Conte, nonsense di una fine

La Nazionale si avvicina all'Europeo in un clima di smobilitazione, acuito dalla presenza di un ct assillato dal bisogno di cambiare aria.

Se ne va, sbattendo la porta. Lui si sentiva soffocare, lei aveva smesso di sentirsi amata. E allora finiamola qui, è meglio per tutti. Antonio Conte ha già detto addio all’Italia. Ancora prima di cominciare a fare sul serio, anche prima della buona e della cattiva sorte. Un divorzio all’italiana. Ciao Antonio. Coi piatti che volano e i vestiti gettati dalla finestra. Questi Europei dovevano essere un orizzonte di felicità, un momento per tornare a sognare dopo gli incubi del Mondiale in Brasile, un modo per riguardare le cose coi colori della gioia. Azzurri, mica azzurro tenebra. Tutti insieme. Appassionatamente, come si fa ogni volta ai grandi eventi. Avrebbero voluto lavare i panni sporchi in famiglia giù in Federazione, concordare un saluto in grande stile come da tradizione. Ti giochi il titolo in Europa e poi te ne vai, ok? E invece quello del ct che si presenterà in Francia con la valigia in mano è diventato un romanzetto lumpen. Troppo crudo per digerirlo così. Dietro tutto questo ci siamo noi, che all’Italia teniamo, che l’amiamo, e vorremmo non venisse maltrattata proprio adesso che ne avvertiamo il bisogno. E invece. «La Nazionale non conta niente», ha detto Conte. Una pugnalata alla schiena.

Antonio Conte durante la conferenza pre Germania-Italia (Christof Stache/AFP/Getty Images)
Antonio Conte durante la conferenza pre Germania-Italia (Christof Stache/AFP/Getty Images)

L’uomo degli addii

A un certo punto l’irrequietezza di Conte è diventata uno status symbol, un marchio di fabbrica. Un modo di essere preciso. Oggi lo riconosciamo. Ma è così che è sempre stato. Anche agli albori della sua avventura di tecnico, Conte non è mai stato diverso, un uomo con le rughe tirate e l’arrabbiatura facile. Anno 2006, da settembre a fine ottobre: la prima parentesi con l’Arezzo in Serie B durò due mesi appena. Venne esonerato e richiamato, restò altri tre mesi e se ne andò di nuovo sbattendo (anche quella volta) la porta. Disse del presidente Mancini: «Prima mi ha esaltato e poi mi ha bollato come allenatore della retrocessione. Ha detto che non ci metto il cuore, spero ce lo metta lui». Con l’Arezzo arrivò ultimo e Conte diede la colpa proprio alla sua Juventus, la squadra che l’aveva allevato e cresciuto da calciatore, il club che quell’anno per via di Calciopoli scontava la storia in Serie B. All’ultima giornata i bianconeri persero in casa contro Lo Spezia, che andò ai play-off condannando i toscani a finire nel girone infernale della Lega Pro. Ma la vita va avanti, e Conte andò a Bari al posto di Materazzi. Conquistò una promozione trionfale l’anno dopo, gioia infinita, ma al momento del rinnovo del contratto con Perinetti e Matarrese qualcosa non andò come previsto e l’allenatore cambiò un’altra volta. In peggio. A Bergamo tra lui e Cristiano Doni furono scintille sin dal primo giorno. Il giocatore nerazzurro comandava lo spogliatoio, e figurati con Conte. Disse più tardi in un’intervista: «Doni ha detto che io l’ho aggredito a Livorno? Doni è grande e grosso. Aggressione verbale? Sono cose di spogliatoio. Doni doveva pensare a fare di più il calciatore. Il problema è che qualcuno si sente Dio in terra, si crede intoccabile». Conte fece 13 punti in 13 partite, «un ruolino di marcia senza infamia e senza lode» riconobbe. Diede le dimissioni, finì in rissa con gli ultrà, lasciò sul tavolo 600mila euro. E fu così anche alla Juventus. Conte lasciò due giorni dopo l’inizio del ritiro estivo. Vedute differenti con la società, malintesi, musi lunghi. Di più. «L’Europa? Con 10 euro non si mangia in un ristorante da 100». L’avventura alla Juventus durava da tre anni e molti scudetti.

Antonio Conte e Carlo Tavecchio al Dacia Stadium (Giuseppe Cacace/AFP/Getty Images)
Antonio Conte e Carlo Tavecchio al Dacia Stadium (Giuseppe Cacace/AFP/Getty Images)

Mediaticità

C’è sempre un punto di non ritorno nei legami sportivi di Conte, un momento in cui le cose non vanno come aveva previsto lui. E allora si arrabbia, pesta i piedi e lascia. Ha detto: «Tutto finisce, ma alla fine mi devo incontrare con delle persone che poi posso guardare in faccia, l’ho sempre fatto e sono orgoglioso di come sono». La scelta di gettare le carte sul tavolo a due mesi dall’Europeo è (per certi versi) comprensibile. Sentiva il bisogno di tornare ad allenare una squadra tutti i giorni, che c’è di male? Lo ha voluto il Chelsea, lui ha detto sì. Non c’è nulla di strano. Soprattutto in un mondo in cui le informazioni galoppano come il vento, difficile riuscire a tenere segreta la notizia del suo accordo in Premier League. È tutto il resto a rendere il siparietto assurdo. «Dopo la qualificazione agli Europei, a ottobre, sarà stata la gioia, il fatto di creare un gruppo di calciatori affiatato, ma ero pieno di soddisfazione. In quel periodo ho valutato se c’era la possibilità di andare avanti, ma poi sono passati altri 4 mesi ed è stata veramente dura. Stare 4 mesi senza fare niente e pensare ad altri due anni così… ho avvertito una difficoltà. Bisogna capire dove si è felici. Io sono felice qui ma so anche che farei molta fatica a stare in garage». Steve Jobs in garage ci costruì il futuro. La Nazionale è un’altra cosa, e va bene. Abituate alla sovraesposizione mediatica, le nuove generazioni (di giocatori, di allenatori, di dirigenti probabilmente) soffrono di questo silenzio intorno alla Nazionale. L’attenzione si risveglia qualche volta l’anno, e poi più. Viene meno il concetto di show, e i protagonisti soffrono. Hanno bisogno di luce, di riflettori, di palcoscenici. Del «profumo dell’erba tutti i giorni», come dice Conte, e di tutto quello che quel vento al profumo di rugiada si porta appresso.

Durante Italia-Romania a Bologna (Claudio Villa/Getty Images)
Durante Italia-Romania a Bologna (Claudio Villa/Getty Images)

La fine

Al Mondiale dell’82 le polemiche intorno alla squadra fecero bene, portarono al successo. E così accadde nel 2006, dopo Calciopoli, con Marcello Lippi che dovette proteggere il gruppo dagli attacchi della stampa. Questa volta è diverso. Il problema è interno, e non c’è felicità che tenga. Le polemiche questa volta nemmeno serviranno a rafforzare le convinzioni all’interno. Perché, come ha detto lo stesso Conte, «l’Italia è di tutti, mica solo mia». L’Italia è di tutti, è questa l’utopia più grande. La Nazionale è sempre stata di qualcuno, di Bearzot o di Lippi, di Zoff, Vicini, Trapattoni o di Prandelli. È di chi la gestisce, di chi le dà un senso, un’anima e un talento. Per noi, sì, che la guardiamo e la critichiamo. La Nazionale è sempre stata di chi ne ha voluto il peso e la sua responsabilità. L’Italia è sempre stata del ct, la figura di riferimento che la prendeva per mano per farla diventare grande. Se l’abbandoni, che razza di esempio sei? Sì, però, ha detto Conte: «Abbiamo lavorato molto sulla maglia, sulla necessità del ritorno di quella voglia di vestire questa gloriosa maglia. Abbiamo lavorato tanto e abbiamo ottenuto dei risultati, nel bene e nel male si viene con grande voglia a vestire questa maglia». Niente di diverso da quello che sono costretti a fare gli altri commissari tecnici: cercare giocatori per centrare le qualificazioni ai grandi eventi. La differenza di Conte sta nell’idea che basti un attimo per dirsi addio. Anche se sono già passati quattro anni e tra poco ci sono gli Europei. E se li vinci, poi, resta un po’ quel magone da fidanzati (in)felici: potevamo darcela un’altra possibilità. Darebbe un senso a questa fine.

 

Nell’immagine in evidenza, Antonio Conte dirige un allenamento a Coverciano (Photo by Claudio Villa/Getty Images)