Gli occhi di José Mourinho brillavano di un fuoco mai così acceso mentre discutevamo la sua vittoria per due a zero a Anfield dello scorso aprile, quella che ha compromesso le speranze di conquista della Premier del Liverpool e che ha mostrato tutte le capacità tattiche e psicologiche del manager del Chelsea. I grandi allenatori diventano pericolosi quando sentono di aver subito un’ingiustizia. Mai metterli in un angolo. Ferguson docet. Quel giorno dalla mia postazione televisiva ho avuto la netta sensazione che Mourinho e il Chelsea avessero una missione. Ho cercato conferme alla mia teoria nel suo ufficio al campo di allenamento del club, a Cobam. Mentre rispondeva, ho visto la determinazione tornare sul suo volto. «Il Chelsea non ha alcuna intenzione», mi ha detto, «di fare la parte del clown nella festa di qualcun altro».
«Per un periodo dell’ultima stagione mi era sembrato che il paese volesse a tutti i costi il Liverpool campione», ha iniziato Mourinho. «I media, la stampa, molti spingevano il Liverpool. Nessuno diceva però che si trovava in una posizione di vantaggio perché non aveva giocato la Champions. C’erano molte cose che nessuno diceva, molte decisioni che li avevano aiutati a guadagnare punti importanti e fondamentali. Quel giorno mi sembrava fatto apposta per il loro trionfo. Con i miei giocatori ho usato proprio queste parole. Ho detto loro: “Saremo i loro pagliacci, vogliono che facciamo i pagliacci nel loro circo. Il circo è qui che ci aspetta. Il Liverpool sarà campione”».
E tu non volevi stare al gioco, giusto?, lo interrompo. Mi guarda dritto negli occhi: «No». Ma c’è dell’altro. Rifiutando di spostare la partita al giorno prima – anticipo chiesto dal Chelsea che doveva prepararsi a una semifinale di Champions League – il Liverpool non ha forse provocato gli uomini di Mourinho, spingendoli a giocare con ancora più vigore, contribuendo così alla sua stessa fine? «Il titolo per noi era perso e non capivamo come una squadra inglese che avrebbe rappresentato l’Inghilterra in semifinale non avesse il diritto di giocare di sabato. Eravamo determinati. Era una decisione di Sky? Siamo andati da Sky. Quando ci hanno detto che era una decisione della Premier League siamo andati dalla Premier League. Quando ci hanno detto che era un problema del Liverpool siamo andati lì a vedere che aria tirava. Le persone che hanno preso quella decisione hanno sbagliato. Penso che se avessimo giocato il giorno prima non lo avremmo fatto con lo stesso spirito che abbiamo messo in campo domenica».
Wow, eccola la frase alla Mou. Eccolo Mou. Abbigliamento casual da domenica, felpa col cappuccio, barba incolta. Era tutto parte del piano di Mourinho, fare abbassare la guardia al Liverpool e poi distruggerlo? Credo che la mia intuizione sia stata giusta. Sono qui per scoprire lo stile del Mourinho manager, quanto a lungo potrà rimanere al Chelsea, se ci saranno dei giovani inglesi finalmente promossi titolari, e cosa pensa della squadra di questa stagione rispetto a quella che aveva ereditato lo scorso anno. Mi fa piacere sentirlo parlare di un «impegno morale» a far crescere giovani talenti britannici. Sulla questione del restare o meno, gli domando cosa risponderebbe se il Chelsea gli offrisse altri sei anni di contratto. «Firmerei domani. È quello che voglio» dice. «Voglio restare al Chelsea e nel calcio inglese perché credo di essermelo guadagnato. Mia moglie mi dice spesso che mi sono guadagnato il diritto di fermarmi quando voglio. Dice che ho vinto abbastanza, ho fatto abbastanza, ho creato un bel clima familiare. Dice che mi merito ciò che voglio. Sfortunatamente non sono il proprietario del Chelsea, io dipendo dal club e dai risultati».
L’esultanza morigerata contro il Liverpool
Parliamo per un’ora e quaranta minuti di questa e di altre cose. Comincio ricordandogli che ha attirato per la prima volta la mia attenzione esultando in scivolata sul nostro bordocampo, quello dell’Old Trafford, quando il suo Porto ha buttato fuori dalla Champions League il mio Manchester United. Io giocavo in quella partita di dieci anni fa che ha contribuito a portare Mourinho alla conquista della Champions League e all’incarico al Chelsea, anche se prima o poi ci sarebbe arrivato comunque. «Se ripenso a quella scivolata, la cosa bella per me è che lo scorso anno ho fatto esattamente la stessa cosa», dice. «Non era un gesto dell’allenatore giovane, non era una cosa da chi pensava che quel momento avrebbe cambiato la sua carriera per sempre. Lo scorso anno ho fatto esattamente la stessa cosa contro il Paris Saint Germain e, si spera, ne farò un’altra anche quest’anno. È parte di me. È parte del modo in cui a volte non controllo le emozioni, la felicità. Tornando a quel giorno, credo di avere avuto già prima un contatto importante per lasciare il Portogallo, dunque non è stato a causa di quella partita e di quel momento che ho ricevuto l’interesse del Chelsea. Era già una cosa avviata».
La cavalcata del Porto nel 2004
Nel corso della sua carriera, mi racconta, ha imparato a «rispettare chi merita di vincere» e cita l’esempio del Crystal Palace, che ha inflitto una sconfitta dolorosa al Chelsea lo scorso marzo: «Volevo uccidere i miei ragazzi ma loro, i giocatori del Crystal Palace, erano straordinari e avevano bisogno di quei punti per sopravvivere. Così, nonostante lo sconforto, ho detto: quei ragazzi sono stati bravissimi. Ho fatto personalmente i complimenti a ognuno di loro».
Da allora il Chelsea ha fatto un salto di qualità con gli acquisti di Diego Costa e Cesc Fàbregas, tra gli altri. Colgo l’occasione per chiedere a Mourinho del rapido miglioramento della sua squadra. «Lo scorso anno ero convinto che potessimo vincere il campionato ma non siamo stati capaci di reggere la pressione». Perché? «Come squadra avevamo alcuni limiti tattici e tecnici e lo sapevamo. Vedi, io cerco di interpretare il mio ruolo di guida adattandolo alla realtà. E lo scorso anno la mia impressione era che i ragazzi non fossero ancora pronti per quella che definisco una leadership aggressiva. La squadra era mentalmente e forse anche tatticamente instabile. Non eravamo in grado di gestire alcuni momenti del gioco. La mia impressione è che in questa stagione invece perderemo sì delle partite ma non certo perché non siamo in grado di gestire alcune fasi o una parte specifica del gioco. Lo scorso anno avevamo problemi quando la squadra avversaria giocava molto chiusa, avevamo problemi quando l’altra squadra ci metteva sotto pressione, giocando la palla lunga. Quando eravamo in un buon momento avevo l’impressione che non sarebbe durato. So che capisci quel che dico perché l’hai vissuto nella tua carriera. Vinci oggi, domani e il giorno dopo. Da un lato diventa un’abitudine ma dall’altro ti stanchi, perché diventa una responsabilità. Lo scorso anno non eravamo pronti per una cosa del genere. Questa stagione siamo migliorati da un punto di vista calcistico con Diego e Fabregas. Non c’è dubbio. Ma quello che la gente forse non capisce è che è molto maturata la squadra in termini di personalità».
Gli faccio notare che non si può vincere la Premier League senza forza, potenza e resistenza. Provo a scoprire dove vede il punto di equilibrio tra arte e calcolo. Si dimostra un pragmatico, libero da filosofie rigide o idee preconcette: «Ovviamente il talento è importante», dice «quanti punti si possono fare grazie al talento? Molti. Ma quanti punti puoi perdere a causa delle altre qualità di cui stiamo parlando (forza e volontà)? Molti, anche qui. Dunque l’equilibrio è tra il talento e le qualità mentali della squadra».
Al secondo incarico con il Chelsea, Mourinho è chiaramente a suo agio, rilassato, in buoni rapporti con i suoi datori di lavoro. Ha il controllo della squadra e dei giocatori. Per esempio Eden Hazard gli fa quasi brillare gli occhi di orgoglio paterno. È il giocatore di cui vorrei parlare maggiormente in questa intervista, perché ho notato che Mourinho l’ha esortato pubblicamente a realizzare in pieno il suo talento. Mi offre un punto di vista affascinante. Come prima cosa dice: «Non so se tu sei d’accordo, ma il profilo del “giocatore adulto” che trovavi nel calcio di 15 anni fa è lontano dalla maggioranza dei giocatori che hai visto da quando hai smesso di giocare. Sono ragazzi diversi. Credo che Eden sia un’eccezione in questo contesto. È un ragazzo fantastico. Umile, terribilmente umile. Molto gentile, carino. Egoismo: zero. Egocentrismo: zero. È fantastico. Ho fatto due chiacchiere con suo padre, che mi ha detto una cosa che mi è piaciuta moltissimo. Mi ha detto: “Ho un figlio meraviglioso. È un padre meraviglioso, un marito meraviglioso, e voglio che cambi perché diventi anche un giocatore meraviglioso. Però spero che non cambi troppo. Voglio che rimanga lo stesso marito, lo stesso padre, lo stesso figlio. Però con un pochino più di tenacia, aggressività mentale, ambizione ed ego. Solo un po’ di più. E tu sei la persona che può dargli queste cose”. Non possiamo certo trasformare questi uomini e giocatori fantastici in animali da competizione, in macchine. Anche se suo padre lo volesse. Però possiamo portarli a un altro livello, lavorando molto in allenamento, che poi è quello che stiamo facendo». E Hazard sta rispondendo bene al messaggio? «Sì, sì. Non ha mai paura di giocare né di prendersi delle responsabilità. Ma non si tratta di quello. Il punto è che lui arrivi a pensare: oggi devo essere decisivo. Quando dice alla stampa “non sono uno dei migliori cinque giocatori al mondo”: lo può essere, ma non può giocare partite in cui in 90 minuti non fa una cosa che lo renda decisivo. La settimana prima della partita contro l’Arsenal gli sono stato addosso tutti i giorni: sii decisivo. Non accontentarti di fare le cose bene. Non accontentarti di prendere parte al gioco. Devi fare qualcosa che ci faccia vincere la partita. E così ha fatto. È questo il bello di Eden: il suo talento è impressionante e dal punto di vista umano non è di questa epoca».
Hazard contro l’Arsenal: messaggio di Mourinho pienamente recepito
Gli chiedo se, dopo una serie di trasferimenti dal Portogallo all’Inghilterra, dall’Italia alla Spagna e poi ancora in Inghilterra, la sua permanenza al Chelsea a questo giro sia di lungo termine. «Avevo un progetto per la mia carriera. Non sempre puoi realizzarlo. Volevo lasciare il Portogallo e andare in Inghilterra, chiaro. Quando ho lasciato l’Inghilterra volevo l’Italia. Morivo dalla voglia di andare in Italia dove la gente parla della mentalità italiana e degli aspetti tattici del gioco. E dopo volevo il Real Madrid. La Spagna, certo, ma io volevo il Real. Questo percorso l’ho voluto moltissimo e ce l’ho fatta. Così mi sono chiesto: qual è il posto che ti piace di più? Dove sei più felice? Qual è la sfida più grande? Ho fatto la mia scelta. Lo dico sempre, in ogni club lavoravo e pensavo in funzione di quel club, però tenendo sempre a mente la mia prossima mossa. Questa è la prima volta che non ho una prossima mossa in testa. Voglio restare qui. Voglio rimanere fino a quando il Chelsea non mi dirà che è finita, perché i risultati non sono buoni, perché vogliono andare in un’altra direzione o perché non gli piace più il mio stile. La mia permanenza al Chelsea dipende da loro, non da me». Il Chelsea, gli faccio notare, ci guadagnerebbe in continuità: «Quello era l’obiettivo, ma per tornare qui dovevo essere molto sicuro di quello che stavo facendo, specialmente perché non volevo tornare nel mio club – perché possiamo dire che il Chelsea e l’Inter sono i miei club – dopo averci passato un periodo molto buono, e non essere nuovamente felice, e non fare ancora cose belle. Abramovich mi ha lasciato molto tempo per pensarci. Quando mi ha chiesto di tornare, ci ho messo un po’ per analizzare la situazione. Quel Chelsea che avevamo cominciato a costruire nel 2004-2005 non esiste più. Non abbiamo che due o tre ragazzi di quel periodo. Dobbiamo ricostruire la squadra. La prospettiva ora è diversa da dieci anni fa, perché allora si trattava di spendere senza limiti. Così il club ed io ci siamo ritrovati in un momento positivo per entrambi, credo che loro stessero cercando un allenatore come me, mentre io aspettavo proprio che il mio Chelsea iniziasse ad avere questo tipo di nuovo profilo. Spero rimarremo insieme per molti anni».
Il Chelsea è uscito dal mercato estivo con un guadagno di 125 milioni di sterline, grazie alla cessione di giocatori non ritenuti necessari, mentre sono arrivati alcuni calciatori che Mourinho chiaramente sente come sue scelte. Spiega: «È proprio partendo dai giocatori che non sono fondamentali per me, che tu – e per tu intendo la società – devi fare il migliore lavoro possibile per me. È un lavoro facile quando si parla di giocatori fortissimi? No, non lo è. Per esempio, quando Juan Mata è andato al Manchester abbiamo perso un ottimo giocatore, e se l’è preso uno dei nostri principali avversari. Sarebbe successa una cosa del genere 10 anni fa? Forse no. Ma questo è il calcio moderno, la nuova realtà economica: se il Manchester United ti dà molti soldi, lui se ne deve andare. È la strategia del mio club, del mio presidente, Abramovich, del consiglio di amministrazione, e io sono d’accordo. Non sono quel tipo di allenatore che dice: no, non al Manchester, vendete Mata alla Juventus o al Barcellona ma non al Manchester. Il Chelsea non può permettersi venti giocatori nello stesso ruolo. Non posso avere un Fábregas e un altro Fábregas che prende lo stesso stipendio. Se lui non può giocare, mi adeguo e al suo posto metto Oscar».
Anche Mou piange (dopo aver vinto la Champions con l’Inter, dicendo addio a Materazzi
Questo ci porta ai giovani giocatori inglesi e alla promessa che Mourinho aveva fatto a luglio di promuovere Lewis Baker o Dominique Solanke o Isaiah Brown. L’Inghilterra tiene moltissimo a una maggiore presenza inglese in squadre come il Chelsea e il Manchester City e spero di avere conferme in questo senso da Mourinho. Manterrà le sue promesse? Lui dice che lo farà, ma aggiunge che la responsabilità non è solo sua: «Dipende da me, dai giocatori, dai loro agenti, dal loro entourage, dalle persone che li circondano. Il mio punto di vista, come allenatore e manager, è che debbano giocare nel Chelsea. Una delle cose che ti restano maggiormente nel corso di una carriera sono i ragazzi che diventano grandi giocatori, e tu sei stato quello che li ha messi nelle condizioni di diventarlo. Varane era con me al Real quando aveva 18 anni, Santon quando ne aveva 17 (all’Inter): la sua seconda partita è stata contro il Manchester United in Champions League. Carlos Alberto ha segnato in una finale di Champions a 18 anni. Cose che restano, non credo ci sia un solo allenatore che non voglia avere questi ricordi. Natan Akè, Kurt Zouma, Andreas Christensen, Lewis Baker, Brown: abbiamo un gruppo di ragazzi e io non ho paura di farli giocare, ma al contempo dobbiamo proteggere i giocatori. Ci dovrebbe essere un impegno morale reciproco tra i club e la nazione. Io sento una responsabilità, nessuno mi ha mai detto che c’è una regola per cui dobbiamo far giocare cinque giocatori inglesi, ma credo che la differenza in qualità tra i giocatori che abbiamo ora e quelli che avevamo nel 2004 sia impressionante. Abbiamo il materiale, lavoriamo sodo, ce la mettiamo tutta affinché possano diventare titolari. Alcuni di loro sono inglesi e, nel momento in cui diventeranno giocatori del Chelsea, saranno una risorsa anche per l’Inghilterra».
Isaiah Brown, classe 1997, segna nella finale di Youth League vinta dal Chelsea contro lo Shaktar, aprile 2015
A una domanda apparentemente innocua su quali allenatori ammiri, Mourinho ha dato una delle risposte più interessanti: «Siamo in un periodo pieno di contraddizioni. C’è questa opinione diffusa che, visto che la conoscenza è disponibile per tutti, che la distanza tra te e il sapere è un clic, abbiamo generazioni particolarmente bene informate e ben preparate. Ma io non sono d’accordo. Spesso quando leggo quello che la gente scrive mi dico che no, non è affatto così. Perché quando la conoscenza è a disposizione di tutti, per alcune persone diventa tutto troppo facile. Quando il sapere è meno accessibile devi pensare di più, devi produrre sapere. Se tu vuoi fare una buona sessione di allenamento, per preparare la difesa a giocare in modo chiuso puoi trovare 200 tattiche (mi mostra il computer dove uno le può trovare su internet). Se non hai queste informazioni però devi inventartele tu. Vedo tante tattiche tutte uguali. Vai nella quinta divisione o negli under dieci: i due difensori centrali aprono, il portiere passa la palla al centrocampista che però non è tatticamente preparato e la perde. Però tutti continuano a fare la stessa cosa. Siamo in un momento di relativa stabilità, perché c’è questa conoscenza diffusa e si rischia troppo poco».
Dal suo punto di vista privilegiato, offre una panoramica di come prendere una decisione su due piedi, adattarsi, considerare i fatti. «Non sono un fondamentalista del calcio. Intendo una persona che ha le sue idee sul calcio, ed è disposta a morire piuttosto che a cambiarle. Ecco io non sono così». Si fa molto agitato: «La gente mi chiede qual è il mio modello di gioco. E io rispondo: quale modello?». E mentre lo dice freme tutto. «Modelli di gioco contro chi? Quando? Con quali giocatori? Modello di gioco cosa? Che ragionamenti sono? Non posso rispondere a questa domanda. Sono troppo stupido o troppo intelligente? Ma poi, cos’è? Non lo so. Il mio modello di gioco è costruire dal portiere fino a Eden Hazard? Il mio modello di gioco è che devo scoprire qual è il punto debole del mio avversario e qual è il mio punto di forza. Diego Costa è più forte di quel centrale difensivo? Il modello di gioco, ma cos’è? Per me il modello di gioco sono i principî che stabilisco con la mia squadra come priorità, che ci danno un certo DNA, ma quella è la base. È come un progetto: un progetto deve essere flessibile, non può mai rimanere lo stesso dall’inizio alla fine. È come una casa: la cambi, non ti piace una porta e la sostituisci, lo stesso con le finestre. Io preferisco che la mia squadra attui un pressing basso ma, se l’avversario preferisce costruire il gioco da dietro, e sono bravissimi a farlo e questo dà loro una grande stabilità nel gioco, allora presserò lì. Il Liverpool voleva giocare con Suárez dietro i difensori, Sterling pure e Steven Gerrard davanti ai difensori. Allora io sono andato lì, ho messo Lampard attaccato a Steve G. e ho attuato un pressing basso. Ho vinto. Poi mi criticano perché non dovrei giocare in quel modo. Sono quello stupido. Il fatto è che non sono un fondamentalista e mi pare che un po’ di gente nel calcio lo stia diventando un po’ troppo». A riprova indica l’Atlético Madrid di Diego Simeone come punto di riferimento: «Quello che ha fatto l’Atlético Madrid lo scorso anno è notevole perché ha vinto un campionato che non poteva vincere. Ci sono stato tre anni ed è difficile immaginare un’altra squadra che non sia il Barcellona o il Real Madrid, ma loro ce l’hanno fatta. Hanno puntato tutto sull’approccio: lo spirito di squadra, l’organizzazione, lo stile di gioco. La gente diceva che difendevano sempre e poi lanciavano lungo per Diego Costa. No, loro sapevano quello che stavano facendo».
«La gente mi chiede qual è il mio modello di gioco. E io rispondo: quale modello?»
Come ultima cosa gli chiedo un paragone tra il Chelsea di quest’anno e le prima squadra con cui ha vinto un campionato: «Penso che la squadra del 2005 avesse una marcia in più rispetto a questa, e cioè l’istinto assassino. Tutte le volte che potevamo uccidere la partita, uccidevamo la partita. Non ricordo un solo match dove avevamo l’avversario in pugno e non abbiamo chiuso la partita. Era una squadra che non ti dava mai una possibilità di sopravvivere. Questa squadra è diversa. Siamo più artistici. Abbiamo un miglior controllo del gioco, un miglior controllo palla. Sappiamo muoverci fra i giocatori e sappiamo far girare palla. Questa squadra si merita più ammirazione per i buoni risultati e per un certo suo stile. Adesso abbiamo alcuni ragazzi ancora in bilico tra creatività e concretezza. Dobbiamo imparare a uccidere le partite». Ci riusciranno e vinceranno il campionato? «A volte penso che faccia parte del DNA dei giocatori, sono cose che uno non gli può dare. Ma come allenatore mi sento sempre in diritto di mettermi in mezzo. Posso aiutare, posso cambiare, ci provo. Prendiamo Willian: il lavoro che fa con o senza palla è fantastico. Così gli dico: devi finire una partita di 90 minuti con tre tiri, non è possibile che tu giochi per 90’ nella tua posizione senza fare almeno tre tiri in porta e due assist. È meraviglioso quello che fai per la squadra, nella costruzione del gioco, quando bisogna tornare a difendere. Il tuo lavoro è meraviglioso ma con un po’ di questo e di quello diventerai fantastico».