Questa storia inizia tra vent’anni in due posti diversi del mondo: in una capanna affacciata sul mar dei Caraibi, al largo di quel porto di mare da favola che è Santa Marta, e su un volo da Madrid a Londra, in business class. Nel primo scenario, il protagonista è un uomo intorno ai cinquant’anni, barba e capelli lunghi e brizzolati, come quelli di un santone, a fare da contorno a un sorriso riservato, quello di chi vorrebbe vivere da eremita, ma è consapevole di ciò che rappresenta per la gente del luogo. Attorno a lui, uno stuolo di ragazzi con indosso magliette della Nazionale di calcio colombiana, molti dei quali accompagnati dai padri, ancora più emozionati di loro. Il “santone” firma libri che in copertina hanno la sua foto da ragazzo, quando la barba era rada e i capelli erano neri e fluenti, e che raccontano la storia della sua vita, quella di un’ascesa rapida e inarrestabile e di un’altrettanto rapida discesa. La storia di un declino che gli ha insegnato tutto ciò che sa oggi della vita, e che da idolo l’ha trasformato in un simbolo.
Nel secondo scenario un altro uomo sulla cinquantina, aitante, vestito come un affarista in vacanza, giacca e camicia in ordine ma cravatta slacciata. Fronte spaziosa, folti baffi, numerose lentiggini sul viso, il fisico di chi si mantiene ancora in forma col jogging. Il volo è appena decollato e lui indossa quello che tra 20 anni sarà l’evoluzione di un paio di Google glass. Sa perfettamente che gran parte del resto dei passeggeri lo sta fissando, certa di averlo riconosciuto, ma il suo caffè era freddo stamattina e lui non ha affatto voglia di firmare autografi. Perciò non accenna minimamente a un sorriso, mentre sfoglia virtualmente le foto delle ultime vacanze. Finché non ne spuntano alcune vecchie più di 20 anni, che lo ritraggono mentre solleva e bacia la Coppa del Mondo e, tra queste, un meme di lui impegnato a fissare una porta da calcio dalle dimensioni ciclopiche, nella speranza di riuscire a centrarla. Quella foto l’ha conservata apposta perché un tempo lo fece inviperire, ma proprio nel giorno in cui, finalmente, guardandola non provò più niente, capì che la sua storia avrebbe superato il rettangolo verde, e che sarebbe stato pronto per la speculazione edilizia, o quello che è il suo campo ora, non ci è dato sapere.
Negli occhi di chi li osserva tra vent’anni, El Tigre ed El Niño, più di un secolo in due, sono grandi campioni del passato e, come tali, inseguiti da media e pubblico come se fossero sempre stati due vincenti, eppure ciò che li accomuna è il fatto di avere avuto una carriera più lunga del loro status di miglior centravanti al mondo. C’è da capirlo, questo mondo, per non aver avuto tatto e pazienza: erano gli anni di Cristiano Ronaldo e Leo Messi (che tra vent’anni gioca ancora, perché qualcuno l’ha clonato), gli anni in cui un vincente era un vincente costante, in cui il declino iniziava dopo i trent’anni, e non prima. Gli anni in cui un deprezzamento del proprio valore di mercato significava diventare pressappoco l’unico a opporsi al fatto che la tua carriera fosse finita. Non come ora che vali tutti i like e le visualizzazioni che riesci a notificare. Il resto erano panchine, articolacci, meme (alcuni molto divertenti a dire il vero), reti bianche, aspettative.
Aspettative che hanno creato loro stessi, conquistando il mondo a furia di pallonate e gol che in qualsiasi altro momento sarebbero sembrati impossibili. Fernando Torres si impone sulla scena europea prestissimo con numeri da capogiro: dai 18 ai 23 anni, con la maglia dell’Atletico Madrid, mette a segno 83 centri in 201 partite. E questo escludendo i numeri della Segunda Division, con i quali si supererebbero le 90 reti. Poi a 23 anni arriva a Liverpool, nella fatidica stagione 2007/08, la migliore della sua carriera, in cui sigla 33 reti in 46 presenze. Reti perlopiù impossibili.
Tutti i 33 gol di Fernando Torres nella stagione 2007/2008
Atleticamente e tecnicamente El Niño è inarrestabile: grande passo, incredibile resistenza, tiro devastante, visione della porta quasi periscopica, una capacità di trasformare qualsiasi pallone in gol, si muove su ritmi sovrumani. Non si è mai visto niente del genere in Premier League. Nella sua seconda stagione ai Reds un fastidioso infortunio alla coscia riduce la sua media gol portandolo a segnare “solo” 17 reti in 38 gare, ma nel 2009/10 è pronto a rifarsi con un ruolino di 22 reti in 32 partite. Quando nel gennaio 2011 Torres passa al Chelsea per 50 milioni di sterline, ha ancora 26 anni e teoricamente è solo alla vigilia del picco della sua carriera.
Invece da quel giorno la storia di Fernando cambia: paradossalmente è al Chelsea che vince i suoi primi trofei importanti (senza contare i tre titoli che vince con la Nazionale nel giro di quattro anni) ma la sua media gol scende, mentre si alza la media degli sbagli sotto porta. Negli anni dei Blues Fernando vive un vero e proprio blocco creativo, si scopre fallibile e insicuro, talvolta prezioso ai fini del gioco di squadra, ma un parente lontano di quel bersagliere incisivo dei tempi di Liverpool. E quel che è peggio, la considerazione che l’ambiente ha di lui scende al livello di quella che si concede a un attaccante normale, che in questo caso però viene pagato come uno dei massimi top player in circolazione. La pressione può diventare insostenibile.
In realtà ciò che Torres paga sono i numeri, di tutto rispetto considerate le 46 reti in tre stagioni e mezzo, ma comunque di gran lunga inferiori a quelle benedette aspettative di cui sopra, agli echi del 2007/08, al top del top della sua carriera, Dopo il Chelsea, il declino. 11 reti in due anni tra Milan e il suo ritorno all’Atletico Madrid, e l’etichetta di giocatore onesto affibbiatagli a soli 30 anni. Nei fumetti Marvel esiste un personaggio ridicolo chiamato Gladiatore. Si tratta di un alieno con la cresta punk, la pelle viola e il mantello alla Superman (del quale ricalca anche i poteri). L’unica cosa più assurda del suo look è che se egli crede in se stesso è l’essere più forte dell’universo, se invece perde la fiducia nelle sue capacità, se perde il senso di ciò che sta facendo (e nel caso di un calciatore talvolta basta che venga meno il senso del divertimento), anche un bambino di sette anni può metterlo al tappeto. Quello che è successo al Niño, probabilmente, non è diverso.
Nella parabola discendente del Tigre, invece, sono all’opera forze molto più esterne e subdole. Nel suo caso non c’è una stagione irripetibile dal punto di vista della forma e dei numeri che fissa uno standard difficile da mantenere, no: ve ne sono ben quattro. Se infatti i suoi numeri nei quattro anni al River Plate erano stati notevoli ma tutto sommato indispensabili per venire notati dal calcio europeo (45 reti in 105 gare), il meglio di Falcao inizia proprio all’età in cui inizia la fase discendente di Fernando Torres. A 23 anni infatti Radamel passa al Porto e da allora sono 34 gol in 43 presenze nella prima stagione e addirittura 38 in 42 apparizioni, nella seconda. Considerato che già in quegli anni i Messi e i Cristiano Ronaldo collezionano numeri da urlo, ma giocando nel ruolo di se stessi, cioè per gli alieni che sono, si può dire che dal 2009 al 2013 l’Europa abbia visto in Falcao l’elemento calcistico più simile a quei due nei limiti di un solo ruolo e definito: quello del centravanti.
Potente fisicamente nonostante non raggiunga il metro e 80, rapido e dotato di una progressione sorprendente, oltre che di un tiro magico capace di inventare occasioni dal nulla, el Tigre non scende mai sotto i 34 gol stagionali (36 gol in 50 presenze nella prima stagione e 34 in 41 apparizioni, nella seconda). Tutto questo sollevando trofei e spesso vincendo le partite da solo.
I 70 gol di Falcao nel biennio a Madrid
A questo punto entra in scena un altro personaggio, che nel calcio viene chiamato al plurale e che suona come una di quelle sette esoteriche degne di un pulp magazine degli anni ‘30: le Terze Parti. Ovvero enti economici che acquisiscono diritti sulle tue prestazioni pagando parte dei tuoi costi (i quali dopo 142 gol in 4 anni schizzano nell’iperspazio) e agevolano il tuo passaggio in club che tendenzialmente non vengono decisi da te. Come il Monaco neopromosso in Ligue 1 nel 2013, dove per inciso Radamel segna 11 reti in 19 partite, finché non sopraggiunge un infortunio terribile che gli nega persino la gioia del Mondiale brasiliano, il primo dopo secoli in cui la Colombia è forte abbastanza da aspirare alle fasi finali. E con el Tigre lo sarebbe ancora di più. Da allora non è più tornato quello di prima. Negli ultimi due anni, fino al momento in cui vi scriviamo, solo 8 reti per quello che era stato l’attaccante più vicino ai numeri di Messi e Cr7. E quando deludi con indosso le maglie di Manchester United e Chelsea il tonfo che fai, quando cadi, fa più rumore.
A dire il vero, Falcao e Torres sono solo i nomi più eclatanti e recenti di giocatori la cui fiamma sembra spegnersi prima del tempo, o che perdono lo smalto che li aveva trasformati in pesi massimi mondiali. Si confrontino il Robin Van Persie dell’Arsenal con l’ultimo visto a Manchester, sponda United, o il Ronaldinho del Barcellona con quello del Milan. Ancora, il Kakà del Milan con quello del Real Madrid, o l’Oba Oba Martins del bienno 2004-2006 con l’Oba Oba Martins di qualsiasi altra stagione a partire da allora.
Che la colpa sia degli infortuni, della struttura fisica di chi non può permettersi determinati livelli per più di cinque anni, o di un allenatore a fine ciclo, di una paura del vuoto che a un atleta non viene concessa, di un fondo di finanziamento che decide per te o persino di un Saturno opposto, non viene considerato rilevante ai fini della cronaca. E tutto ciò che rimane è l’eco vagamente denigratoria di borbottii delusi, un atterraggio in ginocchio per chi era decollato sulla punta dei piedi. Eppure il calcio è un gioco, e nonostante a volte pretenda che chiunque partecipi non si accontenti di partecipare e basta, nonostante spesso forzi questi partecipanti ad accettare i ricatti di tutto ciò che il gioco assorbe (e che gioco non è), non si può dire che non riservi dei benefici a chi sa sopravvivere ai suoi capricci.
I più bei gol di Falcao
Nel futuro infatti, quando le condivisioni dei meme e dei de profundis calcistici esauriranno la loro viralità, su Youtube sarà più facile trovare compilation di tuoi bei gol, che di tuoi fail. Wikipedia, o qualsiasi cosa l’avrà sostituita dopo che l’ennesimo appello a donare un euro sarà diventato l’ultimo, riporterà il tuo palmarès e non le tue panchine. Andatelo a dire allora, a Radamel Falcao e a Fernando Torres, che per loro il calcio è stato solo blocco dello scrittore, una parabola discendente. Andatelo a dire agli undici trofei vinti prima dei 27 anni dal Tigre con tre maglie diverse, e ai record da cannoniere siglati con il Porto o con la Nazionale colombiana. O al tris di coppe vinte dal Niño con la maglia delle Furie rosse, agli 81 gol segnati a Liverpool in neanche quattro stagioni e alla Champions League del 2012 conquistata con la maglia del Chelsea.
Le migliori reti di Torres a Liverpool
In quel futuro in cui a Torres e Falcao viene riconosciuto ciò che hanno dato, sarebbe bello se il declino di un calciatore non fosse per forza legato a un giudizio sommario, al presunto momento in cui viene sancito il fallimento della sua carriera. Ci sono esistenze che si sublimano nel calcio, ed esistenze che nel calcio vivono una fase di apprendistato per quello che sarà il resto della loro vita: garantirgli il diritto al declino è il minimo che potremmo fare, per rallegrarci di non essere tutti delle macchine. Tanto più che, se declino c’è stato, vuol dire che qualcosa al gioco lo si è regalato. Da suoi spettatori, da innamorati, ce ne ricorderemo guardando indietro. E sarà bello provare un senso di gratitudine.