Era l’anno dei Mondiali

A nove anni dal Mondiale vinto in Germania, i ricordi, personali, sentimentali, di 7 scrittori su quella vittoria.

Sono passati nove anni dal luglio 2006, il mese che vide la Nazionale italiana vincere prima le semifinali di Dortmund contro la Germania, la squadra padrone di casa, e successivamente la finale di Berlino, contro la Francia. L’Italia, in Italia, era governata dal neo eletto governo Prodi II, Giorgio Napolitano era appena diventato Presidente della Repubblica.

L’inchiesta chiamata “Calciopoli” aveva portato un piccolo terremoto nella Serie A e nella Serie B, togliendo alcuni riconoscimenti ad alcune squadre, riassegnandoli ad altre, retrocedendo qualcuno, penalizzando altri. Sono passati nove anni e altri due Mondiali, uno in Sud Africa e uno in Brasile. In entrambi i casi, l’Italia non è andata oltre la fase a gironi. Il Mondiale del 2006, l’ultimo vinto dalla Nazionale, è anche l’ultimo in cui abbiamo guadagnato un accesso agli ottavi di finale. Questi sono i ricordi di alcuni scrittori, giornalisti, autori, di età e provenienze diverse.

Giuseppe De Bellis

Il momento, il mio momento del Mondiale, è stato a Dortmund, il 4 luglio. Germania-Italia, minuto 118. È il minuto del gol di Grosso, anche se il momento arriva subito prima. Mi sono accorto che è una piccola ossessione, anzi forse neanche tanto piccola, perché ogni volta che scrivo un articolo qualsiasi altra cosa su quel Mondiale o su Andrea Pirlo, mi ritrovo a scrivere la stessa frase, identica, ripetuta. Un autoplagio che sa appunto di ossessione: «stop di petto, destro, sinistro, sinistro, tiro, deviato in corner. E subito dopo angolo, respinta, a lui: controllo di sinistro, poi destro, destro, destro, testa alta, mezzo tacco, mezzo interno dentro per Grosso. Senza guardare, perché la testa è girata dall’altra parte. Sulla corsa del compagno, perfettamente».

Quella giocata è il mio Mondiale in un Mondiale che sarà per sempre mio, perché sono convinto che quello 2006 sia stato per l’Italia un grande trionfo. Il più grande per una generazione che quando crescerà occupando posti di potere e diventando influente sostituirà la sua mitologia con quella del 1982 che ancora oggi domina per ragioni che dipendono in maniera direttamente proporzionale dalla memoria di chi allora era ragazzo e che diventando adulto l’ha imposto come ricordo collettivo unico. Arriverà un giorno in cui la mia generazione farà lo stesso e dovrà arrivare un’altra vittoria a spezzare la retorica perpetua dell’eravamo a Berlino. Tutto questo c’entra col minuto 118 di Germania-Italia di Dortmund, 4 luglio 2006, perché quella palla che Pirlo mette sui piedi di Grosso senza guardare è la giocata che cambia il corso di una partita e in questo caso di un’era. Il tiro, a giro, perfetto, è nella mia testa un “di cui”. È quella cosa che un po’ scioccamente vorresti far vedere ai tuoi figli quando vuoi spiegar loro perché il calcio non è solo emozioni, ma uno sport dove l’intelligenza, l’eleganza, l’idea diventano un risultato. Lo farò, lo so già. L’anno prossimo, anniversario numero dieci, per rendere tutto più retorico. Tirando fuori da un cassetto la maglietta numero 21 di Pirlo di quel Mondiale, due taglie in meno della mia attuale a certificare gli anni passati e che la retorica, perfino quella dei chili in meno che ti ricordano un’era felice, rende una vittoria del Mondiale unica. Come un ’82 qualsiasi.

Fulvio Paglialunga

Per fortuna lo abbiamo vinto. Altrimenti di quel Mondiale mi sarebbero rimaste solo le scene fantozziane, ma amare. Ora immaginate il Mondiale perfetto: birre, amici, partite, nottate. Il mio fu quasi tutto a lavoro: in redazione ad aspettare pezzi, impaginare, andare a dormire. Tutti i giorni così, nemmeno credevamo troppo nell’Italia e quasi andava bene: con l’aria condizionata l’avremmo vissuta meglio e se l’Italia andava fuori (mica lo pensavamo solo noi) sarebbero state meno le occasioni perse con gli amici. Invece, la finale. Quel momento che avevo vissuto da troppo piccolo nell’82, da adolescente nel ’94 e ora non mi volevo perdere. Nemmeno gli altri, infatti la giornata fu un capolavoro di organizzazione: un’ora prima della partita tutte le pagine erano chiuse, tranne quella dell’Italia. Dunque, liberi di andare via e tornare alla fine, per il pezzo da ricevere, i titoli da fare, le foto da scegliere.

Corro, a mare da amici. Lascio Taranto alle spalle e vado verso la casa in cui sono radunati. Con le birre, ovviamente. La seguiamo su Sky ed è il primo inconveniente della serata: al gol di Materazzi arriviamo pronti perché l’inquilino del piano di sopra, quello che non aveva il giardino, la sta guardando sulla Rai ed esulta prima. Esultiamo lo stesso, mischiando improperi per l’emozione un po’ annacquata. Al novantesimo vengo colto dal senso del dovere: gli altri colleghi sono a Taranto, avranno meno problemi ad arrivare, meglio che vada. Saluto tutti e torno verso la redazione. Capisco, improvvisamente, Fantozzi mentre vuole vedere Inghliterra-Italia ed è costretto ad assistere alla proiezione di un film in cecoslovacco. Un pezzo di supplementari lo ascolto in radio mentre guido, l’altro lo immagino mentre percorro a piedi la via principale di Taranto. Vuota. Ci sono due commesse di un bar, nel bar, che vedono la partita e naturalmente non hanno clienti. Altri due in gelateria, la loro, e soli davanti alla tv senza nessuno da attendere.

Sento urla. Forti. Sento un misto di esultanza tiepida (dunque non è gol) e insulti vari indirizzati non capisco a chi. Non ho grondaie a cui arrampicarmi e finestre da sfondare, ma il telefono. Chiamo mio padre. Il premio “chi ha fatto palo” del 2006 è il mio: «Pa’, che è successo?». «Hanno espulso Zidane: ha dato una testata a Materazzi». Penso a cosa mi sto perdendo e penso che ora urlo a questa coppia con il passeggino che, a quest’ora, con una finale del Mondiale in corso e l’Italia che gioca, cammina così lentamente da far rimodulare il concetto di “passo d’uomo”. E guarda le vetrine (vuote) dei negozi (chiusi). Sembrano provocatori messi lì apposta, perché del calcio può non fregartene nulla, pure rispetto ai Mondiali che di solito catturano anche i disinteressati, ma se a quell’ora sei lì e girovaghi senza nessuna meta sensata, mentre a me hanno raccontato un’espulsione storica al telefono, allora sei in cerca dello scontro fisico, passeggino escluso.

Arrivo in redazione e non è successo altro. C’è l’aria condizionata ma le birre sono rimaste a casa dell’amico. Gli altri colleghi sono arrivati un po’ prima, la testata l’hanno vista e per loro fortuna non hanno visto quella coppia a passeggio in centro. Di solito, a partita in corso, proviamo a immaginare titoli, ma non è questo il momento. Siamo coinvolti e siamo ai rigori.

Vinciamo. Ci abbracciamo forte e ci vogliamo tanto bene. Sì, anche qui siamo su Sky ma non ci sono vicini. C’è solo Caressa che dice: «Guardate dove siete in questo momento: non lo dimenticherete mai». A lavoro, Caressa. Io quel giorno ero a lavoro. Gli altri (meno la coppia) festeggiavano. (Ah, il titolo fu “Il Mondo è nostro”. Sobrio).Final Italy v France - World Cup 2006

Davide Coppo

I ricordi non sono mai come uno se li aspetta. Mi capita spesso, mentre sto vivendo una giornata, una vacanza, un fine settimana al mare, una partita di calcio, di pensare come lo ricorderò di lì a cinque anni, a dieci anni. È una specie di gioco che faccio da tempo; alcuni potrebbero dire: “ma così non ti godi il momento”. Non è vero.

Della finale dei Mondiali del 2006 vorrei cambiare alcune cose. Avevo vent’anni e stavo facendo la mia seconda maturità. La prima non era andata bene. Prima di tutto vorrei riuscire a distinguere i ricordi tra la semifinale contro la Germania e la finale contro la Francia: in entrambi i casi la vittoria era arrivata all’ultimo secondo, e ricordo che la gioia allora era di quel tipo lì, quella che è rimasta bloccata per centoventi minuti e va consumata in pochi istanti tutta, e tutta insieme. In entrambi i casi, credo, ho guardato la partita a casa dei genitori di un nuovo amico. A quel tempo mi ero messo a frequentare questo gruppo di persone, tutte più grandi di me di uno, due o tre anni, tutte conosciute in curva allo stadio. Uno di questi aveva deciso di ospitare circa venti amici nel suo salotto della Milano altoborghese. C’erano anche i genitori. Ricordo molto bene le pause tra il primo e il secondo tempo, tra i novanta minuti e i supplementari, mentre fumavamo sigarette su un balcone che riusciva – cosa che non sarebbe più successa, in seguito, con le case degli amici – a contenerci tutti. Quasi tutte queste persone non so che fine abbiano fatto. So che alcune si sono sposate, quasi tutte in chiesa. La presenza di questi fantasmi, ad esempio, è una delle prime cose che cambierei nel ricordo.

Eravamo tutti fidanzati con ragazze con cui non lo siamo più, per fortuna loro e nostra. Poco dopo il 9 luglio 2006 mi innamorai davvero, e passai le vacanze a scrivere sms a Giulia e immaginare quali sarebbero stati i ricordi che non avevamo ancora consumato. Ci fidanzammo ad agosto, una notte in cui pioveva. Qui il secondo punto: aver vinto il Mondiale insieme a Giulia sarebbe stato un ricordo migliore. Il terzo: quella particolare maturità. Non era la prima: la prima volta ero stato bocciato, dopo cinque anni in uno dei licei classici più, diciamo, storici di Milano. Il sesto anno l’ho trascorso in una scuola privata del centro, di cui ricordo bene due cose: il professore di filosofia, e la grande umanità della maggior parte dei compagni. Ma non era la mia vera maturità: erano dei tempi supplementari, una formalità. Ricordo di aver fatto la versione di greco senza vocabolario di greco: un formalità, forse peggio. Nessun romanticismo, allora, da notte prima degli esami, notti di sogni di coppe e di campioni, di lacrime e preghiere, e così via.

Il ricordo più bello, che associo oggi, a posteriori, alla vittoria contro la Francia, pur non essendone sicuro: una fotografia di me, con una camicia blu ereditata da mio padre, arrampicato stretto in cima a un lampione sopra la piazza piena, San Lorenzo, Milano. Con una bandiera in mano, e un fumogeno nell’altra. Prima avevo cercato di arrampicarmi su una statua di Mazzini, ma non ci ero riuscito. Alcuni saltavano su un autobus fermo, abbandonato dall’autista. Di lì a poco avrebbe preso fuoco. Tutti abbracciavano tutti. Naturalmente, ho perso la foto. Naturalmente, quando penso a quella notte e alla mia vita di allora, oggi, le idealizzo. Mi capita di commuovermi, quasi sempre.

Federico Ferri

Il mio Mondiale doveva durare un paio di settimane o poco più. Sono rimasto in Germania 42 giorni. Da inviato di SkySport sono stato l’ultimo ad abbandonare Duisburg, sede del ritiro degli azzurri, quando ormai intorno all’hotel Landhaus Milser c’era un’aria da spiaggia di Riccione ai primi di settembre. Il mio compito era raccontare gli avversari dell’Italia, giocando a fare la spia per conto della Nazionale. E il bello è che qualcuno ci ha pure creduto: lo staff tecnico della Repubblica Ceca, ad esempio, mandò l’attaccante Milan Baros ad allenarsi da solo in un campo da golf lontano dal centro di allenamento, perché non volevano si sapesse che – al contrario di quello che andavano dicendo in conferenza stampa – in realtà il giocatore stava recuperando ed era pronto per giocare. Beccato nel giro di un paio d’ore: in Germania, specie negli alberghi che ospitavano i nostri avversari, c’era sempre un figlio di immigrati pronto a dare una mano a un giovane giornalista italiano in missione speciale.

C’erano una volta un napoletano coraggioso, sfacciato e rumoroso (il mio cameraman Roberto Stoppelli) e un torinese cauto, misurato e apparentemente timidino (io), su e giù per la Germania, da Norimberga ad Amburgo, settemila chilometri in macchina in un mese: sembra una barzelletta, infatti a pensarci bene mi viene ancora da ridere. Dopo una ventina di giorni, con gli azzurri qualificati agli ottavi e – credevo – destinati a una rapida eliminazione, volevo tornare in Italia e non certo per andare al mare. Allora seguivo la Juventus, il Mondiale sembrava quasi una notizia di spalla rispetto al titolone d’apertura: Calciopoli, la Juve tra la B e la C, la fine della Triade, una nuova società, una storia pazzesca… quella era la notizia! Chiamai il direttore: qui il mio compito è finito, devo tornare vero? Posso prenotare il volo? Non se ne parla. «Devi dare una mano ai ragazzi che seguono l’Italia, vai a Duisburg». Ovviamente mi arrabbiai: diciamo che nella vita ho fatto valutazioni migliori. E così cominciò un’altra avventura, la più esaltante e indimenticabile.

Del Mondiale 2006 ricordo un braccialetto con i colori della bandiera del Ghana, che mi regalò Stephen Appiah dopo la vittoria con gli Stati Uniti, e l’albergo degli africani aperto a tutti, tutta la notte, per festeggiare il passaggio del turno. Ricordo, come lo sentissi ancora adesso, il suono dei pugni di Buffon, Gattuso, Materazzi, Del Piero, Iaquinta, Cannavaro, contro i vetri del pullman che si faceva strada a passo d’uomo tra la folla, ad accompagnare il “pooo-popopo-poppopo” delle migliaia di italiani di Germania che aspettavano gli azzurri a Duisburg, dopo la vittoria contro i tedeschi. Piangevano e cantavano. Piangevano, soprattutto. Non era solo calcio. Forse non è mai “solo” calcio. Ricordo la pizza che mi portò un ristoratore italiano la mattina della finale, perché facevamo una diretta ogni mezz’ora e non avevamo tempo di andare a mangiare. Evidentemente mi vedeva deperito. Strano, perché sono stato l’unico della spedizione di Sky a tornare in Italia con cinque chili in più (la mia fidanzata, oggi mia moglie, stentò a riconoscermi quando mi venne a prendere all’aeroporto). Effetto delle cene alle due di notte, della birra che in Germania costa meno dell’acqua e – dicono – è più leggera. La birra, non io. Ricordo il caldo, i marciapiedi bollenti, le telecronache della partenza degli azzurri per lo stadio, a contare i chilometri che ci separavano dal sogno, a Dortmund e a Berlino. Non mi sono mai voluto riascoltare, perché so che un po’ mi vergognerei di quel tono e pure di quell’emozione. Mi sentivo uno di loro, come loro: avevo la stessa età, anno più anno meno, di quasi tutti i giocatori che mi scorrevano davanti e salivano su quel pullman. La notte dell’Olympiastadion è forse la cosa che mi è rimasta meno in testa, sarà stata la stanchezza. La partita l’ho vista seduto dietro alla postazione di Caressa e Bergomi, abbracciamoci forte e vogliamoci tanto bene. Appunto. Ci abbracciammo, con Fabio, appena si tolse la cuffia: fui io il primo che si trovò davanti. Pareva avessimo vinto noi, giocato noi. Comunque una cosa è certa: i calciatori in campo erano meno sudati. E pensare che volevo tornare indietro, che pirla. Quando tornai davvero, 42 giorni dopo, atterrai a Torino perché non c’era più posto sui voli per Milano e andai a casa dei miei genitori. Mia mamma mi fece trovare la bandiera tricolore, ormai con il bianco ingiallito, che sventolavo sulle spalle di mio papà quando avevo cinque anni. Era la notte dell’11 luglio 1982, campioni del mondo. Final Italy v France - World Cup 2006

Tommaso Giagni

La notte della finale l’ho passata insieme al mio gruppo di amici dei vent’anni, che ho perso insieme ai vent’anni. Inevitabilmente nella stessa casa in cui avevamo seguito tutto il percorso mondiale dell’Italia. C’era molta scaramanzia. Uno degli amici mi chiedeva di fare un verso speciale per Pirlo, una specie di richiamo benaugurante, ogni volta che andava a battere un calcio piazzato. Avevo la boccia e l’orecchino. Da poco avevo saputo che un mio racconto sarebbe entrato in un’antologia di minimum fax, che si chiamava Voi siete qui e per me era una pubblicazione importante. Ero al secondo anno d’università, stavo preparando un esame di Storia Medievale che era l’ultimo della sessione estiva. Mi aspettava un’infilata in pochi giorni: finale, esame, vacanza. Sarei poi andato a Hvar, in effetti, con una Panda blu che quando si parcheggiava in salita bisognava fermare con delle pietre dietro le ruote.

Fino a quella sera avevo mantenuto un certo distacco. Soprattutto perché la Nazionale non era la Lazio, non aveva (e non ha) senso fare paragoni. E in parte perché non provavo niente di buono per Lippi e per la maggior parte di quei giocatori. Ricordo distintamente di aver sperato che Totti sbagliasse il rigore contro l’Australia. Qualcosa era cambiato durante la semifinale con la Germania, il gol di Grosso era stata una bella storia, quella partita aveva degli elementi epici. Fatto sta che la sera del 9 luglio ero abbastanza coinvolto. Mi ricordo la tensione dell’equilibrio. La brutalità con cui aggredimmo Zidane dentro la televisione. Al momento dei rigori ero completamente stravolto, addirittura mi sentii vicino a De Rossi. Quando tutto finì ci fu un abbraccio scomposto e violento, e grida in tutto il quartiere, che poi era il mio quartiere, e manate contro un armadio bianco che scricchiolava.

Uscimmo a festeggiare, come tutti. In quattro su due motorini, attraversammo Roma per arrivare da Monteverde Nuovo in centro. Sedevo dietro, io, perché da qualche settimana si era definitivamente rotto il mio Scarabeo 50 blu con la mascherina bianca. Mi ricordo una passeggiata a piedi per Via delle Botteghe Oscure, dove ancora non passava il tram e ancora esisteva la libreria Rinascita. E ancora non esisteva il Pd. Mi ricordo il fastidio di vedere gente che festeggiava senza sapere niente di calcio. Mi ricordo il fastidio di sentire che Seven Nation Army era diventato un coro, perché i White Stripes li ascoltavo da tempo, e li avevo visti dal vivo nel 2003, e mi dispiaceva che finissero sulla bocca di tutti. Ci fermammo a Piazza Venezia, nell’aiuola che si alzava in mezzo. Qualcuno aveva una bandiera, qualcuno cantava, facemmo una fotografia tutta sgranata che ho ancora.

Cristiano de Majo

Il 9 luglio 2006 ero a Stromboli. Avevo già prenotato la vacanza da tempo, senza controllare il calendario dei Mondiali. O forse sì. Magari a mente fredda l’ipotesi di guardare la finale a Stromboli non mi era sembrata così balorda. Non solo perché le probabilità che quella finale fosse giocata dall’Italia erano minime. Ma anche perché non potevo sapere che la partecipazione mi avrebbe così contagiato. Finì che presi il traghetto senza volerlo veramente prendere. Lo presi pensando alla notte della semifinale. Quando ero sceso in strada – vivevo a Roma – in mezzo alla folla, una folla oceanica (per usare un aggettivo da telecronista) e avevo festeggiato con un entusiasmo che non era da me, mimando troppe volte l’esultanza di Toni con la mano intorno all’orecchio. Guardare la partita a Stromboli, sul megaschermo nella piazza del paese, fu come ho immaginato debba essere stato guardarla in una base militare piazzata in un paese in guerra. Un gruppo di persone unite da un sentimento e tutto intorno il vuoto. Al fischio finale quattro, o cinque motorini al massimo strombazzavano i clacson nelle strade buie dell’isola. Se fosse stata la partita decisiva della mia squadra di club, non sarebbe stato così deludente. Sarei stato contento più o meno nello stesso modo (forse perché ho sempre tifato per una squadra non della mia città). Ma in quel caso fu quasi come non aver vinto. E infatti per me il ricordo di quel Mondiale è molto più legato alla semifinale con la Germania.

Giorgio Burreddu

Per mesi ho continuato a ripetermi: «Certo, bravo, l’avrai pure conquistata. Ma il Mondiale lei l’ha vinto con me». Quando io e Grazia ci siamo lasciati è stata una tragedia. Restavo al buio ad ascoltare i Pink Floyd e “Wot’s… Uh the Deal” mi sembrava una culla sufficientemente malinconica. Lei si era ormai fidanzata con questo Matteo, alto, grosso, un vero pallanotista. Ma come tutti gli amori, anche la mia love story post-adolescenziale ha avuto le sue avvincenti unicità. Una è stata di sicuro la vittoria del 2006 vissuta insieme. Non sono mai stato un tipo scaramantico, ma qualche rito anti-sfiga prima dell’Italia me l’ero preparato, e siccome mi sembravano funzionare, visto che la squadra andava avanti, ha tenuto duro fino alla fine. Mettevo la sinistra prima della destra, infilavo sempre la stessa maglietta rossa con la scritta “Soccer Fanatic” sul davanti (ce l’ho ancora e ha i buchi), e poi c’era casa Spini. Spilungone con il pizzetto, una vaga somiglianza con Cristiano Doni (tanto che a calcetto se faceva gol esultava come lui), Spini ci aveva convinto ad andare nel suo appartamento la sera di Repubblica Ceca-Italia, gli azzurri avevano vinto 2 a 0 e dopo non ci eravamo più mossi da quel divano. Pur di vedere i ragazzi di Lippi vincere sopportavo volentieri anche Pallino, un arcigno bastardino azzannatutto. Non so, durante quell’estate, in quella casa, si era creata un’atmosfera piena di magia.

L’apice l’avevamo raggiunto la sera di Italia-Germania. Non ho mai capito fino in fondo l’ipnosi che mi crea il 4-3 del ’70, in Messico, o il 3-1 del Mundial ’82, deve essere una questione genetica di noi italiani, ma sta di fatto che al gol di Grosso io e Grazia ci abbracciammo lungamente, complici di qualcosa, forse del successo, la sollevai da terra con una forza sorprendente (io non faccio il pallanotista) prima di riversarci nelle strade di Bergamo a festeggiare, a baciarci e a cantare fratelli d’Italia fino alle 4. Il 9 luglio, la sera della partita contro la Francia, io e Grazia portammo delle birre a casa di Spini. Non bevve nessuno. Lei aveva una maglietta bianca, dei sandali bassi e i soliti maledetti occhi verdi a scintillare nel buio. All’epoca collaboravo con il Nuovo Giornale di Bergamo, il quotidiano in cui ho mosso i primi passi. Uno dei redattori mi disse che in caso di successo mi sarei dovuto scapicollare per le strade, giù a raccontare la festa, la gente, le urla, a dire cos’era quell’incredibile gioia collettiva in chiave locale. E così, dopo i rigori, io e Grazia ci tuffammo per viale Papa Giovanni, quello che porta alla stazione. Era pieno di gente. Bellissimo. Festeggiammo un po’, poi io volai in macchina a scrivere che i figli di Bearzot erano diventati grandi e ora toccava ai figli di Lippi danzare sul mondo. Toccava a noi, a noi che avevamo poco più di vent’anni. Quelle cinquanta righe finirono in penultima pagina dello speciale. Finito di scrivere raggiunsi di nuovo Grazia e con altri amici scavalcammo all’Italcementi per andare a farci un bagno trasgressivo in piscina, ci sembrava un bel modo di festeggiare l’Italia campione del Mondo. La notte andò avanti all’infinito e non sarebbe più tornata. L’anno dopo mi trasferii a Roma, poco dopo io e Grazia ci siamo lasciati. Nel 2010 la redazione del Corriere dello Sport-Stadio mi mandò a una mostra dal titolo “Azzurri in prima pagina”, la raccolta delle ottanta prime pagine originali dei quotidiani italiani che celebravano la vittoria azzurra di quattro anni prima. C’era anche quella del Nuovo Giornale di Bergamo. Ricordo l’emozione nel rivederla, mi avvicinai, chiusi gli occhi e ripensai alla gioia, alla festa, a tutte le cose di quella vittoria, e anche a Grazia. Pensai a come una notte possa diventare nostalgia. Proprio come l’amore.