Alberto Gilardino

Il violino di Gila

Intervista ad Alberto Gilardino: l'Italia, la provincia, tutti i suoi viaggi e i suoi (tanti) gol.

Lo si dà per scontato, Alberto Gilardino: la sua costanza è monotona, anche se riguarda gol e prestazioni. Nonostante le difficoltà di questo Palermo, lui mantiene la serietà dei momenti migliori. Lui che il sacrificio l’ha imparato sulle montagne intorno a casa, nel biellese, dov’è nato nel 1982. Lui che è uno dei centravanti italiani più forti degli ultimi trent’anni.

Completo, svelto nel pensiero e nella coordinazione, pratico. Straordinario di spalle alla porta, sempre in contatto col pallone. Il suo gioco guizzante, frenetico, non è elegantissimo ma spaventosamente efficace. In sedici anni ha segnato oltre duecento gol in quasi seicento gare ufficiali. E sembra che la sua grandezza sia invisibile proprio perché è sotto i nostri occhi.

Tommaso Giagni: Se ti guardi indietro, che carriera hai avuto?

Alberto Gilardino: Beh, incredibile. Per il ragazzino che ero, per come sono cresciuto. Non ho rimpianti, dico solo grazie: per tutto quello che mi è stato dato, per la possibilità di giocare ad altissimi livelli. Grazie soprattutto a mia moglie e alle mie bambine, che sono fondamentali, ogni giorno, per continuare a vivere.

Inizi nella Splendor del tuo paese, Cossato. Poi vai alla Biellese per volere di Luca Prina, il tecnico che nel 2014 ha portato l’Entella in Serie B. Hai sempre giocato da attaccante?

Sì, da quando sono bambino. Il calcio è stato la mia passione fin dai due, tre anni. Mio padre lo praticava, ma a livello amatoriale. Lui e mia madre mi hanno supportato nelle scelte e hanno fatto sì che potessi esaudire questo sogno. A casa mia, o eri del Toro o della Juventus: io ero appassionato della Juve, andavo a vedere Baggio, Möller, Vialli. Poi è normale che questa cosa un po’ è svanita, giocando per sedici anni contro di loro, anche se alla Juve non ho segnato molti gol… Ti racconto un aneddoto.

Vai.

A undici anni andai in un campo organizzato dalla Juventus per giovani calciatori, al Sestriere. Durava una settimana. Il terzo giorno chiamai mio padre e gli chiesi di venirmi a riprendere: era molto dura, non ce la facevo a rimanere da solo. Solo due anni e mezzo dopo andai a Piacenza e cominciai il settore giovanile. La mentalità cambiò: il bambino era diventato ragazzo.

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È estremamente preciso, Gilardino. Dice: «Due anni e mezzo». Così come cita i numeri esatti della sua prima stagione fra i professionisti: «17 presenze e 3 gol». A portarlo in prima squadra è Gigi Simoni. A farlo esordire è Maurizio Braghin, che lo ha allenato in Primavera e ha avuto un ruolo cruciale nella scelta di Piacenza per la sua famiglia: abita a Cossato, è un punto di riferimento. Il 6 gennaio 2000, negli ultimi minuti contro il Milan, Gilardino entra in campo. La Serie A. Costacurta, che lo marca, scherza: «E tu da dove salti fuori?».

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A Piacenza esordisci a 17 anni. E resti in prima squadra.

Ho avuto la fortuna di trovarmi in un contesto del genere, una piccola realtà. Anche se era un calcio un po’ diverso: le squadre erano fatte di gente esperta, i giovani dovevano essere davvero forti per trovare spazio.

Che pensi dell’idea di farsi le ossa nelle serie inferiori, tu che pure hai sempre giocato in A?

I giovani devono giocare. Se non c’è spazio in A, consiglio sempre di andare anche nelle serie inferiori. Solo con l’esperienza, sul campo, puoi migliorare. Il campo è una scuola di vita.

Facciamo un salto in avanti: nell’estate 2014 vai in Cina per sei mesi. Firmi con l’Evergrande di Guangzhou, raggiungi Lippi e il suo staff prevalentemente italiano.

Venivo da una stagione importante a Genova, ma anche tormentata. Avevo lottato per tutta la stagione, per poter andare ai Mondiali in Brasile. Avevo giocato sei mesi con una mano rotta, avevo giocato con una spalla lussata. La convocazione non arrivò. Mi sentii stanco.

Ho sempre sognato di fare un’esperienza in un campionato estero, ma non avrei mai immaginato la Cina. C’è stata questa possibilità, mi sono detto: ho l’età giusta, sono pronto per provare, con un allenatore che mi voleva e mi conosceva. Ed è stata un’esperienza formativa, come apertura mentale: vivi in un mondo completamente nuovo, la cultura cinese è così diversa da quella occidentale. Per me, mia moglie e le mie figlie è stato bellissimo.

Doppietta in Chinese Super League contro il Dalian Aerbin e telecronisti cinesi esaltatissimi

Tu e Lippi siete andati via, ma a Guangzhou sono arrivati Jackson Martinez e Felipão Scolari. Pensi sia quella la direzione del calcio?

Il calcio è in evoluzione, là. Stanno arrivando giocatori, allenatori. Non si può nascondere che molto dipende dai contratti faraonici, ma in parte c’è un discorso tecnico: gente preparata come Lippi, Eriksson, Scolari, è una garanzia. Per adesso, comunque, campionati tipo la Premier sono ancora avanti rispetto a scenari come quello cinese o quello americano.

Ok, torniamo indietro. Dopo la stagione a Piacenza, vai a Verona per due anni. Fai le tue presenze, qualche gol. Soprattutto, nel 2001 insieme ad altri ragazzi sei coinvolto in un incidente stradale. La tua auto esce di strada e finisce nel fiume Sile. Ti fratturi lo sterno, 12 punti di sutura sul viso.

Ero un ragazzino, avevo appena preso la patente. Su una strada a doppio senso, che aveva il fiume sia a destra che a sinistra, la macchina si è ribaltata e siamo finiti in acqua. Fortunatamente si sono rotti i finestrini, siamo riusciti a uscire da lì. Dopo pochi minuti la macchina è affondata. È stato un miracolo. Avevo diciott’anni, giocavo in Serie A, mi sono detto: cosa devi fare della tua vita? Vuoi diventare quello che hai sempre sognato o lasciare che la tua vita sia portata dal destino?

Che rapporto hai con la religione? Sei cresciuto a pochi chilometri dal santuario della Madonna nera di Oropa.

E ho trascorso molto tempo con i miei nonni. I miei lavoravano e mi capitava spesso di dormire da loro. Avevo un bellissimo rapporto con mio nonno, che non c’è più, e con mia nonna, una donna molto religiosa. Mi ha abituato lei a pregare prima di dormire, e lo faccio ancora, è una cosa che mi è rimasta dentro.

Gilardino Alberto

In alcuni momenti della carriera sei stato seguito da mental coach. Che ruolo dài al sostegno psicologico nel calcio?

Durante le stagioni a Parma lavoravo spesso insieme a un amico. Ero all’inizio, mi ha aiutato molto. Negli ultimi anni ho conosciuto una persona che non chiamerei neanche “mental coach”: quando possiamo, ci vediamo e lavoriamo. Per giocare a calcio devi avere molta follia, soprattutto se sei un attaccante. La testa conta più di ogni altra cosa: il consiglio che do ai giovani è di lavorare molto sull’anima.

Quando arrivi nel calcio tu, è il momento in cui in Italia compaiono i super-uomini. Per doni fisici legati alla potenza, alla velocità. Da Ronaldo a Vieri, da Adriano a Ibra. Tu hai caratteristiche più normali, non hai in partenza un dono così evidente, e mi sembra che compensi con il lavoro.

Sì, assolutamente. Quella è stata la mia forza. Credo che la svolta sia stata a Parma, dove ho conosciuto un allenatore come Prandelli, che mi ha veramente cambiato: mi ha fatto lavorare tantissimo sul piano fisico, mi ha dato nozioni di gioco fondamentali a livello tecnico. E dopo tre anni importanti a Parma sono andato al Milan. Quelli che nascono campioni, si contano sulle dita di una mano. Gli altri si devono formare con il lavoro, il sacrificio. Non solo fisico, intendo, ma anche mentale. Il calcio è molto testa. Molto.

Gila ai tempi di Parma, musica di Robbie Williams

Sei nato il 5 luglio, come Crespo e Zola. Chi erano i tuoi idoli, da piccolo?

Batistuta, Vialli. E poi diventavo matto per il grandissimo Dario Hübner, collezionavo le figurine, tutte quelle cose là.

Forse è presto, ma se dovessimo parlare di eredi, quale giovane calciatore italiano ti ricorda un po’ Gilardino?

Non so. Dammi qualche consiglio te.

Paloschi?

Ah, sì, Alberto. Lui ha fatto molto bene, tanti gol. Credo abbia avuto molta fiducia in sé stesso nel provare un campionato diverso come la Premier. Con lui ho giocato al Milan, si vedeva già che aveva la tenacia e la forza per diventare giocatore.

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Nel primo anno a Parma, Gilardino è chiuso da Adriano e Mutu. Nelle due stagioni successive, tra i ventuno e i ventidue anni, segna 47 gol in 73 presenze in campionato. Entrambe le volte non è capocannoniere del campionato per un solo gol. Non lo sarà mai, anche se pare assurdo. Tra l’estate 2005 e l’estate 2006, tocca l’apice. Il passaggio dal Parma al Milan. La prova di forza con cui trova posto fra Shevchenko, Vieri e Inzaghi, giocando più di tutti e segnando 19 reti stagionali. La vittoria della Coppa del Mondo.

«Nel momento in cui non sento più la fiducia del primo giorno, mi faccio da parte. Dico: è ora di cambiare, provare un’altra avventura, ritrovare quella fiducia altrove»

Le due stagioni seguenti in rossonero sono a calare. Gli ultimi sei mesi li ha definiti «i peggiori di una carriera costantemente in crescita». Sì, il Milan vince la Champions League. Sì, lui gioca e segna. Ma gioca e segna di meno: la crescita costante si interrompe. Quella in rossonero resterà l’unica esperienza tra le grandi. Lascia il Milan perché considera inutile stare su una panchina prestigiosa, ha spiegato, meglio giocare: «Ho troppo rispetto delle mie sensazioni, dei miei sentimenti, del mio cuore».

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C’è una frase che hai ripetuto nella tua carriera, evidentemente quando sei stato bene: «Mi sento a casa». Negli anni però hai cambiato spesso luoghi: non hai trovato una “casa” stabile, o dopo un po’ senti il bisogno di cambiare aria?

Per la persona che sono, nel momento in cui non sento più la fiducia del primo giorno, mi faccio da parte. Dico: è ora di cambiare, provare un’altra avventura, ritrovare quella fiducia altrove. La fiducia da parte della società, dell’allenatore, dei compagni… la fiducia è determinante. Soprattutto per un attaccante.

Sono convinto che in futuro, ricordando Gilardino, lo focalizzeremo con addosso la maglia della nazionale. 57 presenze, 19 reti. Campione del mondo nel 2006. Un gol decisivo contro gli Stati Uniti nel girone, l’assist a Del Piero in semifinale contro la Germania. Campione d’Europa con l’Under21 e capocannoniere nella storia degli Azzurrini. Con l’Italia hai risolto una serie di cose che nei club, invece, sono andate e non sono andate.

Sì, credo di sì. C’è stato un periodo in cui mi sono sentito molto, molto importante con quella maglia. Sarei felice… veramente felice, se gli italiani mi ricordassero in questo modo.

Via il contropiede con Totti, dentro il pallone per Gilardino, eccetera

E questa Nazionale che va agli Europei, come la vedi?

Conte ha creduto moltissimo nei singoli. È un allenatore che ama il lavoro, un vincente. Penso e spero, perché sono tifoso dell’Italia, che potrà fare molto bene.

Dopo il Milan, i tre anni e mezzo a Firenze saranno felici. Sempre titolare, sempre in doppia cifra. In quel periodo ti prendi il record di reti segnate da un italiano entro i 26 anni. Una volta hai detto che il gol contro il Liverpool, a Anfield, è stato il più importante della tua vita.

Quello, sì. Per lo stadio, l’importanza della partita, per il calore che mi dava la gente di Firenze. Ma ce ne sono stati anche altri. Il gol col Milan in semifinale di Champions contro lo United, quello al Mondiale contro gli Stati Uniti. Li ricordo con gioia.

E te li vai a rivedere?

Ogni tanto sì, prima di qualche partita. Mi aiutano.

Sei a 187 gol in Serie A. L’obiettivo è quota 200?

L’obiettivo è farne di più: se penso di farne 200, non ci arrivo. Devo pensare di farne 210, almeno.

Gilardino

Ma è giusto valutare un attaccante sempre e solo dalle reti segnate?

Secondo me un attaccante non è solo i gol che fa. Per quanto mi riguarda, sono un attaccante che ha fatto gol, ma che comunque ha giocato per la squadra, per mettere i compagni nella condizione di segnare. Ho giocato anche per questo.

Da gennaio 2012 inizi a girare: Genoa, Bologna, di nuovo Genoa, poi la Cina, e il ritorno alla Fiorentina. Adesso Palermo, tu che non avevi mai giocato più a sud della Toscana.

È una realtà assolutamente positiva: grande passione per il calcio, gente molto, molto buona. Io e la mia famiglia stiamo davvero bene, Palermo ha tutto quello che si può desiderare per avere il miglior tenore di vita. La stagione è travagliata, ma stiamo lottando.

Come mantiene la tensione uno con la tua esperienza? E come vivi l’idea di avvicinarti alla fine della carriera?

Sono un calciatore giovane. C’è gente che ha quattro, cinque anni più di me, e sta giocando: questo mi tiene vivo, mi dà motivazioni. Credo di poter giocare ancora molto. Ho la stessa passione di quando ho iniziato, la stessa voglia di far gol, e finché avrò queste sensazioni continuerò. Sono sereno ma so che c’è sempre da dimostrare. Ogni giorno. Nel calcio devi sempre dimostrare di voler far bene. Da quando hai 17 anni a quando ne hai 33, è una rincorsa.

 

Ritratti di Valentino Bellini
Nella gallery interna, tutte le foto ©Getty Images