Ritorno a Istanbul

Guardare Liverpool-Milan (3-3) molti anni dopo. Cosa si prova, cosa è successo, e perché un tifoso può provare nostalgia anche di una sconfitta.

La partita del 2005 la guardai in piazza Duomo a Milano, con degli amici e delle amiche più grandi di me che conoscevo da pochi mesi. Alcuni li frequento ancora, molti sono spariti, so cosa facciano a causa di Facebook, spesso sono lavori che non mi affascinano e non farei mai.

Quel giorno eravamo in piazza Duomo e in molti avevamo una maglietta gialla, era la maglietta di un piccolo gruppo della Curva Sud del Milan che i miei nuovi amici avevano creato. Avevamo panini e birre e vent’anni quasi tutti. Non ricordo molto altro di quella sera se non che dopo l’ultimo rigore decisivo ero seduto su un marciapiede e la piazza era sporca di bottiglie di vetro e di plastica, carte, rifiuti vari, uno scenario desolante tipico delle grandi manifestazioni che finiscono, uno scenario triste anche nelle occasioni più felici, con i piccoli mezzi della nettezza urbana che sgommavano e bagnavano la piazza per raccogliere i rifiuti.

Stavo piangendo un po’, e qualcuno mi ha detto «dai, andiamo». Non ricordo dove siamo andati. Un’altra cosa che ricordo è l’inizio del secondo tempo. Ci eravamo divisi: qualcuno era andato a comprare delle birre dal venditore napoletano con un carrello pieno di ghiaccio e un ombrellone della Coca Cola, altri erano andati a pisciare e ora non riesco a immaginarmi dove, forse nelle vie tra via Orefici e via Mercato, forse dietro piazza della Scala, in ogni caso era una bella camminata. Quando siamo tornati tutti insieme e l’arbitro spagnolo stava per fischiare l’inizio del secondo tempo qualcuno ha detto: «Rimettiamoci come prima, sennò porta sfiga», e abbiamo riordinato i nostri posti come nei primi quarantacinque minuti. Il Milan era in vantaggio 3-0.

Riguardare Liverpool-Milan del 25 maggio 2005 a dieci anni di distanza, nell’open space di una redazione silenziosa, con le cuffie sulle orecchie e lo schermo di un iMac da 27 pollici, è un’esperienza completamente diversa da quella originale. Ho deciso di riguardare la partita per tre motivi: perché sono passati dieci anni, e volevo riprovare quelle emozioni o capire in che modo le avrei riprovate; perché non l’avevo più rivista, e di quello che è accaduto su quel campo, calcisticamente parlando, ricordavo ormai poco; perché, parlando di Milan, ero curioso di rivedere quella squadra, cioè la più forte rosa rossonera degli ultimi quindici anni.

All’inizio, le telecamere inquadrano i giocatori che escono dal tunnel degli spogliatoi. Lo stadio Atatürk è pieno, i cognomi che si leggono sulle maglie bianche del Milan sono quelli di Seedorf, Kaká, Nesta, Stam, Pirlo. Il telecronista inglese della partita che ho trovato online dice: «This is where every player of the world wants to be tonight». I giocatori in fila ascoltano l’inno della Champions League. Nelson Dida ha gli occhi chiusi. I capitani Gerrard e Maldini si scambiano i gagliardetti e stringono le mani dell’arbitro e dei guardalinee. Quando devono stringersela a vicenda non si guardano nemmeno negli occhi, immagino sia una specie di reazione psicologica per non far credere all’avversario di essere emozionati. Shevchenko va da Gattuso e lo abbraccia, sembra dirgli «dai, coraggio». L’ultima immagine prima del fischio d’inizio è quella dei giocatori del Liverpool che si abbracciano in cerchio ad ascoltare il discorso di Gerrard, il capitano.

La formazione del Milan è ancora, giustamente, definita come una delle migliori nella storia rossonera. Più di quella vincente a Manchester, probabilmente, e di quella di Atene

Il momento del primo gol del Milan lo ricordo. Ricordo esattamente il gesto atletico di Paolo Maldini che alza la gamba destra e impatta il pallone in una maniera complicata, lo fa rimbalzare a metà strada, poi si alza a scavalcare Dudek. Quello che non ricordavo era il minuto, cioè il primo, anzi il minuto zero. Guardo lo schermo: Kaká corre con la palla sulla fascia destra, salta in modo netto Djimi Traoré, terzino mediocre, che lo butta a terra. Andrea Pirlo batte la punizione dalla trequarti, alza la mano destra e con le dita fa “tre”, lo schema. Maldini è sistemato fuori dall’area e non lo guarda nessuno, gli altri spingono verso l’area piccola, in modo che all’altezza del dischetto ci sia una zona vuota. Pirlo mette la palla in quella zona vuota, Maldini fa due passi avanti e la calcia, fa gol. I coreografi vestiti di rosso, quelli che avevano ballato durante lo spettacolo pre partita, stanno ancora finendo di uscire dal campo. Credo di ricordare cosa ho pensato dieci anni prima, al gol di Maldini. Dopo l’esultanza, dopo gli abbracci, dopo l’emozione per il fatto che avesse segnato proprio Paolo Maldini, 38 anni, capitano, futuro – se la partita fosse finita così non ci sarebbero stati dubbi – Pallone d’Oro. Ho pensato: troppo presto. Nella mia personale gestione delle emozioni non ho mai voluto che la mia squadra segnasse troppo presto. Per me un gol al primo minuto non significa che la strada è in discesa, ma che hai fatto arrabbiare il cane prima del dovuto. Potevi segnare dopo sessanta-settanta minuti, poi resistere per venti. Scegliendo di segnare al primo minuto, dovrai resistere per ottantanove. E resistere per ottantanove minuti non è mai semplice. Dopotutto, non pretendo che questi miei pensieri siano condivisibili e nemmeno reputati logici. Ma è probabile che dopo gli abbracci, dopo l’emozione, dopo le urla, avessi più paura di prima. Ci segneranno, è solo questione di tempo, e segneranno ancora.

Dopo alcuni minuti di tranquillità arrivano i primi brividi: un cross di Gerrard dalla fascia destra e un colpo di testa di Hyypiä che finisce tra le braccia di Dida, centrale. Alcuni secondi prima il calcio d’angolo conquistato da Baros aveva fatto sentire in modo palese la disuguaglianza del tifo dello stadio Atatürk. Tre quarti del pubblico era inglese. Guardo il cronometro – oggi, nel 2015 – e anziché dieci, quindici minuti come pensavo, ne sono passati soltanto quattro.

Non ricordo esattamente quando arriveranno gli altri gol del Milan – mi rendo conto di aver cancellato dalla memoria quasi tutto di questa partita. Quello che rilevo, guardando il primo tempo, è una sfida impari. Il Liverpool non è in grado di tenere testa agli attacchi di Crespo, Shevchenko e Kaká, né Kewell e Baros sanno creare problemi a Cafu, Nesta, Stam, Maldini. Sembra un’amichevole tra una squadra di Serie A e una squadra di Serie C. Al minuto 14 c’è un calcio d’angolo per il Milan, lo batte Seedorf verso il primo palo, Crespo ci va di testa, Dudek è battuto ma la salva Luís Garcia appena sotto l’incrocio. Tre minuti dopo, al 17’, Kaká se ne va a centrocampo con un tunnel, la gioca a Cafu sulla fascia destra, Cafu chiude il triangolo con Kaká che è entrato in area, la prende di testa, va fuori. È tutto facilissimo. Metto in pausa la partita per studiare meglio le formazioni. Innanzitutto questo Djimi Traoré, che dovrebbe contrastare Cafu, o Shevchenko, o Kaká, e fa quasi tenerezza per quanto è confuso e impotente.

Jerzy Dudek è stato un discreto portiere che, dopo la finale contro il Milan, è stato rimpiazzato per due stagioni consecutive da Pepe Reina, prima di andare al Real Madrid a fare il secondo. Traoré, maliano (6 presenze in Nazionale), ha fatto sei anni su sette da riserva al Liverpool. Dopo il 2005 ha fatto la riserva al Charlton, la riserva al Portsmouth, la riserva al Rennes e al Birmingham. Milan Baros, nella stagione 2004/05, ha segnato 9 reti in 26 partite di Premier. In quella precedente erano stati 2 in 18 presenze. In panchina, se il Milan aveva Kaladze, Costacurta, Rui Costa, Serginho, il Liverpool aveva Josemi (mai convocato in Nazionale spagnola), Nuñez (mai convocato in Nazionale spagnola, 18 presenze con il Liverpool, poi Celta, Murcia, Limassol, Huesca, Depor, Huelva), Bišćan (solo 72 partite in cinque stagioni). Il cannoniere del Liverpool, Baros, segnò 13 gol in tutta la stagione. Quello del Milan, Shevchenko, 26: il doppio.

Fino al minuto 33 la partita è a senso unico ma non divertente: c’è una sola squadra in campo, il Milan, che gioca in perfetto stile ancelottiano dell’epoca: gira molto la palla al limite dell’area, i giocatori sono vicini ma fanno molto possesso singolo, cerca una verticalizzazione con pazienza ma non si tira indietro quando c’è da saltare l’uomo. Quando la verticalizzazione non arriva il meccanismo si inceppa. Il 25 maggio 2005 non si inceppa quasi mai. Il Milan è il miglior Milan di Ancelotti: Shevchenko è al top della forma, Kaká anche, Hernan Crespo, Maldini, Nesta, Stam, Pirlo, Seedorf, Cafu. Il meglio del calcio mondiale disposto in campo con uno schema 4-3-1-2.

Il terzo gol, di Crespo, e il passaggio pazzesco di Kaká

Il 2-0 arriva al minuto 38, è un contropiede gestito da Kaká e Shevchenko, c’è Crespo che fa un contro movimento sul taglio verso la porta, si ferma prima dell’area piccola con il corpo indietro, il difensore non lo segue, la palla arriva, Crespo con una bella torsione appoggia il pallone in porta. Il commentatore dice «the difference between the two teams is massive». Cinque minuti dopo è 3-0. I tifosi del Milan, nonostante occupino soltanto un quarto dello stadio, cantano un coro che dice «tutti a casa». L’arbitro fischia la fine del primo tempo, le telecamere inquadrano i giocatori che escono dal campo. I milanisti hanno la faccia concentrata, mi chiedo se può essere vero. Ci sono voci, attribuite a Traoré, che dicono che i giocatori del Milan stessero già festeggiando dopo quarantacinque minuti, nel tunnel degli spogliatoi.

Il secondo tempo di Liverpool-Milan del 25 maggio 2005 è passato alla storia come «i sei minuti di follia» o altre espressioni simili. È vero: oltre ai sei minuti in cui il Liverpool ha segnato tre gol, è successo poco o niente, o comunque nulla di diverso dal primo tempo. Ovvero: il Milan che gioca, il Liverpool che non gioca. Il primo gol è al minuto 9, la colpa è principalmente di Stam che è a centro area a guardare il cross senza marcare nessuno, mentre poco lontano da lui c’è Steven Gerrard che indisturbato, di testa, segna l’1-3. Un minuto dopo è il turno di Smicer, un modesto tiro da fuori che Dida non trattiene, e al 15’ Xabi Alonso su rigore. Andrea Pirlo, intervistato da Malcom Pagani sul numero 4 di Undici, ha detto: «Per qualche giorno credetti che fosse finita. Non avevo forze. Non mi davo pace né spiegazioni». Non so se Pirlo abbia rivisto la partita, ma credo di sì. La spiegazione in realtà è semplice, e mi sembra che coinvolga molto poco un crollo psicologico del Milan. Quello, piuttosto, è arrivato ai calci di rigore. Durante i sei minuti «di follia» sono successe tre cose molto rare ma molto semplici: tre errori consecutivi della difesa. Tre errori che di solito si fanno in novanta minuti (quello di Dida su Smicer, forse, si fa ogni 900 minuti) concentrati in sei. Tre azioni che non sempre si sarebbero concluse con il gol si sono concluse con il gol.

La spiegazione che mi do è questa: quante volte capita di avere quattro assi in mano in una partita di poker? Pochissime, ma a volte accade. È quello che è successo al Liverpool. Un’altra spiegazione, più metafisica, mi ricorda la psicostoriografia di Asimov: non poteva che andare così, c’era qualcosa che spingeva quella partita in quella direzione, come una forza sovrannaturale, come una serie di eventi già allineati perché tutto seguisse quella direzione. Ma no, è una spiegazione che vorrebbe dipingere i calciatori come eroi e le partite come imprese epiche, mentre mi rendo benissimo conto, al netto delle emozioni, non sono altro che partite, concatenazioni di episodi. Uomini che corrono dietro a un pallone, come vogliono i detrattori. Le guardo perché mi divertono, non perché danno senso alla mia vita.

Il resto del secondo tempo passa, come dicevo, come il primo: il Liverpool si è sgonfiato, spento, passa più di mezz’ora senza un’idea di gioco. Il Milan attacca ma non come il primo tempo, e d’altronde anche qui, le probabilità: al Milan è andato tutto bene nel primo tempo, ha tirato in porta quattro volte, ha fatto tre gol. Difficile che la cosa si possa ripetere nel secondo tempo. Dopo pochi minuti i tifosi del Liverpool allo stadio Atatürk iniziano ad accompagnare i pochi passaggi azzeccati consecutivamente dalla loro squadra con degli «olé». Quelli del Milan non si sentono più.

Davanti allo schermo mi scopro annoiato. Ricordo che dieci anni fa avevo la netta sensazione che la partita si fosse incanalata in una direzione chiara, quella della necessaria sconfitta del Milan. C’è un’altra occasione netta per i rossoneri al minuto 42, un calcio d’angolo che tocca Stam e che finisce sulla fronte di Kaká, a pochi passi dalla linea di porta, con la palla che incredibilmente non entra. Inizio a pensare all’occasione di Shevchenko, quella del secondo tempo supplementare. Quella la ricordo bene.

Nell’extra time non cambia nulla. Sembra che il Liverpool sia in campo soltanto per attendere i rigori. È, in tutta onestà, una noia mortale. Il Liverpool mi fa quasi innervosire per quanto è impotente, scarso. L’occasione per Shevchenko, quella rimasta negli occhi di tutti, arriva a tre minuti dal fischio finale prima dei rigori. La vedo, vedo la prima parata sul colpo di testa, bella e istintiva, poi il tap in che di nuovo sbatte contro Jerzy Dudek, questa volta sì, è successo: ho avvertito qualcosa di sovrannaturale. Anche ora il pensiero che si forma nella mia testa è che non sia possibile che quel pallone non sia entrato.

Un momento storico, a suo modo

Penso: i giocatori del Liverpool avrebbero pianto se Shevchenko avesse segnato quel gol? Tutta la loro partita, dal gol del pareggio di Xabi Alonso in poi, mi fa pensare che no, non lo avrebbero fatto. È la loro ostentata e inevitabile indolenza durata sessanta minuti che mi fa pensare così. Sembra che pensino: il nostro dovere l’abbiamo fatto, abbiamo pareggiato. Più di così non possiamo fare: succeda quel che succeda.

Al fischio finale i tifosi del Milan si risvegliano, e si sente l’urlo «Milan! Milan!». Le telecamere inquadrano Gerrard che va da Shevchenko, che ha un’espressione confusa, lo abbraccia e sembra dirgli «oh, tutto ok?». I rigori vanno come tutti sanno. Shevchenko sbaglia quello decisivo. Quando Dudek corre a esultare tolgo le cuffie, fermo il video, chiudo la finestra del computer. Sono amareggiato. Per la sconfitta, a dieci anni di distanza, e per un altro sentimento confuso.

Questo sentimento confuso è una specie di nostalgia, ma non si esaurisce qui. Ho provato nostalgia riguardando Liverpool-Milan del 25 maggio 2005, la nostalgia per quando «eravamo là». Perdevamo, ma c’eravamo. Ultimamente mi sono allontanato molto dal tifo e dal concetto di tifo. Ci ho riflettuto a lungo: tifare (oggi) mi sembra un atto stupido, razionalmente ingiustificabile, uno spreco di energie e interessi e tempo. Soprattutto, uno spreco di obiettività. Continuo a preferire il Milan alle altre squadre italiane, è una questione di affetto e abitudine. Quello che ho capito riguardando quella che è stata (continuo a pensarlo: ingiustamente) definita una delle migliori partite di sempre è che mi manca perdere una finale di Champions League. Perché, come si dice all’amico al bar, per perderla bisogna arrivarci. Ed essere un po’ meno obiettivo, e fare parte di un rito collettivo un po’ poco intelligente come riversarsi in una piazza a guardare la tua squadra, e identificare il proprio io in una società per azioni fondata poco più di cento anni fa, e fare tutte queste cose oggettivamente un po’ cretine, beh, oggi mi piacerebbe riprovare tutto questo.