errore che condanna la Spagna a una sconfitta per 2-1 nelle qualificazioni a Euro 2016: un semplice tiro di Kucka, centrale, porta il portiere a mancare completamente l’intervento, muovendosi anzi sulla sua destra anziché rimanere fermo. Sono errori di nervosismo, di mancanza di tranquillità, come se ci fosse un fantasma che perseguita Iker Casillas e quel fantasma è Iker Casillas stesso, l’Iker Casillas di un tempo che l’Iker Casillas attuale non può più raggiungere e nemmeno imitare, è lo Spirito del Natale Passato che fa impazzire Ebenezer Casillas.
Cosa penseremo di Iker Casillas, adesso? Che è diventato scarso? È una talpa, dicevano. Poi ha iniziato a giocare male, e allora hanno detto che non era più degno di giocare titolare, né con la Spagna né col Madrid. Poi sono girati su Internet dei filmati che mostrano l’allenamento dei due portieri madridisti attuali, il tico Keylor Navas e Iker, in cui Navas salta come un indemoniato gli ostacoli dell’esercizio, mentre Iker lo fa svogliatamente, e allora l’hanno accusato di scarso impegno, di avere il posto assicurato qualsiasi cosa accada, di godere di favori e privilegi negati ai compagni. Ad impressionare, in così poco tempo, è la caduta e la trasformazione improvvisa di quello che è stato, per anni, il miglior portiere del mondo. Che il portiere sia un ruolo difficile da interpretare è noto a tutti. Che il portiere sia il ruolo in cui il cervello e la concentrazione contano di più è altrettanto lampante. Che questo abbia portato alcuni portieri ad alternare prestazioni angeliche con imbarazzanti goffaggini pure. La caduta di Casillas mi ricorda la caduta di Rivaldo, che arrivò al Milan un anno dopo un Mondiale vinto da protagonista, giocò male o malissimo, distratto e lento, impacciato e soprattutto irriconoscibile e incapace, e poi ammise con un candore stupefacente: «Mi sono separato da mia moglie. Lei è tornata in Brasile e sto soffrendo molto senza la mia famiglia e i miei figli. Non sono quello che avete visto in Brasile, mi dispiace». Il Casillas di oggi, e forse il Casillas di domani, è riassunto nei suoi occhi: quelli di Malaga, della prima panchina, affondati nelle mani e nelle maniche del giaccone bianco per non sentire il freddo dell’Andalusia a dicembre, il freddo di chi deve stare fermo e seduto in panchina dopo quattordici anni ininterrotti di campo, o quelli di Olanda-Spagna, di chi pensa vi prego, fate finire tutto questo, è un incubo, è lo spirito del Casillas passato.