Neymar si spiega in un momento, dopo il gol del tre a zero del Barcellona sul Bayern nella semifinale d’andata della Champions League. Il suo gol. Ha segnato facendo un tunnel a Neuer. Gol facile, hanno detto tutti, perché Messi prima ha fatto quell’altro, quello con la finta che fa rotolare per terra Boateng. Però a memoria, nessuno ha fatto un tunnel a Neuer da quando Neuer è Neuer. Facile, quindi, è un giudizio superficiale.
Comunque il momento è quello successivo: l’esultanza. Quando il resto della squadra lo raggiunge e lo abbraccia. Neymar è al centro di un gruppo, fisicamente e metaforicamente. È il talento integrato in un sistema. È forte e la forza gliela riconoscono i compagni. Perché quell’immagine ne ricorda un’altra, di un anno fa e mezzo fa, al Mondiale. Opposta e però uguale. Neymar è fermo, al centro del campo, il Brasile sta giocando male contro il Cile. Alza la testa, si muove, s’avvicina a un gruppo di compagni, li guarda, dice qualcosa a ciascuno di loro. Più piccolo, più magro, più esile. Più forte, però. Leader è una parola brutta, ma che spiega bene. Neymar parla. Con i piedi, con la voce, con il look. L’ordine è invertito rispetto a quello che abitualmente si vede e si sente su di lui. Ecco, se smonti la struttura che i media e probabilmente anche lui stesso gli hanno creato addosso, trovi un calciatore.
Barcellona-Bayern: il gol di Neymar.
Gioca, Neymar. A Barcellona ha cambiato posizione e modo di stare in campo. S’è allargato, lì a sinistra, perché convivere con Messi significa soprattutto fargli spazio. Lo dice quando glielo chiedi. «Non importa quanto tu sia bravo, quando giochi in una squadra così, devi lavorare per migliorare». Migliorare significa 52 gol in 90 partite nel Barcellona. Significa che nell’ultima stagione, prima della finale di Champions League, ne aveva fatti 37 in 48 partite, una media che non vale neanche la pena riportare perché è enorme. Calibri tutto: il fatto che giochi in una tra le squadre più forti della storia, che in campionato ci siano pochi rivali, che accanto ha Messi e Suárez. Però, posto che tutto ciò vale per moltissimi altri giocatori di quest’era come di tutte, c’è un dato che vale più di ogni altro: in Champions, l’anno scorso ha segnato 9 gol in 11 partite e 5 di questi li ha fatti tra i quarti di finale contro il Paris Saint-Germain e la semifinale contro il Bayern Monaco.
I numeri aiutano. I numeri spiegano. I numeri raccontano. Perché Neymar è una star, ma non è solo una star. Chi l’ha ritratto finora come una figurina perde di vista il campo. L’essere contemporaneo è esattamente questo: far convivere l’apparato che genera il personaggio, che lo fa muovere come un divo, che l’ha trasformato in un brand pazzesco con il giocatore. In Neymar, come accadeva con Beckham, non c’è contraddizione, anzi. C’è contiguità, c’è complementarietà. George Quraishi, condirettore di Howler, ha scritto: «È davvero difficile valutare chi sia oggi il più famoso su scala globale tra i giocatori famosi. Cristiano Ronaldo? Messi? Neymar? Non puoi dirlo. Ma il brasiliano è quello che vive più immerso in quest’epoca».
Neymar, in questa stagione, ha segnato 13 gol in 14 partite
Neymar fa aspettare. Andrew Anthony ha raccontato sul Sunday Times l’attesa per incontrarlo, ha descritto quei momenti come un fastidioso rito figlio del divismo, salvo cambiare completamente idea al momento del suo arrivo: «Molti sportivi sembrano avere un’aura impalpabile, qualcosa che li porta inevitabilmente a sentirsi superiori rispetto agli altri, ai mortali. Ma Neymar non è così. È timido, si autoracconta come un tipo semplice e lo è, un ragazzo di 23 anni che riesce a vivere questa dimensione e quella dello sportivo che per due anni è stato indicato da SportsPro come il più attraente per il mercato pubblicitario».
Il tempo è poco, sempre. Le regole rigide. Hai uno spazio stretto, lo sai. Poche domande, devi gestirle bene, meglio che puoi. Allora sì, quel gol. Neuer, le sue gambe, la palla che passa attraverso. I giornali spagnoli hanno descritto il tunnel come una giocata tipica di Neymar: «Di sicuro è una tecnica che uso. L’ho sempre usata. Farlo o meno penso che dipenda in gran parte dalla situazione che si crea in quel preciso momento nella partita. Ti ritrovi di fronte al portiere e devi scegliere l’opzione migliore. Può essere sotto, di lato, sopra. Dipende dallo scenario». Non c’è un perché, c’è un calcolo delle probabilità che si relaziona all’istinto. Non c’entra con il luogo. Gli chiedi che cosa significa giocare nel Barcellona: «Con la storia che ha il club, con i giocatori che sono stati qui in passato e con quelli che ci sono oggi, sai che la nostra responsabilità è vincere. In questi due anni ho imparato molto, soprattutto nel primo. C’è qualcosa. È l’atmosfera. L’atmosfera all’interno del club e della squadra è fantastica. Giochiamo molto bene: c’è il talento, c’è esperienza. Sono tutti giocatori di successo, ma sono tutti umili. Questo spirito è un grande vantaggio. E in campo si vede. Siamo uniti, felici e concentrati. Sappiamo quello che vogliamo ottenere: vincere più titoli possibile. E ci stiamo preparando perché questo possa accadere».
Gli avevano detto di non andare, a Barcellona. C’era Messi, che quando s’era trovato di fronte a Neymar al Mondiale per club del 2011 l’aveva umiliato. C’era il Real Madrid che offriva di più, pare. Era logico: non metti in una squadra come il Barça uno che al Santos veniva descritto come il ragazzino capriccioso, viziato, che aveva fatto licenziare l’allenatore che l’aveva escluso per motivi disciplinari. Il punto è questo: chi è Neymar. Perché Barcellona sta dicendo che evidentemente la descrizione era o sbagliata o incompleta. Visto oggi, Neymar non avrebbe potuto scegliere posto e club migliore per sé. E non è soltanto per l’ovvia considerazione che si tratta di una squadra fortissima. Il suo modo di giocare cambiato in funzione di quella squadra l’ha migliorato. E la leggenda che ruota attorno al Barça s’incastra con la vendibilità di Neymar. Funziona lui, funziona il club, funziona l’insieme.
Il Golazo contro il Villarreal.
Perché è un giocatore perfettamente calato nella sua era, nella nostra era. La sua consapevolezza di ciò che è, calcisticamente e commercialmente, è unica. Simbolo di una modernità nel modo di giocare e nel modo di essere prodotto. In lui convivono come in nessuno. A 23 anni è stato il proprietario di casa del Mondiale più incredibile di sempre: il Brasile era il suo giardino. Più di quanto sia stato nella storia quello di altri. La comunicazione, la Tv, i social sono il mezzo, non il fine: a casa Neymar sono entrati duecentotre milioni di brasiliani e un miliardo e mezzo di stranieri. Prego. Sorrideva, salutava, giocava. «Non dobbiamo avere paura di essere felici», è l’ultima cosa che ha detto a O Globo prima di Brasile-Colombia, ovvero prima della partita della sua minitragedia personale diventata una minitragedia collettiva. Lui che tranquillizza il mondo è stata controintuizione. Perché il pregiudizio globale su di lui imponeva di dover pensare il contrario. Pensavamo tutti fosse il contrario. Lui da proteggere, da preservare, da accudire, perché lì la pressione era inquantificabile. Non era mai capitato a nessun brasiliano di essere il leader della Nazionale che giocava in casa il Mondiale. Né a Carlos Alberto, né a Pelé, né a Zico, né a Romario, né a Ronaldo. È successo a lui, a 23 anni. A quello che il pianeta ha dipinto proprio come una figurina, come un videogame, come una costruzione mediatico-pubblicitaria.
È un eroe, per il Brasile. È un pezzo di soft power brasiliano nel mondo: è finito sulla copertina di Time, prima di lui era accaduto solo a sei presidenti e un diplomatico brasiliano. Nel suo giardino, un anno e mezzo fa ci entravi per forza, appena messo piede in Brasile. Immaginate una scena. Questa. Parcheggi l’auto di fronte allo store Nike di rua Visconde do Pirajá, a Ipanema: Neymar ti fa un occhiolino dalla vetrina. Centocinquanta metri più in là ti guarda da un’edicola: è un totem ad altezza naturale, ha in mano l’album Panini del Mondiale e t’invita a entrare e comprarlo. Altri duecento passi, ti guarda dalla vetrina di un ottico, dove lui e i suoi occhiali abbracciano l’ingresso; tre passi ancora, lo trovi in mutande in un negozio di abbigliamento intimo; dall’altra parte della strada parla al telefonino sulle vetrine dello store Vivo. La ginocchiata del colombiano Zúñiga che l’ha messo fuori dal Mondiale è stata per paradosso la conferma che tutto ruotasse attorno a lui. Non soltanto nella pubblicità, ma anche in campo. Perché Neymar è un capopopolo, uno sul quale scaricare una responsabilità mastodontica.È il ritratto controdeduttivo di se stesso: un ragazzino gracile, sottile, leggero, in grado di caricarsi ogni peso addosso. Non scappa, non è mai scappato. Con l’orgoglio della leggerezza: qual è il problema dei suoi capelli? Non piacciono a Pelé? Prima O’Rey aveva detto: «Può diventare più forte di me». Poi ha cambiato idea: «Non diventerà mai come me». Neymar ha pagato la ricchezza e la fama globale, come una colpa da espiare a ogni partita. Lo scrittore Alex Bellos ha raccontato che mai prima d’ora nella storia del Brasile c’era stata una Nazionale dipendente da un solo giocatore. Ora sì. È costretto a essere straordinario.
È un eroe, per il Brasile. Un capopopolo, uno su cui scaricare una responsabilità mastodontica
Barcellona l’ha normalizzato ed esaltato al tempo stesso. Semplice: un tocco, a volte due. Segna con una facilità che è determinata anche dall’aver sfrondato il suo stile di gioco da molti accessori. Il dribbling è funzionale. Nell’ultima stagione ha segnato 12 gol toccando il pallone una sola volta negli ultimi venti metri di campo. Non serve più fare il gol che l’ha reso definitivamente famoso: Santos-Flamengo del 2011 con lui che parte dalla linea laterale sinistra, salta due avversari, tocca in profondità per un compagno, scatta, se la fa ridare inseguito da uno di quei due che non lo molla, ne salta un altro entrando in area, tenendo sempre dietro il primo e d’esterno destro aggira il portiere. Le finte e i dribbling che si vedono in quest’azione non hanno un nome codificato. Sono 11 secondi di meraviglia, che una descrizione non riuscirà mai a raccontare per la loro bellezza calcistica ed estetica. Non si cancellano, ma non ci sono più.
Il gol di Neymar in Santos-Flamengo
Il che è la dimostrazione ulteriore che Neymar prodotto e Neymar calciatore non esistono. Il tweet con cui annunciò la firma con il Barcellona è stato per molto tempo tra i 5 più retwittati di sempre. Ney è uno, con una faccia, una voce, un’idea. È una sintesi. È un calciatore ed essendo un calciatore ha capito che cambiare modo di giocare serve a continuare a essere un campione. Il tempo, lo spazio, l’opportunità, il futuro: «Sono contento del mio stato di forma, del mio livello di gioco. È stata una grande stagione, per me, per la squadra. Detto questo, io sono un giocatore sempre, sempre al lavoro per migliorare se stesso». La sovrastruttura fa parte del pacchetto. Gli sponsor, le pubblicità, i milioni, il ragazzino più pagato di sempre in Brasile, la vicenda del suo ingaggio, del fisco che ha indagato, del Barcellona che s’è difeso. Entra tutto nella storia di Neymar naturalmente, ma non è questa la sua storia. Il calcio è molto altro, anche il suo, forse soprattutto il suo.
.@Njr92, welcome to FC Barcelona!
— FC Barcelona (@FCBarcelona) 26 Maggio 2013
Neymar ha 23 anni, è padrone del Paese più importante del pallone, è una delle star della squadra più globale e forse più forte del mondo. Oggi. La contemporaneità è un valore assoluto: è come stare nel futuro rimanendo sempre nel presente. Roger Bennett di Espn l’ha definito «il calciatore simbolo dell’era YouTube». È perfetto. È il contrario di un’offesa.