Otto giorni di Finals

Reportage dalle ATP Finals di Londra: come sono andate dentro e fuori dal campo, fino al trionfo, il solito, di Novak Djokovic.

«We are here for the tennis», dicono due turisti alla reception dell’hotel. È la stessa frase dei newyorkesi che dalle campagne degli Hamptons tornano in città per godersi l’ultima settimana degli US Open, e ricominciare con il lavoro. Solo che questa è Londra e non si gioca uno Slam, ma le ATP World Tour Finals, una cosa a metà tra una pacchiana esibizione e un campionato del mondo tra i migliori otto giocatori dell’anno. Le ATP Finals sono l’unico torneo organizzato dall’associazione dei tennisti professionisti, l’ATP. Gli Slam, invece, sono tornei organizzati dalla Federazione Internazionale, l’ITF, una specie di “FIFA del tennis”.

Il torneo una volta si chiamava “Master”, ma poi un tizio ha registrato i diritti del nome e ha chiesto la luna all’ATP, che invece di cedere ha preferito cambiare nome. In passato si è giocato nei posti più disparati, dall’Australia alla Cina, dal Portogallo alla Germania. Dal 2009 si gioca a Londra, appunto, e qui rimarrà almeno fino 2018. Dovrà trovarsi un nuovo sponsor l’anno prossimo, perché la Barclays ha annunciato che l’edizione del 2016 sarà l’ultima con il suo nome, quindi prepariamoci a salutare anche i suoi i colori aziendali, celeste e azzurro, che hanno colorato il campo in questi anni.

Gli highlights della finale tra Nole Djokovic e Roger Federer.

Con le Finals il tennis saluta i tifosi dando loro appuntamento dall’altra parte del mondo, con l’inizio del nuovo anno. I fantastici otto della O2 Arena si affrontano nella inconsueta formula, quasi una bestemmia per il tennis, dei due gironi. Lo fanno per sfruttare al meglio gli otto giorni di torneo – da domenica a domenica – e per fare in modo che il pubblico possa vedere i propri beniamini almeno tre volte. “Bestemmia” perché il tennis si fonda sull’eliminazione diretta, al punto da definire survived (sopravvissuto) il tennista che va avanti. Perdere e rimanere in gara è come pretendere di morire e rimanere in vita.  I match dalla domenica al venerdì servono per cercare la qualificazione alle semifinali del sabato. Una formula identica a quella dei gironi di qualificazione cui è abituato il calcio: è l’unica volta, infatti, in cui i tennisti possono avanzare al turno seguente anche perdendo un match. Devono persino stare attenti al computo dei set e a quello dei game, come se fossero dei gol fatti o subiti.

Sulle scale mobili verso la fermata North Greenwich che ti lascia davanti all’ingresso dell’Arena, ci sono famiglie che guardano i loro bambini correre sul pavimento mattonato mentre ne rincorrono altri che si nascondono dietro grandi colonne foderate di cartoni giganti che raffigurano i magnifici otto. Il maxischermo prospiciente l’ingresso ha i colori della bandiera francese. C’è solidarietà e c’è preoccupazione. Il via vai al di fuori della cavea è frenetico. File ovunque, per mangiare (tante) e per acquistare il merchandising dell’ATP (poche). Gli uomini della sicurezza sono molto concentrati sulle bombe del nuovo millennio, i backpack.  Questo è il campo più centrale del mondo: è il manto che è stato calpestato anche da Robert Plant e Jimmy Page nel celebre concerto dei Led Zeppelin di qualche anno fa; roba per i migliori, e ora ci giocano i migliori.

I gironi

I due gruppi, da quest’anno, sono intitolati a Stan Smith e Ilie Nastase. Il primo ha vinto il torneo nella sua prima edizione, nel 1970 (vinse anche il doppio in coppia con Artur Ashe), il secondo è stato il primo numero 1 della classifica con il ranking computerizzato, e ha vinto anche quattro volte il torneo. Prima che si giocassero le semifinali, sembrava di essere tornati indietro nel tempo. Non solo sei degli otto partecipanti erano gli stessi dell’edizione 2010 – Novak Djokovic, Andy Murray, Roger Federer, Rafael Nadal, Tomas Berdych e David Ferrer – ma i due gironi erano stati vinti da Federer e Nadal. Federer era nel girone di Djokovic, ma che abbia vinto il proprio gruppo da imbattuto è stata una sorpresa relativa. È il numero tre del mondo e quest’anno ha vinto sei tornei e raggiunto due finali Slam. Più imprevedibile, invece, il primo posto di Nadal, imbattuto anche lui, reduce dalla peggiore stagione della sua carriera e che ha saputo però approfittare dei tentennamenti di Wawrinka e dei pensieri di Murray, che questo weekend giocherà in Belgio per riportare la Coppa Davis in Gran Bretagna.

Il torneo di Murray è stato più o meno questo.

Le semifinali

Le semifinali, però, hanno riportato tutto alla normalità del 2015. L’ultima volta che Djokovic aveva incontrato Nadal, in finale a Pechino, lo aveva battuto per 6-2 6-2, quasi un’umiliazione. Stavolta gli ha concesso due game in più, 6-3 6-3 il risultato finale, ma l’impressione di superiorità, se possibile, è stata addirittura superiore qui che in Cina. Djokovic sembrava quasi non voler infierire ulteriormente sul rivale, che non ha mai vinto questo torneo e che difficilmente, oramai, riuscirà a vincerlo in futuro: non ci riusciva quando era allo zenit della carriera, improbabile che ci riesca a trent’anni.  

Barclays ATP World Tour Finals - Day Eight

Federer e Djokovic, invece, lo hanno vinto in dieci delle ultime dodici edizioni – sei volte Federer e quattro volte Djokovic, comprese le ultime tre – ed era quindi piuttosto logico che si giocassero il titolo anche quest’anno. L’anno scorso Federer non scese in campo dopo una lunga e sfibrante semifinale con Stan Wawrinka. Anche quest’anno si è giocato l’accesso in finale con il connazionale, ed è finita come tutte le altre volte in cui si sono affrontati sul cemento: con la vittoria di Federer. Eppure questa volta Roger non ha sudato molto, anzi, gli è bastato spingere un po’ di più tra la fine del primo set e l’inizio del secondo ed approfittare dei fragili nervi dell’avversario. Federer è il numero 3 del mondo, non il 2, ma durante tutto l’anno è stato lui, non Murray, a sembrare l’unico ostacolo alla strepitosa stagione di Djokovic, che dagli Australian Open a Londra ha ottenuto solo finali.


Il colpo più bello lo ha giocato Nishikori, staccando la mano sinistra per disegnare un perfetto passante in lungolinea.

La finale

In finale Novak Djokovic si è preso la rivincita su Roger Federer, che l’aveva battuto nell’incontro del girone. I due si sono incontrati otto volte quest’anno, e il bilancio dice 5 a 3 per il serbo. La chiave della partita è stata il servizio: Novak ha servito bene, Federer meno. E lo svizzero, senza l’aiuto del colpo migliore, non può far partita pari con Djokovic. Il march è stato sempre nelle mani del numero 1 del mondo, il quale ha confermato che, se c’è da vincere, lui vince, e pazienza se gli avversari – Federer su tutti – fanno sempre i punti migliori. Novak gli batte le mani e poi alza la coppa. Ma d’altronde, nell’annata migliore della sua vita, come lui stesso ha sottolineato nella diretta Facebook fatta per i suoi fan, poteva forse perdere l’ultima partita dell’anno?

Il doppio

Il doppio è sempre meno amato e meno seguito, e l’ATP ha introdotto due nuove regole per renderlo più spettacolare e veloce: la prima è che sul 40 pari si gioca un punto secco che assegna la vittoria del game, facendo scegliere a chi risponde da quale parte del campo ricevere il servizio avversario; la seconda è che il terzo set si gioca su un tiebreak, denominato “super” perché si arriva a 10 punti invece che ai canonici 7. Quest’anno alle ATP Finals c’erano anche gli italiani, assenti a questo torneo – fra singolare e doppio – da ben 37 anni, quando Barazzutti vi partecipò senza farsi particolare onore, vincendo soltanto un set contro Raúl Ramírez. C’erano Fabio Fognini e Simone Bolelli, che hanno classifiche  migliori di tutte le altre coppie, ma nel singolare, che è quasi un altro sport. Nel doppio hanno perso i primi due match, il primo al supertiebreak del terzo set, il secondo perso nettamente contro i Bryan, dominatori della specialità almeno fino all’anno scorso. Bolelli e Fognini si erano guadagnati la qualificazione alle ATP Finals vincendo l’Open d’Australia a gennaio, e prima di lasciare il torneo sono riusciti a vincere una partita contro Bopanna e Mergea. I campioni, alla fine, sono stati Jean-Julien Rojer e Horia Tecau. Olandese il primo, romeno il secondo, hanno vinto il torneo di Wimbledon e hanno scalzato i gemelli Bryan dal primo posto del ranking.

Horia Tecau e Jean-Julien Rojer, due che a rete non sono malaccio.

Le curiosità

Un’altra cosa che impressiona delle ATP Finals è che, anche se è il torneo dei migliori, ci sono sempre (altri) migliori fra questi. Così, quando lo speaker in sala stampa annuncia l’arrivo del giocatore in sala interviste, ci sono due tipi di reazioni. Se lo speaker pronuncia il nome di Federer, o Nadal, o Djokovic, ci si produce in uno stop alla digitazione sui computer e in uno scatto repentino verso la porta della sala. Se invece il nome è quello di Ferrer, qualche spagnolo si alza svogliatamente per fargli due-domande-due, quasi per compassione («Com’è andata?», «Trovi che il tuo avversario sia migliorato molto?»). Anche Murray qui ha fatto notizia, anche perché il britannico deve giocare in Coppa Davis e prima delle finali ATP era indeciso se giocarle o meno, proprio per prepararsi al meglio sui campi in terra battuta di Gent dove da venerdì prossimo si giocherà la finale fra Gran Bretagna e Belgio. Ma più che per le sue prestazioni, si è parlato di Murray per quello che faceva fuori dal campo. Durante il match con Nadal, si è tagliato una ciocca di capelli in campo, e i giornalisti in sala stampa erano particolarmente eccitati all’idea di chiedergli il significato del gesto simbolico. Lui ha risposto soltanto: «Non capisco la curiosità: mi dava solo fastidio alla vista e l’ho tagliata».

L’esperienza Federer

Dare un senso alla passione per il tennis significa assistere (anche) a una partita di Roger Federer dal vivo. La parte in cui lo speaker presenta il suo avversario dura pochi secondi: difficile trovare uno più titolato di lui nel circuito. Quando è toccato a lui, pareva di assistere alla presentazione di Apollo Creed contro Rocky Balboa. Roger si è presentato alle Finals vestito di nero, confermandsi icona, nel look e nei colpi, del tennis elegante. E poi ci sono i “momenti Federer”. Sono quei momenti, infiniti per chi riesce a coglierli, in cui Roger riesce a bilanciare l’equazione campo-avversario-pallina con delle soluzioni che esulano dall’ordinarietà che domina il tennis moderno. La lettura di questi momenti va fatta guardando i volti degli spettatori, ebbri di gioia come di fronte alla manifestazione di una sacralità. Lo scarto fra l’esultanza a un punto fatto da Federer rispetto a un punto vinto da un qualsiasi altro avversario, fosse anche il numero uno del mondo, è ancora ampissimo. Forse, in questi anni dove i più forti giocano a tennis in maniera pressoché uguale, non è mai stato così ampio. Il tennis sopravviverà anche senza Roger Federer, ma forse sarà un po’ più noioso.

 

Nell’immagine in evidenza, Novak Djokovic con il trofeo appena vinto. Julian Finney / Getty Images