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Il calcio greco è sull'orlo dell'abisso: frodi, violenza, fallimenti, spettatori inesistenti, Nazionale in crisi, una Coppa cancellata. Come ci siamo arrivati?

«Un anno qui è come dieci in un altro club», ringhia nel suo inglese malconcio Gennaro Gattuso, dopo aver definito «100% malakia, tutte cazzate», le voci apparse sui giornali di un suo abbandono dell’Ofi Creta, in caduta libera e incapace di pagare stipendi a giocatori e staff tecnico. Cento giorni dopo quella movimentata conferenza stampa, che già suggeriva il destino del club e tratteggiava quello di tutto il calcio greco, l’ex centrocampista del Milan lascia definitivamente la panchina. La travagliata e deludente esperienza di Palermo deve essergli sembrata un apprendistato senza patemi, a confronto. Zamparini, un presidente ordinario. Era il 21 settembre 2014, e nel massimo campionato greco tutte le 18 squadre iscritte continuavano a scendere in campo regolarmente.

 

Basta giocare

Un mese dopo il Niki Volos, tornato in Serie A a quasi mezzo secolo dall’ultima volta, non riuscirà neppure a cominciare il match di Coppa di Grecia contro lo Zacinto perché incapace persino di pagare la terna arbitrale: 3.600 euro. La puzza di fallimento, per la squadra e per il calcio ellenico, si fa sempre più forte. Guardandosi in giro, si capisce che il problema non è isolato, e non riguarda solo i piccoli club. Il virus è stato incubato a lungo e il contagio esplode quando la crisi finanziaria colpisce definitivamente il Paese reale. Ben prima di Tsipras, da almeno un paio d’anni, il calcio greco mostrava le ferite già infette. Tutto stava già scritto nella vicenda dell’Aek di Atene, la terza grande della capitale, retrocessa nel 2013 per debiti che – secondo quanto ricostruì la stampa greca – ammontavano a circa 170 milioni di euro in tasse non pagate. Semplicemente, lo Stato non poteva più chiudere gli occhi e aprire i suoi forzieri per foraggiare – come fino ad allora e un po’ ovunque in Europa – quel mondo malato.

Oggi l’Aek è riuscito a risalire nella massima divisione, che però nel frattempo ha smarrito per strada due squadre, senza sostituirle. Il Niki Volos, appunto – che l’anno scorso ha perso a tavolino le ultime 20 partite perché tra stipendi non pagati e spese di gestione non riusciva a scendere in campo – e l’Ofi Creta, ormai non più di Gattuso. Dopo il suo addio fatto di dimissioni e ripensamenti («io sono il conduttore della barca e non abbandono la barca», diceva l’ex milanista), il 2015 del club si apre con una sostanziale impossibilità di scendere in campo. Inutile il tentativo di ricorrere ai primavera dopo la fuga di una ventina di giocatori, stufi di non ricevere gli stipendi: a sei giornate dalla fine del campionato, l’Ofi Creta di fatto si ritira, condannandosi a ripartire dalla terza divisione. Gattuso assicurava ai cronisti greci di sapere della difficile situazione finanziaria del club fin dall’inizio: «I want my players play with balls», senza piagnucolare per i bonifici che non arrivano. La sua grinta non è bastata. «Siamo vittima di un sistema, affondiamo per permettere ad altri di restare a galla», si sfogherà dopo la bancarotta il d.s. Nikos Machlas, ex bomber dell’Ajax e bandiera del club. I circa dieci milioni di debiti accertati, per una squadra di quelle dimensioni, non potevano lasciare spazio a un esito diverso senza un colpo di spugna – o almeno una mano tesa – dello Stato. Che nel frattempo, però, aveva qualche altro grattacapo: non il fallimento dell’Ofi, o del calcio greco. Quello della Grecia.

Meno siamo meglio stiamo

Perse due squadre per strada, quest’anno la lega calcio di Atene decide di restare a 16, in un faticoso tentativo di ritrovare sostenibilità. Pazienza se a metà aprile il campionato sarà già finito: perché in fondo, poteva pure non cominciare. Paradosso? Nei giorni caldissimi del luglio scorso – quelli del referendum che aveva scelto un’altra Grecia – a pensarci erano in tanti, seppur con un certo pudore. Non è un caso che il mondo del calcio, come quasi tutti i greci, si fosse schierato in modo piuttosto esplicito: magnati da una parte, tifosi (per lo più) dall’altra. Iniziative a sostegno del No erano state lanciate dalle tifoserie organizzate di Aek e Paok sul loro sito, e da quella del Panathinaikos con striscioni allo stadio. Dopo quell’Oxi votato e rovesciato, il calcio ellenico è ripartito da dove aveva lasciato. Con meno soldi, ma sostanzialmente gli stessi problemi e – al momento – poche prospettive di superarli.

 

Tasche vuote, stadi pure

Tra le altre squadre che il calcio greco si è perso per strada c’è l’Aris Salonicco, il club più titolato lontano da Atene, costretto a festeggiare il centenario in terza divisione dopo il fallimento del 2014. Lì, come in tanti altri club, il modello di partecipazione dei tifosi alla proprietà assicura appartenenza ma – almeno adesso – non certo liquidità. Senza la gente allo stadio, o in poltrona a guardare la pay tv, il calcio professionistico non esiste. La faticosa sopravvivenza del campionato greco dipende anche da questo. Più degli incassi, però, serve far vedere che i tifosi – malgrado tutto – non lo abbandonano. Così l’Olympiakos, il gigante di Grecia, ha promosso quest’anno abbonamenti scontati fino al 50%, altre squadre persino abbonamenti a rate, e poi sconti ai disoccupati, biglietti gratis per i bambini, agevolazioni d’ogni tipo. Perché il crollo di presenze negli stadi è verticale, e il picco – temono i club – con l’arrivo di nuove misure di austerità potrebbe non essere stato raggiunto. Nell’anno successivo alla vittoria dell’Europeo, il 2004, con l’euforia nelle vene e il movimento in spinta, la media di quelli che la domenica (o giù di lì) la passavano sugli spalti era di quasi seimila persone a partita. Un trend rimasto in crescita fino ai 7.622 spettatori medi del 2009. Oggi, la cifra è crollata a meno della metà, ripiombando ai livelli precedenti alla vittoria in Portogallo. Se si escludono le grandi, la media si dimezza ancora: 12 squadre su 18 l’anno scorso non facevano più di 1.500 spettatori paganti. Per capirci, decisamente dietro la nostra serie B. Gli stadi si riempiono ormai solo per i grandi derby. Che però, non di rado, finiscono come Panathinaikos-Olympiakos di novembre, annullata dopo che un giocatore ospite è stato colpito da un fumogeno durante il riscaldamento e finita sui giornali solo per la battaglia tra ultras e polizia. I disordini esplosi in Coppa durante Paok-Olympiacos del 2 marzo hanno convinto il ministro dello Sport a cancellare la competizione.

 

Una partita truccata

A molti di quelli che vorrebbero andare allo stadio, oggi, mancano i soldi per farlo. Ma un sentimento di tanti – addetti ai lavori e semplici tifosi – è anche la sfiducia nel sistema. In altre parole, l’idea che in fondo sia tutto un bluff. Negli ultimi 20 campionati, l’Olympiakos ha vinto 17 volte. Nella Coppa nazionale, 6 trofei degli ultimi 10 assegnati. Sul fatto che in Grecia sia la squadra più forte non ci sono dubbi. Parlano i numeri: quest’anno, nel girone d’andata, addirittura 15 successi su 15 e un altro scudetto già in tasca. La questione, per molti, è come l’Olympiakos sia arrivato a questo strapotere. Soprattutto negli ultimi anni. L’armatore Evangelos Marinakis, che ha acquistato il club nel 2010, è finito sotto inchiesta con accuse che vanno dalla frode alla corruzione all’associazione a delinquere. Per i magistrati, che indagano fin dall’anno successivo al suo sbarco nel Pireo, è una delle figure chiavi della Calciopoli greca. Uno scandalo che ricorda molto da vicino quelli che negli anni recenti hanno colpito i campionati di altri Paesi mediterranei – dall’Italia alla Turchia – con cui la Grecia condivide l’assenza di anticorpi ma forse non le risorse per la cura. Arbitri, dirigenti di club e di lega indagati per partite truccate, l’ex presidente della Federazione, Giorgios Sarris, costretto a dimettersi a dicembre 2014 e che ora non può neppure espatriare, una sensazione diffusa di giocare con un mazzo truccato. In questo clima, l’Olympiakos ha messo sempre più distanza tra sé e le altre, che – come nel caso del Panathinaikos – parlano senza mezzi termini di “sistema corrotto”. Eppure, non è stato sempre così. Prima di questo ventennio, come scudetti la squadra del Pireo era pari col Panathinaikos – primo invece nelle coppe di Grecia – e ne aveva solo uno in più dell’altra grande storica, l’Aek, che però non vince dal 1994. Insomma, era una competizione equilibrata, più avvincente per i tifosi e più credibile per gli spettatori.

Fuori dall’Europa

In un filo che appare dipanarsi chiaro, tutto questo si riflette anche sulla competitività delle squadre fuori dal campionato ellenico. Nell’anno dell’Europeo vittorioso, in Champions League c’erano 3 squadre greche. Negli ultimi otto, al massimo una. Così il campionato è sprofondato al 14esimo posto nel ranking Uefa, e sempre meno squadre – salvo un’inversione di tendenza di cui non si vedono i presupposti – paiono destinate a entrare nelle competizioni europee. È come se il calcio greco fosse tornato indietro di vent’anni. Nel 2008/09, prima della crisi, la Serie A ellenica era undicesima per investimenti nel mondo, con quasi 100 milioni di euro spesi sul mercato. Ora è ventesima, anche in questo dietro la nostra Serie B, e ventunesima per stipendi dei calciatori.

 

La grande crisi (di risultati)

Il corollario della crisi sono i gol di Hallur Hansson e Brandur Olsen. Dopo aver già vinto all’andata fuori casa, a giugno 2015 le Isole Far Oer hanno messo ko la Grecia anche nella partita di ritorno delle qualificazioni a Euro 2016. Due sconfitte su due in un girone disastroso, dalle lacrime fatte versare a Figo e compagni a quelle di gioia regalate ai tifosi venuti dal freddo. Due c.t. dal 2001 al 2014, quattro negli ultimi due anni. Nel ranking Fifa la Grecia era 11esima nel 2012, ora occupa il 41esimo posto. Pure con alcuni talenti in giro, è la bussola che sembra mancare. E dodici anni dopo la vittoria in Portogallo, rimpiazzare la generazione dei Karagounis, Katsouranis e Charisteas non sembra più di una speranza.

 

In tutte le immagini, scontri tra tifosi e polizia durante un match tra Olympiakos e Panathinaikos, nel marzo 2012 (Aris Messinis/Getty Images)