La scalata

Viaggio in dieci tappe nella stagione bianconera: dal frettoloso arrivo di Allegri alla superiorità in campionato e alle notti magiche di Champions.

Prologo – 15 luglio 2014

Tutto si consuma in pochi minuti: tre, più 44 secondi, per l’esattezza. Quando il faccione abbronzato di Antonio Conte appare in video, i conti non tornano. Perché non è sul campo con i suoi giocatori a dirigere l’allenamento? Un’espressione seriosa inquadra il tecnico juventino, la fissità del suo sguardo la rende quasi inquietante. È un’intervista, anzi un chiarimento, deciso di comune accordo con l’ufficio stampa della Juventus per comunicare la rescissione del contratto che sarebbe durato ancora una stagione. Pur essendo un dialogo concordato, Antonio Conte sembra essere a disagio: prima di rispondere, prende fiato profondamente e guarda altrove, in basso perlopiù. Dal modo in cui accosta le parole si nota una certa indecisione, una fatica sovrumana nel dosare le parole. La perplessità che trasmette Conte è la perplessità di un’intera tifoseria: abbandonata dal suo angelo custode, senza capire il perché. Il tecnico salentino farfuglia che c’è stato un percorso dietro la sua decisione di dire addio alla Juve. Ci sono due passi delle parole di Conte che meritano attenzione: «Vincere comporta tanta fatica, è molto difficile», e poi «Ci deve inorgoglire quello che abbiamo fatto in questi anni, qualcosa di storico: tre scudetti, due Supercoppe e record di punti. Nessuno potrà toglierci tutto questo». Sembra che Conte stia officiando il funerale della sua Juve, come se quella squadra, dopo aver dato tutto, sia arrivata al capolinea. Ed è una sensazione di amarezza, per qualsiasi tifoso bianconero, mentre osserva Conte fuggire in un pomeriggio di luglio, con ancora la tuta della Juve addosso.

25 luglio 2014, Juventus-Lucento 2-3

Basta un giorno alla Juventus per trovare il sostituto di Antonio Conte: è Massimiliano Allegri, fermo da gennaio dopo l’esonero dal Milan a seguito della sconfitta sul campo del Sassuolo. La reazione dei tifosi bianconeri, già sconvolti dall’addio di Conte, è violenta: no ad Allegri perché proviene dai rivali rossoneri ma soprattutto perché è percepito come un “perdente di successo”, a maggior ragione dopo l’ultima brutta stagione a Milanello. Un sondaggio di Tuttosport, che chiede ai tifosi se Allegri è l’allenatore giusto per la Juventus, non lascia dubbi: l’87,7 per cento risponde di no. Allegri è il male, l’incarnazione del fallimento, l’inaffidabile, quando viene tirato in ballo l’episodio di quando, a un giorno dal matrimonio, decide di annullare la cerimonia. Subito dopo l’annuncio, gli ultrà bianconeri si ritrovano a Vinovo per contestare la dirigenza e il nuovo arrivato. E alla prima uscita, una banale amichevole con i dilettanti del Lucento, la disapprovazione si trasforma in sconcerto: la Juve perde 3-2, non vuol dire nulla ma in quel momento vuol dire tutto. Che la Juve che vince non c’è più.

5 ottobre 2014, Juventus-Roma 3-2

Servono cinque vittorie di fila, più il successo in Champions contro il Malmö, a spegnere temporaneamente i malumori. La Juve è ripartita dal 3-5-2 di Conte, anche se rivisitato in chiave allegriana: è una squadra meno furiosa, più palleggiatrice, più paziente. E forse la pazienza è la virtù migliore di Allegri, uno che ad ogni bordata ricevuta non ha mai risposto con cattiveria o presunzione: non è l’uomo che attende sulla riva del fiume il cadavere del suo nemico, è l’uomo che si siede in panchina, studia, osserva, cerca di migliorarsi. Nelle prime sei partite ufficiali la Juve non subisce nemmeno un gol, a rimarcare come quella solidità di squadra non si sia dissolta con un semplice cambio di guida tecnica. Ma il 5 ottobre a Torino arriva la Roma, che è a punteggio pieno come i bianconeri e per la maggior parte degli addetti ai lavori, dopo l’addio di Conte, è la maggiore accreditata al successo in campionato. La gara termina 3-2 per la Juve, con i bianconeri bravi a ribaltare il risultato dopo il momentaneo 1-2 di Iturbe. Eppure mai, come in questa occasione, i punti guadagnati sembrano un orpello: il significato di quella vittoria – e il conseguente primato – viene fagocitato dalle polemiche per la direzione arbitrale di Rocchi, la Roma si sente defraudata per i due rigori fischiati contro e per il presunto offside di Vidal sulla rete decisiva di Bonucci. Il Corriere dello Sport il giorno dopo titola “Campionato falsato”, eppure la sconfitta – e in una certa misura l’antijuventinità – sembra aver compattato e fortificato ancora di più il gruppo di Rudi Garcia, che qualche tempo dopo dice ai microfoni: «La partita di Torino è stata tutta il contrario di una sconfitta. Anzi, mi ha fatto capire che vinceremo lo scudetto».

4 novembre 2014, Juventus-Olympiacos 3-2

Il motivo principale che ha spinto Antonio Conte ha lasciare la Juventus è la constatazione dell’impossibilità di competere con le big in Champions. È merito anche suo se oggi la Juve è riuscita ad arrivare in finale (basta sentire Allegri), ma un anno fa l’attuale ct azzurro preconizzava un’epoca di stenti in Europa: «Sarà molto dura per un’italiana arrivare in finale di Champions negli anni a venire», subito dopo la brutta eliminazione alla fase a gironi, fino alla famosa battuta «Non puoi pensare di mangiare in un ristorante di 100 euro con 10 euro in tasca». Ma l’ossessione di Conte era quella di tutta la Juventus: la Champions tradiva i nervi scoperti dei bianconeri, dominatori in Italia eppure mai all’altezza oltre i confini nazionali. La storia sembra ripetersi anche con Allegri: dopo la vittoria sul Malmö, le sconfitte contro Atlético Madrid e Olympiacos catapultano i bianconeri in una posizione assai scomoda. Al giro di boa, con tre punti di ritardo da spagnoli e greci, l’incrocio casalingo con l’Olympiacos assume un’importanza da dentro o fuori. In quella partita c’è di tutto: la classe (la punizione di Pirlo), la grande paura (il gol di N’Dinga che porta in vantaggio i biancorossi e elimina virtualmente la Juve), il colpo di fortuna (il casuale colpo di testa di Llorente che carambola sul palo e poi sul portiere dei greci), il campione che presiede al Fato (Pogba e il gol che decide la gara).

30 novembre 2014, Juventus-Torino 2-1

Con la qualificazione agli ottavi di Champions a un passo dopo le due vittorie contro Olympiacos e Malmö in Svezia, la Juve in campionato è protagonista di un testa a testa con la Roma, dietro di tre punti. I bianconeri nel frattempo hanno varato la difesa a quattro e il processo di “allegrizzazione” sta prendendo forma, anche nello schema tattico. I tifosi si stanno convincendo che quella di Allegri è una Juve non inferiore a quella gestita da Conte. Il primo derby del campionato, però, mette in luce una squadra poco lucida, stanca per i troppi impegni ravvicinati. Al vantaggio di Vidal su rigore segue il gran gol di Bruno Peres per i granata. Con l’espulsione di Lichtsteiner, a dodici minuti dal termine, la Juventus sembra spalle al muro e rischia di vedere interrotta la propria striscia di vittorie consecutive allo Stadium, che era arrivata a 24 (un record nella storia della Serie A). Così, mentre il tempo fa il suo corso e scivola verso un novantesimo che non prevede altro esito se non l’1-1, arriva l’intervento di uno che è fuori dal tempo, e quindi non soggetto a certe convenzioni cronologiche. Quando Pirlo scocca quella conclusione dai 25 metri, sembra un cestista che sulla sirena prova il tiro da tre punti, quello della disperazione. Eppure non c’è nulla di disperato in Pirlo quando calcia: perché è una condizione che non gli appartiene. Così, quando gli arriva quel pallone, poco importa che sia il 95′: colpisce la sfera con estrema naturalezza, in un impatto che è assolutamente unico, carezzevole ed energico allo stesso tempo. Superfluo aggiungere dove vada a interrompere la sua corsa quel pallone.

11 gennaio 2015, Napoli-Juventus 1-3

Dicembre è il periodo di maggior flessione, quando i bianconeri raccolgono tre pareggi di fila e perdono la Supercoppa Italiana contro il Napoli, a fronte dell’unica vittoria contro il Cagliari. Il 2015 non comincia nel migliore dei modi, con il pareggio casalingo contro l’Inter, e alla vigilia della penultima giornata di andata la Roma è distante appena un punto: 40-39 per la Juve. Si comincia a parlare di crisi, sebbene tutto il gruppo bianconero neghi con convinzione. Però la classifica non è rassicurante quanto dodici mesi prima, quando la Juve, alla fine del girone di andata, aveva accumulato un vantaggio di otto punti sulla Roma. Così, quando si va a Napoli contro una squadra che poche settimane prima l’aveva battuta in Supercoppa ai calci di rigore, l’ottimismo non è esattamente il sentimento più comune tra i tifosi bianconeri. Poi ti ricordi di avere in squadra uno come Paul Pogba, e non ti accorgi nemmeno che stai parlando di un ragazzone di 22 anni. Quello che potrebbe diventare il prossimo mister 100 milioni, lo ritrovi di sera mentre chiama la mamma: gli basta una telefonata, ascoltare la sua voce per sentirsi forte. Proprio come quando aveva 14 anni, aveva da poco lasciato casa per andare a giocare a Le Havre e si sentiva terribilmente solo: quella telefonata gli dava la forza sufficiente per continuare a sognare di diventare un grande calciatore. E segnare gol come questo: il pallone si impenna, quanto più va in alto più è difficile da addomesticare. Eppure, quando la sfera è ancora in volo, Pogba sa già dove la manderà: è stupendo l’attimo in cui si prepara a calciare, sembra un discobolo che sta per proiettare il disco nell’infinito e oltre. Poi il movimento della gamba destra, immediato, spontaneo. Uno squarcio accecante.

14 marzo 2015, Palermo-Juventus 0-1

La trasferta in Sicilia è lo strappo decisivo per lo scudetto. Da gennaio in poi, il vantaggio sulla Roma ha continuato a incrementarsi a vista d’occhio, anche per via dell’acuta crisi di risultati dei giallorossi. Dopo la vittoria sul Palermo e la sconfitta casalinga della Roma con la Sampdoria, il distacco è salito a 14 punti: un’enormità, la parola fine al campionato. Così Max Allegri raggiunge il suo primo obiettivo: continuare la striscia vincente di scudetti, ereditare una mentalità e rinnovarla. Lo ha fatto senza scossoni, senza prendersi meriti inutili, senza inutili proclami. Roma e Napoli, i competitor più temibili, si sono autoescluse anche per un nervosismo palpabile. Allegri ha mantenuto la squadra al riparo da accuse e polemiche, cementando nell’ambiente una serenità ovattata. E Palermo rappresenta un’altra vittoria personale: la consacrazione di Álvaro Morata. I bianconeri lo hanno acquistato per venti milioni dal Real Madrid, attirando qualche critica per aver preferito un giovane attaccante spagnolo a un giovane attaccante italiano (Immobile, per metà della Juve e ceduto al Borussia Dortmund). La stagione ha poi confermato la bontà dell’operazione condotta dalla Juve, ma c’era un unico limite che Morata avanzava rispetto a Immobile: la scarsa conoscenza del calcio italiano. Perciò la gestione che ne ha fatto Allegri è stata encomiabile: nel girone di andata ha disputato appena tre partite da titolare, pur disseminando quattro reti. Il tecnico livornese fa assaggiare il campo allo spagnolo con regolarità, con il minutaggio che aumenta di volta in volta, lanciandolo titolare a partire dal girone di ritorno (non è un caso invece che Morata trovasse più spazio in Champions). E l’ex Real esplode: il gol di Palermo ne è la prova, sia per il significato, sia per la bellezza del gesto tecnico. «Quando ci sono queste giocate c’è poco da fare…», sospira Iachini a fine partita.

18 marzo 2015, Borussia Dortmund-Juventus 0-3

È questo il momento in cui la Juve prende consapevolezza della sua forza. La Champions aveva sottolineato una squadra a disagio in trasferta: due sconfitte su tre, l’impressione di patire troppo la pressione avversaria. Quando i bianconeri volano a Dortmund, con in tasca la vittoria per 2-1 dell’andata, tutto è ancora da scrivere. Anzi, a circondare la squadra c’è molto timore: il Borussia sta vivendo una stagione travagliata, ma il Westfalenstadion e annesso “Muro giallo” fanno paura. Dovrebbero essere 90 minuti di sofferenza, invece è l’esaltazione di una squadra: la Juve. Compatta, aggressiva, spietata: cresciuta nel giro di qualche mese, diventata grande e famelica. Quando Tévez, dopo tre minuti, scaraventa il pallone nella porta dei tedeschi, l’impressione è che la partita sia finita. Con 87 minuti da giocare e la possibilità di arrivare ai supplementari con due gol del Borussia? Sì, perché quello è il colpo che precede il ko, è il colpo del pugile che, appena salito sul ring, ha più fame, concentrazione e cattiveria dell’avversario. E qualità: la serata di Dortmund sarà soprattutto la serata di Tévez, il calciatore prima snobbato (la Juve lo aveva pagato 9 milioni più bonus per acquistarlo dal Manchester City) e dimenticato dalla sua Nazionale, poi celebrato e osannato anche dai non juventini. Sarà ancora l’Apache a lasciare il segno sul 3-o finale, prima con l’assist per Morata e poi con la terza rete dell’incontro.

7 aprile 2015, Fiorentina-Juventus 0-3

Mentre la Juve continua la sua marcia trionfale in campionato e nei quarti di Champions si sbarazza del Monaco pur con qualche sofferenza in più rispetto alla doppia sfida con il Borussia, è ancora viva sul fronte della Coppa Italia. Anche se, a dirla tutta, sembrerebbe di no quando si presenta a Firenze a inizio aprile per il ritorno della semifinale: a Torino era finita 2-1 per i viola, troppe disattenzioni e la grande prova di Salah avevano regalato alla squadra di Montella un successo prestigioso e quasi decisivo per la qualificazione. Allegri schiera una Juve sperimentale: se la difesa è quella titolare, dal centrocampo in su trovano spazio giocatori solitamente poco utilizzati. A cominciare da Matri, che fino ad allora aveva disputato appena 18 minuti con la maglia bianconera (la prima parte di stagione l’aveva giocata col Genoa). Però è proprio lui a sbloccare la partita e a dare il via alla straordinaria rimonta che si completa con le reti di Pereyra e Bonucci. La vittoria del Franchi in Coppa Italia descrive alla perfezione la Juventus 2014/2015: un gruppo coeso, dove anche chi ha un ruolo da comprimario si sente parte integrante del progetto, evitando così di creare lagne o malcontento; una voglia di vincere terribile, sempre e comunque, anche se la Coppa Italia non è il traguardo più ambito dalla squadra; la capacità di lottare fino in fondo, riuscendo a ribaltare la doppia sfida e annichilire una squadra che aveva più di un piede in finale.

13 maggio 2015, Real Madrid-Juventus 1-1

Il gol di Morata al Bernabéu è, in attesa della finalissima contro il Barcellona, il culmine della stagione bianconera. In quell’attimo si consuma la rivincita dell’attaccante bianconero contro la sua ex squadra (non esulta, ma quando lascia il campo il pubblico lo fischia senza pietà), ma soprattutto si concreta la superiorità della Juventus nei 180 minuti. Ed è il concetto vero che marca la differenza: se oggi tutti parlano di impresa, domani non dovremmo farlo più. Perché evidentemente la Juve ha dissipato qualsiasi complesso di inferiorità, dimostrando di essere in grado di giocarsela alla pari con tutte. Non vuol dire essere i migliori d’Europa, vuol dire stare al loro passo: magari confondersi con loro, non passare per una semplice imbucata a una festa iperesclusiva. Ci sono ancora due finali da giocare, ma questo ne racconta il senso.