Golden State è nella storia

Steve Kerr, da allenatore, batte il Kerr da giocatore con 73 vittorie nella regular season. Ci è riuscito sconfessando il suo maestro: Phil Jackson.

I romantici vi lessero un accorato endorsement. I più scettici un omaggio dovuto, quasi obbligato, al suo fedele colonnello. Quando nel 2001 Phil Jackson ne profetizzò un luminoso futuro in panchina, Steve Kerr era un pentacampione Nba a fine corsa con tutt’altri pensieri per la testa. Un posto a bordocampo sì, ma da commentatore televisivo, e una comoda poltrona da dirigente, nell’Arizona che dal college l’aveva consegnato al grande basket. «Steve sarà un fantastico allenatore, se è quello che vorrà diventare», scriveva il coach Zen nel libro More than a game. Lui con Kerr sul parquet, silenzioso eppure strategico ingranaggio nei Chicago Bulls griffati Michael Jordan, aveva vinto gli ultimi tre dei sei titoli conquistati nella Città del vento. Una tripla allo scadere del biondino in canottiera numero 25 aveva deciso la finale del 1997 contro gli Utah Jazz di Karl Malone e John Stockton. E, più in generale, la sua funzionalità al sistema jacksoniano l’aveva reso un elemento chiave. A tratti imprescindibile.

Erano i Bulls dei record, individuali e di squadra. Capaci di vincere in una sola stagione, a cavallo tra il 1995 e il 1996, 72 partite su 82 in regular season, massimo storico nella Nba. Quel record è durato vent’anni, innominabile, inafferrabile, impolverato come un souvenir che appartiene a un’altra epoca. E mentre il mito cresceva, i suoi protagonisti battevano nuove, inesplorate strade. Jordan si congedava due volte dalla pallacanestro giocata e diventava proprietario dei Charlotte Bobcats (poi Hornets). Jackson apriva e chiudeva un ciclo ai Los Angeles Lakers, condito da cinque titoli in una dozzina di stagioni, prima di prendere le redini dei New York Knicks in veste di presidente. E Kerr? Kerr dava ascolto al suo vecchio mentore.

Steve Kerr ai tempi dei Bulls: il suo canestro decisivo, contro Utah, nel 1997

Dopo gli excursus a Tnt (analista tv) e Phoenix Suns (President of basketball operations), l’uomo da Beirut muoveva i primi – e per niente timidi – passi da allenatore. Approdato sulla panchina dei Golden State Warriors nell’estate del 2014, tra qualche mormorio dovuto alla mancanza di esperienza e al lauto quinquennale da 25 milioni di dollari, ha dapprima conquistato il titolo, riportandolo a Oakland 40 anni dopo. Quindi ha iniziato a coltivare quella folle idea. Vittoria dopo vittoria. Ventiquattro successi su altrettante partite per inaugurare la stagione 2015-16, già questo un record a ben vedere. Trentasette al giro di boa. I paragoni via via più insistenti, il pensiero che si fa ossessione. Per commentatori, tifosi, ma non per lui: «Non capisco perché la gente dia tanta importanza al record dei Bulls, a noi interessa solo il titolo Nba», ostentava Kerr a cinque match dalla fine. Da allora sono arrivate quattro vittorie e una sconfitta: 73-9 in regular season e il primato all time «quasi impossibile da battere» (ipse dixit nel dicembre 2013) battuto.

Kerr ora guarda tutti dall’alto, anche il vecchio Phil. L’allievo che supera il maestro, certo. Ma c’è molto di più: in quell’estate del 2014, prima di firmare il contratto con i Warriors, Kerr fu caparbiamente corteggiato dai New York Knicks guidati proprio da mr president Phil Jackson. Sul tavolo, tutti gli ingredienti per una storia degna di Hollywood, di quelle che tanto seducono Oltreoceano: il team un tempo glorioso in cerca di riscatto, l’allenatore più vincente di ogni epoca ora dietro la scrivania e il figliol prodigo in panchina a ripercorrere le sue orme. E invece no: Kerr cordialmente declinò, prendendo un po’ tutti in contropiede. Non una questione di soldi, si affrettò a precisare: le offerte economiche di Knicks e Warriors, in fondo, erano pressoché equivalenti. Addusse motivazioni familiari. Golden State gli dava la possibilità di stare a una manciata di chilometri dalla moglie Margot e dai tre figli, ma gli permetteva anche di lavorare in piena autonomia: una piazza meno assetata di risultati rispetto alla Grande Mela, una rosa qualitativamente superiore e – soprattutto – nessun diktat presidenziale. Allenare in quel di New York, infatti, avrebbe significato sottostare a una nemmeno tacita condizione: l’impiego del Triangolo, o Triple post offense, il sistema di gioco che Phil Jackson – da coach – aveva implementato nei Bulls e nei Lakers fino a farne una bandiera e che ora – da presidente – cerca forzatamente di cucire addosso ai Knicks. Con esiti rivedibili.

La vittoria del record: 125-104 contro Memphis

In Kerr il Maestro Zen aveva dichiaratamente individuato il proprio erede, l’uomo che – come scrisse in More than a game – avrebbe tramandato il Triangolo ai posteri della palla a spicchi. «Dedicated advocate of the Triangle», lo definì. Ma le sue aspettative sono state tradite. E non solo perché l’allievo nell’ormai lontano 2014 gli ha risposto picche, ma anche perché nei Warriors che hanno battuto il “suo” record di quel sistema di gioco c’è poco più che una traccia sbiadita. «Non ho mai avuto intenzione di impiegare il Triangolo», ha sentenziato a marzo Kerr. Chi ha provato a riprodurlo in toto, d’altra parte, non ha – per usare un eufemismo – lasciato il segno. Due sono i casi recenti e rispondono ai nomi di Kurt Rambis e Derek Fisher, rispettivamente – e non è un caso – ex assistente ed ex playmaker a Los Angeles di Jackson. Il primo s’è seduto sulla panchina di Minnesota nel 2009, e i Timberwolves, rispetto all’anno precedente, hanno visto il proprio net rating calare da un già mediocre -6,5 a un disastroso -10,4. Anche l’offensive rating è nettamente peggiorato, da 102,6 a 98,9. Il secondo è stato chiamato dallo stesso Jackson ad allenare New York nel 2014, dopo il gran rifiuto incassato da Kerr: il net rating di squadra, in regime di Triangolo, è crollato da -1 a -10 e l’offensive rating è passato da 105,4 a uno striminzito 97,1. Si trattava di due team modesti, è vero, già da tempo affetti da una drammatica emorragia di risultati, ma l’applicazione rigida del sistema, l’imposizione dei dettami jacksoniani da parte di due allenatori che di Jackson avevano solo e soltanto la benedizione, si è rivelata perlomeno dannosa. Replicare non paga, specie se mancano gli interpreti originali.

Come funziona il Triangolo di Jackson

Kerr lo ha capito ancor prima di cominciare. L’attacco di Golden State è qualcosa di diverso, qualcosa di nuovo, senza precedenti per materia prima e per logica di base: attinge anche al Flow predicato da Gregg Popovich e al Seven seconds or less di dantoniana memoria, si nutre della versatilità di Draymond Green, playmaker nel corpaccione di un’ala, e del genio di Stephen Curry, vive di ritmo, la difesa che alimenta l’attacco e viceversa. La grandezza di Kerr risiede proprio qui: non è il clone di nessuno. Ha rifiutato New York per poter sperimentare, per miscelare e riadattare in chiave moderna i concetti appresi in vent’anni di carriera. Per dare sfogo alla sua pallacanestro. Ha compreso che il solo Triangolo, che pure l’aveva reso grande da giocatore («Steve non avrebbe avuto un lavoro nella Nba se non fosse stato per la Triple post offense», si spinse a dire Jerry Krause, general manager dei Bulls che lo firmò nel ’93, scorgendone la funzionalità al sistema di Jackson), nel basket moderno è un azzardo titanico, al limite dell’anacronistico. Perché necessita di almeno un anno di rodaggio, e non sempre i vulcanici proprietari eccellono in pazienza; perché toglie il pallone dalle mani del playmaker, in una lega che dai playmaker è dominata; perché incentiva il tiro dalla media distanza a scapito delle triple, e anche qui la lega veleggia in direzione opposta. Se fino al 2011 la media dei tiri da tre tentati in una stagione dalle squadre Nba non aveva mai superato la soglia dei 1.500, nel 2012-13 si è arrivati a 1.636, nel 2013-14 a 1.766, nel 2014-15 a 1.838 e quest’anno a 1.948. Una tendenza chiara, di cui i Warriors si sono erti a orgogliosi portabandiera: nella regular season appena conclusa, i ragazzi di Kerr sono primi sia per numero di triple – 2.592 tentate e 1.077 messe a segno – sia per percentuale di realizzazione (41%).

Steve Kerr (Photo by Sean M. Haffey/Getty Images)
Steve Kerr (Sean M. Haffey/Getty Images)

Anche per questo, non riesce poi così difficile individuare il destinatario della frecciata scagliata da Jackson la scorsa primavera su Twitter: «Analisti Nba, datemi qualche dato su come le squadre three-point-oriented se la stanno passando in questi playoff. Seriamente, come sta andando?». Era il 10 maggio. Kerr e i suoi Warriors avevano appena perso gara-3 della serie contro i Memphis Grizzlies, andando sotto 2-1, e il buon Phil non pareva oltremodo dispiaciuto. Kerr, pungolato in conferenza stampa sulla questione, scoccò un sorriso e rispose con un serafico «I don’t care». Degno di un maestro zen. Aveva il dente avvelenato, Jackson. E con buona probabilità ce l’ha ancora: «Curry», twittava a febbraio, «non vi ricorda Mahmoud Abdul-Rauf?». Dieci anni spesi tra Denver, Sacramento e Vancouver, fine meccanica di tiro, un paio di stagioni sopra i 19 punti, ma non esattamente il paragone dei vostri sogni per un Mvp che viaggia a 30 di media.

Phil Jackson se ne rende conto. E come sempre quando si tratta di Kerr e compagnia prova a stare al gioco, con un’ironia velata d’amarezza. Lui, il coach più vincente di sempre, ripudiato e scalzato dall’erede designato. Che avrà anche solo due stagioni alle spalle, ma da quando s’è seduto in panchina ha messo insieme l’85% di vittorie, superando lo stesso Jackson. Un record pure questo, neanche a dirlo. Cifre che avrà tempo e modo di sporcare, ma che dicono molto dell’impatto che Kerr ha avuto sulla Nba. E allora tornano alla mente quelle parole: «Steve sarà un fantastico allenatore, se è quello che vorrà diventare». Parole che non erano un accorato endorsement. Non un omaggio dovuto al fedele colonnello. Ma un vero e proprio testamento, vergato nero su bianco. Kerr l’ha tradito. Ma tradendolo ha arricchito la pallacanestro. E anche il vecchio Phil, nel profondo, lo sa.

 

Nell’immagine in evidenza, Stephen Curry esulta durante un match alla Oracle Arena. (Lachlan Cunningham/Getty Images)