Giganti a confronto

Stanotte iniziano le finali NBA tra Golden State Warriors e Cleveland Cavs. È la sfida tra LeBron James e Steph Curry. Ma non solo.

«I can do all things…», è la citazione biblica che Steph Curry, il miglior giocatore NBA 2015, scrive a pennarello sulle proprie scarpe prima di scendere in campo. È un versetto del Nuovo Testamento (Filippesi 4:13) e l’onnipotenza del messaggio — a voler essere solo un po’ blasfemi facilmente trasferibile alle imprese del campione dei Golden State Warriors sui parquet NBA — è possibile solo «in Cristo che mi fortifica».

«With God all things are possible» è invece il motto statale dell’Ohio, patria dei Cavaliers e luogo che LeBron James — l’altro grande protagonista delle finali NBA che vanno a iniziare stanotte, già votato quattro volte in passato come n°1 della lega (2009, 2010, 2012 e 2013) — chiama casa, tanto da volerci fortemente tornare per regalare alla sua gente il primo titolo sportivo da oltre mezzo secolo a questa parte.

LeBron James. Via Getty Images
LeBron James. Via Getty Images

Questa curiosa convergenza nelle citazioni non è l’unica strana coincidenza a unire Curry e James. I due infatti condividono anche le stesse cinque lettere — Akron — dopo la parola “birthplace” sulle rispettive carte d’identità. Lo fanno, però, unicamente per uno strano inciampo del destino. Se LeBron James infatti è al cento per cento uomo di Akron (al punto da farsi tatuare sull’avambraccio l’area code locale, 330), Steph Curry risulta esserlo unicamente per la singola stagione 1987-88 disputata da papà Dell — anche lui al tempo giocatore NBA — in maglia Cleveland Cavs, prima di trascorrere il decennio successivo con gli Hornets a Charlotte, nel North Carolina, dove è poi cresciuto l’attuale leader dei Warriors.

C’è di più. I due — si scopre ora, mentre monta l’attesa per il loro showdown sportivo — sono perfino nati nello stesso ospedale. A 38 mesi e mezzo di distanza — il 30 dicembre 1984 LeBron Raymone James, il 14 marzo 1988 Wardell Stephen Curry II — hanno entrambi visto la luce all’Akron City Hospital (e non all’Akron General, hanno sottolineato i primi, che un po’ di pubblicità gratuita non guasta mai), mettendo sulla mappa una cittadina di provincia altrimenti nota unicamente per ospitare la sede di quelle grandi aziende di pneumatici — da B.F. Goodrich a Firestone, fino a Goodyear — a cui si deve il soprannome di “Rubber City”, città della gomma.

Anche qui, però, c’è lo zampino del caso. La nascita di Steph Curry, infatti, avviene una decina di giorni in anticipo sulla data prevista per il parto, per cui — con papà Dell in trasferta coi suoi Cavs — ad accompagnare in ospedale mamma Sonia ci deve pensare un’amica. La quale, nel trambusto del momento, si mette al volante ma sbaglia strada, recapitando la futura mamma nelle mani di medici ignari, in una struttura diversa da quella prevista. All’Akron City Hospital ci arrivano di gran corsa solo in un secondo momento, scortate dalle sirene della polizia, un battito di ciglia prima che abbia inizio il travaglio.

Semplicemente LeBron

Con queste premesse le finali NBA 2015 hanno tutto per essere uno strano ma intrigante spettacolo, e non solo per i loro nomi da copertina (che pur dall’inizio della stagione si sono meritati quasi 29 milioni di citazioni su Twitter — 16.2 per LeBron “King” James, 12.6 per Stephen Curry). Il fatto che oggi — stando alle quote dei bookmaker di Las Vegas — gli Warriors ci arrivino da favoriti (sono dati 5-12 contro il 2-1 dei Cavs) è già una sorpresa, se si considera che a inizio campionato per ogni dollaro puntato sulla vittoria finale di Golden State se ne potevano incassare 25, contro i 2.5 della quota associata a Cleveland dal momento dell’ufficialità del ritorno in città di James (prima, invece, i Cavs venivano dati 60-1).

Il ritorno, appunto. Impossibile non parlarne. Annunciato con una lettera aperta pubblicata su Sports Illustrated l’11 luglio scorso («I’m Coming Home»), la seconda incarnazione del figliol prodigo LeBron James in maglia Cavaliers è il tema che ha condizionato e contraddistinto la loro intera stagione. «Non sto promettendo il titolo. So quant’è difficile farcela. Oggi non siamo pronti, assolutamente no. Certo che vorrei vincere già l’anno prossimo — scriveva James — ma sono realista. Sarà un processo lungo, la mia pazienza verrà messa a dura prova». Invece eccoli qui, undici mesi dopo, lui e i suoi Cavs a un passo dall’obiettivo, quello di vincere quel titolo NBA che lo stato dell’Ohio insegue da sempre. Gli altri, in California, ci sono riusciti una volta sola, esattamente 40 anni fa (i precedenti due titoli degli Warriors sono arrivati quando la squadra era ancora a Philadelphia), ma da allora neppure più una singola apparizione in finale, l’assenza più lunga di sempre tra tutte le squadre della lega.

Steph Curry. Via Getty Images
Steph Curry. Via Getty Images

Come sono tornati Cavs e Warriors all’atto finale del campionato, pronti a giocarsi l’anello NBA? Risposta facile, verrebbe da dire, nel caso di Cleveland: si sono ripresi quel LeBron James che si erano fatti soffiare dai Miami Heat nell’estate 2010 — scippo che in Florida ha portato in dote quattro apparizioni consecutive in finale NBA e due titoli. Spiegazione semplicistica, forse, ma sarebbe da folli negare che tutto inizia e finisce con l’ex n°6 degli Heat, tornato al suo vecchio n°23 in maglia Cavs. Più complicato — e più lungo — il percorso per tornare in vetta di Golden State. Da quegli Warriors capitanati da Rick Barry capaci di laurearsi campioni nel 1975 sono trascorse 40 stagioni NBA di cui 26 perdenti, nel corso delle quali la franchigia è stata affidata a 18 allenatori diversi. Non sono mancati momenti di eccitazione collettiva: il biennio targato “Run TMC” a cavallo tra gli anni ’80 e i ‘90 — richiamo al famoso terzetto hip-hop newyorchese dei Run DMC, adattato però alle iniziali delle tre superstar di squadra, Tim (Hardaway), Mitch (Richmond) e Chris (Mullin) — e gli incredibili playoff 2007, ricordati per le prestazioni di Baron Davis e per lo slogan “We Believe”, che davvero aveva portato tanti tifosi degli Warriors a credere che il loro momento fosse finalmente arrivato. Nulla di fatto, invece. Fino a oggi.

Un oggi targato “Splash Brothers”, perché a Steph Curry si unisce Klay Thompson, a formare la coppia di tiratori da fuori più micidiale mai vista nella storia della NBA. Sull’altro fronte, a Cleveland, doveva essere la squadra dei “Big Three”, con due All-Star come Kevin Love e Kyrie Irving a dar man forte a James, ma l’infortunio alla spalla che ha tolto di scena il primo all’inizio dei playoff e la tendinite al ginocchio sinistro che perseguita il secondo hanno finito per far ricadere tutto il peso della squadra sulle (possenti) spalle di LeBron. Un James che, di suo, centra la quinta apparizione consecutiva all’atto conclusivo della stagione e si presenta al via con un bagaglio di esperienza che conta 27 gare di finale NBA già disputate in carriera. Sono, per la precisione, 27 in più di quelle collezionate dall’intero roster dei Golden State Warriors, che affronta la sfida con una squadra interamente composta da debuttanti. L’ultima volta accadde nel 1997 (gli Utah Jazz sconfitti da Michael Jordan e dai Bulls), ma bisogna tornare addirittura al 1991 per trovare una squadra capace di vincere il titolo senza alcuna esperienza di finale in nessuno dei suoi uomini (ancora i Bulls, ancora Jordan).

Quaranta – dicasi quaranta – punti messi a segno da Stephen Curry nel match contro i Rockets

Ci riusciranno questi Warriors? Difficile dirlo, perché è complicato prevedere che finali saranno, e non certo perché tra le due squadre mancano precedenti storici a questo livello. È difficile perché Golden State nel corso dell’anno ha dimostrato di essere la squadra più forte (67 vittorie su 82 gare disputate, il miglior bilancio vinte/perse ma anche il miglior attacco e la miglior difesa della lega secondo dati statistici avanzati) ma nessuno è pronto a scommettere contro LeBron James, che sta giocando una pallacanestro superlativa e in questi playoff è stato capace di tramutare Cleveland nella squadra col miglior attacco (Golden State è seconda) e con la terza miglior difesa, a lungo invece il punto debole durante l’anno (gli Warriors sono quarti). Attorno a Curry (e Thompson) ci sono fino a nove giocatori degli Warriors capaci di avere un vero impatto sulla serie, mentre attorno a James (e Irving, se sta bene fisicamente) il numero degli scudieri capaci di incidere a livello di finale — complici anche gli infortuni — non va probabilmente oltre i sei. Ancora: quando Golden State è in ritmo, il basket espresso dalla squadra allenata da Steve Kerr è più bello da vedere, più vario e bilanciato, di quello comunque funzionale ma certamente meno divertente disegnato dal suo collega David Blatt, che rimane sempre e pesantemente influenzato dal rendimento di LeBron James.

Perché forse, in fondo, anche l’estetica gioca una sua parte in queste finali NBA. Intanto perché una squadra — quella che oggi è di casa a Oakland, attraversato il Bay Bridge, ma che per il 2017 ha già in programma lo spostamento a San Francisco — è espressione di una città appoggiata come un gioiello su una delle baie più belle del mondo occidentale, mentre l’altra fa ancora fatica a liberarsi dal nomignolo a lungo affibbiato alla propria città — “Cleveland, the mistake on the lake”, l’errore sul lago (Erie). Approfittando della vicinanza geografica a Cupertino — sono 45 minuti di auto da San Francisco — viene quasi da dire che Steph Curry assomiglia all’ultima affascinante creazione uscita dai laboratori di Apple, progettato con le stesse caratteristiche di appeal e di irresistibile attrazione tipiche di un iPhone o di un MacBook Air, mentre LeBron James incarna il potente processore di un pc magari meno seducente ma sicuramente performante, solido, affidabile perché già più volte testato. Del primo si ammirano leggerezza e velocità (Curry infatti misura 190 cm. per 85 kg.), del secondo si resta impressionati dalla potenza schiacciante delle prestazioni (i 203 cm. per 115 kg. di James). Dell’ascesa del primo verso il primato di settore si fa un gran parlare, con l’entusiasmo di chi cavalca la seducente novità del momento, ma fino a prova contraria è il secondo che ha da anni in mano lo scettro del potere senza essere minimamente intenzionato a cederlo. Con in mente la celebre campagna “Get a Mac” di quasi un decennio fa, ecco allora che l’ultimo break pubblicitario prima della palla a due di giovedì notte — in collegamento 215 Paesi da tutto il mondo — potrebbe tranquillamente vedere come protagonisti proprio Steph e LeBron: «Hello, I’m a Warrior», reciterebbe il primo; «And I’m a Cav», la replica del secondo. La sfida è lanciata. Vinca il migliore.

 

Nell’immagine in evidenza, Andre Iguodala (Golden State Warriors) e LeBron James (Cleveland Cavaliers). Jason Miller/Getty Images