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Undici cose da sapere sul Venezuela, l'unica nazionale del Conmebol a non essere mai andata al Mondiale. Un'outsider della Copa América.

La Selección venezuelana è l’unica rappresentante della Conmbebol che non è mai riuscita a qualificarsi per una fase finale del Mondiale. In questa edizione della Copa América, inserita nel girone di Brasile e Colombia, sembra avere il destino segnato. Undici istantanee da mandare a loop, come fossero vines, per provare a raccontare i suoi interpreti principali.

Mordere le caviglie

Tomás Rincón è uno dei tre venezolani della Serie A, mediano di sostanza un po’ come pure l’empolese Signorelli (che non è però ancora entrato nel giro della Nazionale): gioca nel Genoa, e quest’anno Gasperini lo ha lanciato spesso da titolare, per apportare muscolarità al suo centrocampo. Nel 2013 – poco prima di una sfida assai sentita contro l’Argentina – ha rilasciato una dichiarazione al Meridiano, il più celebre quotidiano sportivo di Caracas, che suonava discretamente minacciosa. Ha detto «Messi? Gli morderò le caviglie». La foto che campeggia in quella prima pagina lo immortala in una posa sprezzante. «Il contrasto è un gesto fondamentale del calcio. E il tackle scivolato, che è stato proibito, è un’azione bellissima», ha confessato in un’intervista. Dato che dello scaricatore di porto ha il cipiglio e la fisicità, lo chiamano el camallo. È il capitano della Vinotinto, un nomignolo che viene dalle maglie Borgogna della Nazionale: secondo alcuni è il colore che si ottiene mescolando il rosso, il giallo e il blu che campeggiano nella bandiera del Venezuela. Secondo altri è anche la sfumatura che assume la pelle prima che si formi un livido, dopo una brutta botta o un tackle scivolato sulle caviglie.

Un po’ di affetto di Rincón a Messi

La fama è un mozzico (proverbio romano)

Se dovessi scegliere dieci secondi esemplificativi della carriera di Juan Arango, o dovrei meglio dire didascalici, farei un mash-up tra due azioni di una partita recente tra gli Xolos di Tijuana, la sua squadra attuale, e il Monterrey, il club messicano in cui giocava quindici anni fa, ovvero l’anno del suo esordio in Nazionale, della quale è il recordman di presenze in carica. I primi sette secondi sarebbero tutti dedicati alla parabola di una punizione perfetta, non dissimile (ma neppure più spettacolare) rispetto a molte altre segnate in carriera: el zurda de oro, il mancino d’oro, ha una serie di compile su YouTube dedicate ai suoi proiettili dalla balistica inattaccabile, colpi da cecchino sparati vestendo le divise di Mallorca, Borussia Mönchengladbach, oppure della Vinotinto, tutte festeggiate con un’espressione di soddisfazione tronfia dipinta sul volto. Gli ultimi tre secondi, invece, immortalerebbero il morso sulla spalla di Jesús Zavala, una rapida sequenza di immagini che ha trasformato Juan in qualcosa di relativamente famoso, anche se non nella maniera auspicabile, o più onesta, o capace di rendere onore a un uomo che dopotutto per 121 volte ha vestito la maglia di una squadra che non avrebbe mai raggiunto un obiettivo. Quant’è stato ingiusto il Calcio con Arango, ridotto a video da boxino di colonna destra di un quotidiano online piuttosto sciatto?

9 minuti di punizioni di Arango? Eccoli

Tradire la patria

Quando a marzo di quest’anno Jeffrén Suárez è tornato a visitare il Venezuela dopo più di vent’anni d’assenza, i tifosi della Vinotinto hanno accolto la notizia con un sopracciglio alzato, senza tradire alcun particolare entusiasmo. L’ex Next Big Thing de La Masia d’un decennio fa, dopo una carriera discioltasi in rivoli sempre più inariditi, ha ormai perso la speranza di essere convocato con la Roja e ha quindi optato, con un occhio a questa Copa América ma anche e soprattutto alla Copa Centenario che si terrà l’anno prossimo negli States, per le tinte scure del paese d’origine: difficile non beccarsi cori che lo additano come “vendepatria”. Jeffrén si giustifica: dice «ero un ragazzino e niente di più», «giocavo con il Barcellona» si bulla, e chissà, forse sarebbe bello ma anche un po’ demoralizzante vederlo affondare sulla fascia sinistra, imbolsito, immaginandolo con la maglia triste del Valladolid piegata in borsa, un presente che poteva essere e non è stato.

Jeffrén segna il gol del 5-0 in un Clásico del 2010, quando le cose andavano bene

Non tradire la patria

Chi invece ha preferito il Piccolo Mondo Antico alla Grande Madre Patria è stato Fernando Amorebieta. Nel 2008 il centrale del Middlesbrough è stato convocato da Del Bosque, e lui ha rifiutato. Non era ancora del tutto convinto: quale maglia della Nazionale vestire? Quella Euskera? In mezzo ai dubbi, poi, come un difensore centrale che esce palla al piede, testa alta, si è fatta largo una certezza: di certo, non quella della Spagna. Piuttosto il Venezuela.

Il debutto di Amorebieta con la Vinotinto

Il venezuelano più celebre di tutta la thailandia

Cinquemiladuecentotrentatré thailandesi che indossano una maschera protettiva per il volto di un colore a metà strada tra le tinte metallizzate di una bestia marina del Mekong e le squame di un pitone devono produrre un effetto straniante, specie in Andrés Túñez, che osserva i tifosi vestire il suo simbolo distintivo sulle gradinate del Castello dei Tuoni (che è il soprannome del New I-Mobile Stadium di Buriram). Lui quella maschera è costretto a indossarla per via di un colpo che gli ha rotto il naso nella prima partita disputata in Thailandia. Andrés è nato in Venezuela, a sei anni si è trasferito in Galizia, è cresciuto nel Celta Vigo e se n’è andato pochi mesi prima che sulla panchina de Os Celestes arrivasse Luis Enrique. Ha deciso di imprimere alla sua carriera una svolta esotica: prima ha trascorso metà stagione nelle file del Beitar Gerusalemme, poi ha deciso di raggiungere il suo ex allenatore Paco Herrera e di vestire la maglia del glorioso e pluripremiato Buriram United (anche se Paco Herrera è stato licenziato una settimana prima che Túñez atterrasse a Bangkok). Il Buriram non sarà la squadra più forte d’Asia, e siamo d’accordo: ma vuoi mettere cinquemiladuecentotrentatré thailandesi che indossano la tua maschera produttiva per incoraggiarti?

Un video su Túñez che inizia con clip di un film di battaglie medievali, sul serio

Nelle ultime uscite com’è andato il Venezuela?

Dopo aver perso le ultime cinque gare del 2014, la Vinotinto ha sconfitto a cavallo tra marzo e aprile l’Honduras allenato dall’ex tecnico di Costa Rica Jorge Luis Pinto (due volte) e il Peru che si ritroverà di fronte in Cile. L’undici di Noel Sanvicente si direbbe in crescita, come dopotutto l’intero movimento calcistico venezuelano, già di per sé encomiabile non foss’altro che per la capacità che ha avuto di emergere in un contesto tradizionalmente oscurato da passioni assai più caraibiche, come ad esempio quella per il baseball.

Sì, ma come gioca?

Il Chita Sanvicente ha alternato molti giocatori nelle ultime uscite, ne ha provati alcuni e bocciati altri, ma la formazione che presumibilmente schiererà in Cile non soffrirà di sperimentalismi: tra i pali andrà Baroja, mentre in difesa Amorebieta e Vizcarrondo formeranno la coppia centrale con il malagueño Roberto Rosales e Cichero (o Túñez) sulle fasce. L’ex River Plate César Maestrico González e Tomás Rincón forgeranno a fiamma viva un centrocampo del quale farà parte anche Juan Arango (che ha più esperienza e fantasia di Alejandro Guerra). La giovane stella Rómulo Otero probabilmente dovrà saltare la competizione per infortunio, al suo posto dovrebbe esserci Seija, con Josef Martínez o Christian Santos alle spalle dell’unica punta, forse il calciatore più celebre del Venezuela: Salomón Rondón.

La vittoria per 3-2 contro l’Honduras

Un gran bel film

Combate y Victoria è il titolo del docufilm incentrato su Josef Martínez che è uscito a novembre scorso nelle sale cinematografiche venezolane, riscuotendo un successo tutt’altro che imprevedibile. Josef non è il primo attaccante Vinotinto ad essere arrivato a giocare in Italia: prima di lui c’erano stati Giovanni Savarese, che ho visto personalmente su un campo più volte di quanto non abbia fatto con Martínez (una volta all’Enrico Rocchi casa della Viterbese, dove era arrivato in prestito dal Perugia – anche la Viterbese era di Gaucci; l’altra sulla panchina dei NY Cosmos) e Massimo Margiotta, al cui “Nato a Maracaibo” dobbiamo l’80% dell’esotismo degli album Panini degli anni ‘90, e che però ha fatto il percorso inverso, e cioè dalle reti in provincia alla Nazionale. Tra le scene clou di Combate y Victoria ci sono delle riprese dall’alto delle slums di Valencia, a una manciata di chilometri da Caracas; il fasto artificiale dei campetti d’allenamento della scuola calcio che Josef segue a distanza da Torino; una soundtrack fatta apposta per foraggiare il drama epico. Ma senza finire per essere cursi, né posticcio.

Il trailer del doc

Onorare i padri

Suo Padre Uno, una carriera spesa in giro per formazioni venezuelane negli anni ‘80 a ricoprire il suo stesso ruolo portando il suo stesso nome, morì quando Rómulo Otero aveva tre anni. La madre lo spedì a vivere a El Tigre, a metà strada tra l’Orinoco e il mare, in casa di Horacio Cárdenas, argentino, calciatore, per anni compagno del padre Uno e da quel giorno ufficialmente Padre Due. Così Rómulo è cresciuto con il talento un po’ sfrenato del padre naturale in un piede, e con l’ordine costituito del padre adottivo nell’altro, oltre che con una particolare abilità nei calci di punizione. Quando César Farías lo ha convocato per la prima volta, Otero racconta di essersi commosso: le due squadre che la Vinotinto avrebbe affrontato in amichevole erano la Colombia, e l’Argentina. Quel che si dice onorare i padri. Un infortunio che lo terrà fuori fino a metà luglio ci priverà di uno dei calciatori più promettenti della storia venezuelana.

Una punizione di Otero per il Venezuela

Se non è destino che tu sia protagonista, lascia stare

Il NEC Nijmegen ha appena vinto la Eerste Divisie con ventuno lunghezze di distacco sulla seconda, sfondando la barriera dei cento punti (centouno, per la precisione). In tutto il campionato ha segnato cento reti; soltanto la metà portano la firma delle sue due punte, e ancora la metà (o quasi) quella di Christian Santos, ventisettenne venezuelano, che avrebbe tutto il diritto di ambire a un posto in Nazionale, se non fosse che davanti a sé ha Josef Martínez e i due Rondón, che non sono neppure fratelli. Tutto questo per dire che se non è scritto negli astri che tu debba essere protagonista, ecco, puoi pure sbatterti per terra.

Uno dei gol di Santos con il NEC

Cile razzista?

Emilio Rentería forse non verrà neppure convocato per questa Copa América. Però è l’unico venezuelano nel giro della Vinotinto che gioca in Cile, con il San Marcos de Arica. Nel novembre scorso, durante una partita contro il Deportes Iquique, è scoppiato in lacrime dopo aver segnato il gol del vantaggio, ma non per la gioia, bensì per essere stato oggetto di cori discriminatori, razzisti, d’una cattiveria inattesa.  L’ex presidente della Concacaf e direttore della Commissione Antidiscriminazione della FIFA Jeffrey Webb, che si trovava in Cile per i sorteggi della Copa América, è rimasto sorpreso: «Il Cile non è un paese conosciuto per problemi di questo tipo». Il giornalista Juan Ignacio Gardella de El Gráfico, un giornale sportivo venezuelano, ha una sua opinione inconfutabile, però: «Se in Cile non ci sono stati troppi episodi di discriminazione razziale è solo perché ci sono troppi pochi giocatori neri». L’arbitro ha prontamente sospeso la partita.

Dal numero 5 di Undici