Otto settembre 2011, periferia nord di Torino, sera. Giampiero Boniperti e Alessandro Del Piero chiacchierano al centro di quello che era all’epoca l’ultimo rettangolo verde calpestato da una Juve vincente. La cosa che salta all’occhio, allargando le telecamere strette sui due capitani, è la cornice; non più macchie di tifosi sparse nelle gelide e lontane tribune dell’astronave costruita per le notti magiche di Italia ’90, ma quarantunomila tifosi compatti e raccolti a pochi metri dai due, senza barriere né piste d’atletica.
È la sera dell’inaugurazione dello Juventus Stadium, il primo stadio in Italia interamente di proprietà di un club. “Welcome Home” lo slogan scritto ovunque e ribadito dal campo dal presidente Andrea Agnelli. I presenti confermeranno: la sensazione è quella di riappropriarsi di colpo della propria storia, di sentirsene integralmente parte. Il ritorno a casa, appunto. Della Juve certo, ma anche del calcio italiano. Quella sera, a margine dei fuochi d’artificio, della parata di stelle, della presentazione della nuova squadra, si gioca non più di un’amichevole. Ci sono le luci, manca l’agonismo. «E infatti abbiamo capito veramente cosa avrebbe prodotto questo stadio solo al primo gol in casa col Parma, la domenica successiva, quando ha segnato Lichtsteiner proprio sotto la tribuna Sud. Ero a bordo campo, ed è ancora molto vivo il ricordo dell’emozione del boato. Li abbiamo realizzato che era cambiato tutto».
Chi parla è Francesco Gianello, venue director dello Juventus Stadium. In Juventus dal 1998, dove ha ricoperto per anni il ruolo di segretario generale, Gianello è il responsabile dello stadio fin dalla sua nascita, ed è lì che lo incontriamo, in un lunedì in cui non c’è partita. Un tipico non match day, in cui lo stadio è però aperto e non si ferma, anzi: sono circa cinquanta le persone che lavorano qui tutti i giorni, partita o non partita. Un aspetto fondamentale, ci spiega Gianello: «Come accade per la maggior parte dei club italiani, nelle nostre esperienze precedenti lo stadio veniva vissuto al massimo un paio di giorni alla settimana. Io mi occupavo di interazione con le squadre avversarie, con la Lega, con la Uefa; i colleghi del commerciale della parte riguardante i biglietti e di quel poco che si riusciva a offrire come ospitality, ma le gestione dello stadio spettava ai proprietari, alla città».
«Come accade per la maggior parte dei club italiani, nelle nostre esperienze precedenti lo stadio veniva vissuto al massimo un paio di giorni alla settimana»
«Quando siamo arrivati allo Stadium abbiamo avuto bisogno di arruolare nuove figure professionali e di amalgamarle il più velocemente possibile. Abbiamo iniziato a lavorarci a settembre del 2010 e, nell’anno che è intercorso fino all’inaugurazione, abbiamo cominciato a venire qua e a costituire l’area legata alla faciliti, al funzionamento della struttura, per preparare al meglio il passaggio fra chi ha costruito lo stadio e chi lo avrebbe gestito. Subito dopo abbiamo iniziato a lavorare sul personale demandato alla sicurezza, gli steward, e a integrare anche il lavoro del marketing, per iniziare a strutturare le attività che avremmo offerto ai tifosi nella loro nuova casa. Soprattutto per quanto riguarda il match day, il giorno della partita, ma anche per iniziare a immaginare tutte le attività legate al non match day, il resto della settimana». Non ci voleva molto a intuirlo, ma queste parole di Gianello lo confermano: lo stadio di proprietà è una macchina molto complessa, e se vuoi quel boato quando segna Lichtsteiner, se vuoi continuare ad attrarre i prossimi Lichsteiner, tocca lavorare sodo e mettere mano costantemente alla struttura del club. E farlo con la testa.
Per dare un’idea della profondità della struttura, sono cinque le aree che controlla Gianello e che lavorano a tempo pieno sullo stadio: Facility (struttura e manutenzione), Eventi (creazione dell’esperienza per i tifosi, produzione televisiva in proprio delle partite), Marketing and Sales (interazione col pubblico, gestione degli abbonamenti, fissi da tre anni alla quota massima stabilita di 28.000; ma anche del rapporto coi club dei tifosi e con gli ospiti premium, circa 4000), Operations, e Juventus Museum (che a fine agosto era a quota 372.000 visitatori, il quarantasettesimo museo italiano più visitato in assoluto). A sua volta, la direzione dello stadio riporta al CRO (Chief Revenue Officer) della società, Francesco Calvo, a capo di una nuova struttura che sviluppa tutte le fonti di ricavo del club, il quale poi riporta direttamente al presidente Andrea Agnelli. Una macchina che, per restare allo stadio, deve far fronte a diverse esigenze e tenere insieme un fronte molto largo, “per questo le cinque aree devono lavorare come un unico ingranaggio”, dal direttore all’ultimo degli steward, che alla fine sono insieme coloro che accolgono e offrono ospitalità ma anche coloro i quali garantiscono la sicurezza.
A proposito, parentesi sulla sicurezza: allo Juventus Stadium le forze dell’ordine non si vedono ma ovviamente ci sono, «abbiamo anzi progettato con loro i sistemi di sicurezza dell’impianto, la sala di controllo affaccia direttamente sullo stadio, cosa rarissima in Italia e comunissima in Germania e in Inghilterra, monitoriamo tutto quello che succede in tempo reale con un sistema di 86 telecamere a circuito chiuso» racconta Giannello, e questo è parte di un modello che vuole sfruttare l’effetto deterrenza, ci spiega, l’idea che se entri in un posto nuovo, comodo, raccolto, senza barriere e non militarizzato, ti senti più responsabilizzato e, semplificando, hai un po’ meno voglia di fare danni (funziona, i dati lo dimostrano). Anche il settore ospiti, aggiunge il direttore, è stato progettato con questo intento: a ogni passaggio di una tifoseria vengono effettuati lavori di manutenzione che rimettono tutto a nuovo, «e notiamo che scritte e atti di vandalismo diminuiscono progressivamente».
Se entri in un posto nuovo, comodo, raccolto, senza barriere e non militarizzato, ti senti più responsabilizzato e, semplificando, hai un po’ meno voglia di fare danni.
Torniamo agli steward, e alla loro gestione, emblematica del progetto Juventus Stadium: «Nei primi tre anni ci siamo appoggiati a un partner, ManPower, con il quale abbiamo messo in piedi un’attività di instradamento del pubblico, di accoglienza, di sorveglianza. Teniamo conto che si tratta di lavoro a chiamata, quindi di personale non dipendente e con tipologie molto diverse fra loro. Da quest’anno abbiamo deciso di occuparci noi di loro: avranno un rapporto di lavoro diretto con la società tramite l’area Operations, avranno lo stemma della Juve sulla pettorina, saranno parte integrante del progetto. La finalità è quella di creare un nostro modello di accoglienza, che possa fare la differenza». Quello del modello proprio è un concetto caro a Juventus, dopo un inizio ovviamente ispirato dall’estero: «Siamo in una fase, dopo il primo triennio, dove abbiamo cominciato a fare delle valutazioni di quella che è stata la start up prima e poi il consolidamento di determinate procedure e attività, ma anche di quella che è stata la risposta del pubblico, per porre le basi per un nuovo salto in avanti. Abbiamo qualche anno di vantaggio che, anche quando nasceranno altri stadi in Italia, vogliamo mantenere».
Due considerazioni finali. La prima: di qualsiasi squadra siate tifosi, fate un salto allo Juventus Stadium, se vi capita l’occasione; la rinascita del nostro calcio passa molto più da qui, dal lavoro sul campo di una società intera, nessuno escluso, che da mille riunioni a porte chiuse in qualche hotel romano o milanese. La seconda, per quelli che sostengono che il modello stadio di proprietà sia “tutto marketing e clientela e alla fine ci rimettono i tifosi”, a cui risponde indirettamente lo stesso Gianello: «Il valore aggiunto di questo stadio è la creazione di un ambiente che dà la massima risposta alle aspettative del tifoso. Qui chi fa l’abbonamento sa che nessuno si siederà sul suo seggiolino fino alla prossima partita. È davvero la sua casa. Al di là degli aspetti commerciali, lo stadio di proprietà rappresenta un asset per i tifosi: nel vecchio delle Alpi la prima fila accettabile come visibilità era la fila 13 del primo anello, a circa 40 metri dalla linea di bordocampo, mentre qui la fila più lontana di tutto lo stadio è a 39 metri. Il posto più lontano di questo stadio è alla stessa distanza del più vicino al campo di quello vecchio». Non male, no?