Cenerentola Football Club

Come ogni anno, alla fine del campionato, molte favole svaniscono: le storie di un po' di neopromosse che tornarono subito in Serie B.

Di pari passo, o forse più, con i cambiamenti che hanno investito i costumi, la cultura e il pensiero comune, il calcio e le interazioni tra calcio e individuo hanno vissuto una trasformazione senza precedenti nel corso degli ultimi venticinque anni. Il calcio, con la minuscola, inteso come sport di squadra in cui ventidue persone gareggiano tra loro divise in due squadre, è diventato più veloce, più tecnico, più spettacolare, ma anche più commerciale, più ricco, più vulnerabile. Il Calcio, con la maiuscola, inteso di volta in volta come religione civile, insolubile collante di masse o fenomeno culturale universale, ha beneficiato dello strappo del velo di ipocrisia che lo avvolgeva e che lo riduceva a essere considerato come qualcosa di ordinario e futile, uno svago come tanti altri, un semplice riempitivo del tempo libero delle classi lavorative.

Sul finire del Novecento, il secolo del calcio, abbiamo assistito alla fine dell’era della vergogna e all’inizio dell’era della consapevolezza. Abbiamo iniziato a parlare più di Calcio e meno di calcio, abbiamo preso piena coscienza dell’influenza emotiva e psicologica che ha sulle nostre vite, abbiamo iniziato a guardare in faccia una realtà che a scadenza settimanale, o meno, ci vede impegnati prima sulla sfera del sentimento che su quella dello svago. Tra i più importanti artefici di questo svelamento c’è indubbiamente Nick Hornby. Il grande merito di Hornby è l’essere stato il primo europeo ad aver messo per iscritto frammenti di interiorità di ciascuno e ad aver beneficiato di un’ampia diffusione per questo. Il pensiero costante durante la prima lettura di Febbre a 90° è la sensazione di non essere più solo, di far parte di un credo secolare che trascende la dimensione terrena di semplice sport. Hornby scrive di aspetti così naturali da sembrare a volte quasi banali dell’approccio individuale al calcio, ma allo stesso tempo riavvicina tra loro i membri di una collettività frammentata. Oltre a essere il grande liberatore di un approccio sentimentale al calcio ridotto allo status di fatto privato (basti pensare all’inesauribile filone del calcio come strumento nel rapporto tra padre e figlio), Hornby ha anche fissato il valore che ha nello scandire il tempo, probabilmente la sua più felice intuizione del suo lavoro definitorio.

Francesco Parravicini, Hernan Dellafiore, Fabio Gallo: il Treviso è in vantaggio al Delle Alpi (Paco Serinelli/Afp/Getty Images)
Francesco Parravicini, Hernan Dellafiore, Fabio Gallo: il Treviso è in vantaggio al Delle Alpi (Paco Serinelli/Afp/Getty Images)

Uno dei frammenti più apprezzati, condivisi e citati di Febbre a 90° riguarda proprio il calcio come strumento di misurazione del tempo che scorre, un moto solare più concreto e sicuramente più intimo: «I tifosi di calcio parlano in questo modo: i nostri anni, le nostre unità di tempo vanno da agosto a maggio (giugno e luglio non esistono neanche, soprattutto negli anni dispari, che non hanno i Mondiali o gli Europei). Chiedeteci quale è il periodo migliore o peggiore della nostra vita e il più delle volte vi risponderemo con un numero a quattro cifre – 66/67 per i tifosi del Manchester United, 67/68 per quelli del Manchester City, 69/70 per quelli dell’Everton, e così via – recante nel mezzo un silenzioso trattino, unica concessione al calendario in uso nel resto del mondo occidentale». A livello individuale, o interfacciandosi con un tifoso della propria squadra, la funzione mnemonico-nostalgica del calcio è istantanea: l’anno in cui c’era quel terzino brasiliano poi scomparso, l’anno in cui si è infortunato quel giocatore fondamentale, l’anno di quella sconfitta per 0-1 contro l’ultima in classifica, l’anno di quella vittoria in trasferta contro la prima.

In un’interazione più ampia, questo processo è leggermente più complicato. Il campo condiviso con i nostri interlocutori, irraggiungibili da certe traiettorie del ricordo intime e settarie, legate al tifo comune, è costruito quasi esclusivamente su eccezionalità. Non avendo praticamente significato il tentativo di ricordare attraverso, ad esempio, la vittoria del campionato da parte di una squadra abituata a farlo, ci si rifugia nell’inusuale, nell’irripetibile. Un irripetibile che è composto da due tipi di fenomeni: i risultati straordinari ottenuti da un underdog (il 1984/1985, anno del Verona) o la presenza nel campionato da una squadra scomparsa più velocemente di quanto fosse apparsa, una meteora la cui funzione è quella di separare nella memoria quell’anno in particolare dal precedente o dal successivo. Il 2015/2016 un giorno lo potremmo ricordare in due modi: l’anno in cui il Leicester vinse il campionato più competitivo del mondo, o l’anno in cui c’erano il Frosinone e il Carpi in Serie A. La differenza sta nel fatto che mentre di Leicester ne capita uno ogni decade, di Carpi e Frosinone ne abbiamo pieni i ricordi. Ancona, Como, Treviso, Novara, Pescara, Cesena. Ognuno di questi nomi evoca un preciso anno, un preciso istante fissato sull’asse temporale proprio da queste presenze estemporanee ed evanescenti, da sempre salutate con simpatia e ancor più nell’ultimo anno dopo l’infelice fatwa lotitiana. Squadre che vengono chiamate Cenerentole, quando in realtà la loro unicità le fa assomigliare più alla scarpetta, di Cenerentola. Squadre che, pur differenziandosi e rendendo così diverse dalle altre le loro rispettive stagioni, appaiono e scompaiono nella volta celeste del calcio con una traiettoria spesso simile.

Prima di Novara-Parma, vinta dai piemontesi con i gol di Rubino e Rigoni (Claudio Villa/Getty Images)
Prima di Novara-Parma, vinta dai piemontesi con i gol di Rubino e Rigoni (Claudio Villa/Getty Images)

Guardandole retrospettivamente si mescolano allenatori artefici di miracolose promozioni rivelatisi poi inadatti per la massima serie, vecchie glorie chiamate a mettersi di nuovo in gioco per la salvezza di una piazza alla quale non sono legati, esotici carneadi oggetto di improbabili scommesse, vittorie contro squadre blasonate inutili per la classifica ma scolpite nell’eternità per i propri tifosi. L’insieme delle loro storie sono il manuale for dummies per la comprensione di come a volte il fallimento sia, semplicemente, ineluttabile.

 

Venerato maestro mai

Fare l’allenatore del Cenerentola Football Club significa essere in lotta contro un tempo inesorabile e che non ammette errori. Simbolo della precarietà prima ancora che la precarietà diventasse, ahinoi, mainstream, è sempre il primo a morire, come i personaggi troppo stupidi e troppo curiosi dei film horror. Nella maggior parte dei casi è anche l’artefice della miracolosa promozione dell’anno precedente: su di lui vengono riversati fiumi di parole, si analizzano le sue feconde intuizioni che hanno reso possibile un’altra favola, nella città di provincia che ha appena tolto dal mare limaccioso della serie cadetta per farla sedere al tavolo delle grandi città si parla di intitolargli una piazza, un parco, un centro commerciale.

Per cosa ricorderemo l’esordio in A dell’Ancona? Per aver fatto da sparring partner all’esordio di Kaká

È praticamente esordiente in Serie A, e nonostante questo si parla di lui come dell’uomo giusto per molte squadre di medio-bassa classifica, ma nonostante questo decide di restare, «per continuare il sogno», «per dimostrare che la squadra può trovare nel massimo campionato la sua vera dimensione». La sua parabola arbasiniana da brillante promessa a solito stronzo dura però soltanto i tre mesi esatti che separano la conquista della promozione matematica e la prima partita in Serie A, e la fase del venerato maestro è di conseguenza destinata a non arrivare mai. Loris Dominissini porta il Como a giocare nel giro di due anni dal Giovanni Morelli di Brescello al Delle Alpi di Torino, dove avrebbe vinto se non fosse arrivato un gol di Zalayeta a due minuti dal novantesimo. È anche il risultato più vicino a una vittoria che ottiene nelle sue undici giornate da allenatore dei lariani nella massima serie, e per questo viene esonerato per fare posto a Eugenio Fascetti, uno scampato al destino e diventato quindi venerabile maestro. Leonardo Menichini viene catapultato, dopo dieci anni a fare il vice di Mazzone, sulla panchina dell’Ancona portato in A da Gigi Simoni. A lui il destino dà solo quattro giornate, di cui una delle quali contro il Milan fresco campione d’Europa e un’altra a Roma contro la Roma di Capello.

Non sono diverse le storie di Ezio Rossi a Treviso, Attilio Tesser a Novara, Pierpaolo Bisoli a Cesena, Giovanni Stroppa a Pescara: dieci giornate, quindici nel migliore dei casi, per certificare l’inadeguatezza col Grande Calcio, ed essere sostituiti da allenatori che falliranno anche loro l’obiettivo salvezza e che nella maggior parte saranno a loro volta esonerati. Da qualche anno, però, la confraternita degli allenatori del Cenerentola Fc ha trovato, se non la salvezza, almeno un messia, uno che ormai può davvero poter dire di avercela fatta. Pur non essendo riuscito a sfuggire all’inesorabile sentenza dell’esonero, Eusebio Di Francesco ha avuto l’opportunità di tornare in sella dopo il tragico mese di Malesani, portando il Sassuolo alla salvezza e sottraendolo quindi per sempre dal novero delle squadre-meteora. Di Francesco ancora alla guida del Sassuolo, oggi in lotta per un posto in Europa, è, per gli allenatori del Cenerentola Fc, un passo del Vangelo, una parabola sulla redenzione.

Sampdoria 6-0 Pescara

Come è potuto succedere

La prima volta che ho visto Robert De Niro stava interpretando un sociopatico che di fronte a uno specchio, pistola in mano, chiedeva alla sua immagine riflessa con chi stesse parlando. L’ultima volta che ho visto Robert De Niro è stato sulla locandina di Nonno scatenato, a torso nudo, mentre solleva Zac Efron, anch’esso, ovviamente, a torso nudo. L’unica cosa che sono riuscito a pensare è stato: «come è potuto succedere». Non è la prima volta però che penso una cosa simile. Come è potuto succedere, e sono convinto che se lo sia chiesto anche lui, una volta accortosi di aver sbagliato curva in quella che resta la seconda presentazione più memorabile della storia del calcio italiano dopo quella di Maradona a Napoli, che Mario Jardel sia passato in meno di due anni da vincere una Scarpa d’Oro a essere cacciato dopo tre giornate da quell’Ancona che resta ad oggi la peggior squadra vista in Serie A in questo secolo? Come è potuto succedere che nella stessa squadra ci fossero anche Dino Baggio, vincitore di tre Coppa Uefa, e Dario Hubner, passato da segnare 38 gol in 60 presenze nelle due stagioni precedenti a Piacenza a restare a secco nelle nove apparizioni con la maglia dei dorici? Come è potuto succedere, ancora, che Daniel Fonseca abbia interrotto il suo tranquillo fine carriera con la maglia del Nacional di Montevideo per tornare in Italia e chiudere la sua esperienza da calciatore nell’infernale stagione in A del Como? Come è potuto succedere, infine, che Gaetano d’Agostino sia passato in poco più di tre anni da essere il prescelto per guidare il centrocampo del Real Madrid (che poi, dopo, virerà su Xabi Alonso) ad accompagnare in Serie B il Pescara di Celik, Togni e Bianchi Arce dopo un girone di ritorno da 2 punti?

Uno è Dybala, gioca nella Juventus, l'altro è Gaetano D'Agostino, oggi alla Lupa Roma (Tullio M. Puglia/Getty Images)
Uno è Dybala, gioca nella Juventus, l’altro è Gaetano D’Agostino, oggi alla Lupa Roma (Tullio M. Puglia/Getty Images)

Esistono tanti posti per giocare a calcio tranquillamente, aspettando in modo dignitoso che finisca una carriera in cui i giorni migliori sono ormai alle spalle, ma il fondo della classifica della Serie A con la maglia del Cenerentola Fc non è uno di questi. Non possono essere soltanto i soldi la spiegazione, e non può essere soltanto l’incoscienza, considerando anche che molti dei nomi in questione, citati e non citati, decidono di scendere negli Inferi a stagione già iniziata, e inevitabilmente compromessa. In questa tensione verso una fine turbolenta e irrimediabilmente malinconica le forze che prima si combattono, e poi si uniscono tra loro, sono la vanità e lo sconforto. La vanità di chi crede di potercela fare anche in una situazione disperata, e guadagnarsi così una gloria più grande di quella già passata, e lo sconforto di chi sa di non poter chiedere più molto alla propria carriera. E quando la vanità si somma allo sconforto, la maglia del Cenerentola Fc brilla più di tutte le altre, splendente di una luce accecante e ingannevole.

 

Art for Art’s sake

La stagione del Cenerentola Fc è sempre, inevitabilmente, un susseguirsi di domeniche tristi, un’angosciante parata verso l’abisso in cui sfilano una dopo l’altra sconfitte tantoazero e inutili pareggi. In questa processione funebre, però, accade spesso che, improvvisamente, senza nessuna avvisaglia, senza nessun motivo e soprattutto, senza nessuna utilità, pura art for art’s sake, accada l’imponderabile e roboante risultato positivo contro una squadra blasonata. Una partita che per la sua eccezionalità si staglia in una stagione di per sé eccezionale (sia in senso positivo, per la presenza in massima serie, che in senso negativo, per i risultati), ricoprendo così una funzione super-mnemonica, una gigantesca lapide in marmo a memoria della caduta del Cenerentola Fc.

Inventano Mazzarani e Morimoto, finalizzano Meggiorini e Rigoni: Novara 3-1 Inter

Per i suoi tifosi è il momento più alto della storia del club, per i tifosi della grande squadra è l’ennesima conferma dell’esistenza di un grande disegno del destino infame contro di loro, per tutti gli altri l’occasione per qualche sfottò e per togliere dalla polvere l’armamentario di frasi su quanto è strano il calcio. Nella sua stagione al sole il Novara arriva diciannovesimo, perdendo un po’ ovunque lungo lo Stivale. Dei 32 punti che raccoglie, però, sei sono frutto di due vittorie contro l’Inter, alle prese con il post-triplete, ma pur sempre l’Inter: 3-1 a Novara nella partita che costa la panchina a Gasperini dopo solo quattro giornate di campionato, 1-0 a San Siro a firma Caracciolo. Sei punti inutili ai fini della classifica quanto essenziali per la loro unicità: chiedete a cento persone di dirvi cinque partite che si ricordano di quella stagione, novantanove vi risponderanno Novara-Inter.

Grazie ai gol di Jonathas e Celik il Pescara segna la sua ultima vittoria in Serie A in un grigio 6 gennaio, portando via tre punti da Firenze contro la prima Fiorentina di Montella( gli stessi tre punti che a fine anno costeranno ai viola il terzo posto) risultando l’unica squadra a riuscirci in quella stagione insieme alla Roma. Il Como e il Cesena, pur dovendosi accontentare di un pareggio, arrivano vicini alla vittoria contro una Juventus che in entrambe le stagioni vincerà poi lo Scudetto, nel primo caso l’ultimo di Lippi, nel secondo il primo di Allegri. Anche l’Ancona, che chiude il campionato con 13 miseri punti, può vantarsi di averne ottenuto uno contro la Roma di Capello. Risultati che, pur incapaci di salvare matematicamente una stagione, la salvano nella memoria, come piccole, bellissime perle forgiate con un materiale indistruttibile.

Il Frosinone non è più in Serie A (Francesco Pecoraro/Getty Images)
Il Frosinone non è più in Serie A (Francesco Pecoraro/Getty Images)

Il Frosinone e il Carpi hanno giocato per molto di più di una semplice salvezza. Evitare un ritorno istantaneo in Serie B, come insegna il Sassuolo, significa strapparsi di dosso l’abito della festa tipico di chi è inadeguato alla festa in questione per indossare le vesti eleganti di chi è ormai è un invitato abituale. Il crudele contentino di chi dovrà salutare sarà l’etichetta con il loro nome sull’intera stagione: il 2015/2016 sarà l’anno del Frosinone in Serie A, del Carpi in Serie A, o, in caso di salvezza del Palermo, del Frosinone e del Carpi in Serie A? Una volta risposto a questa domanda non avremmo neanche tempo di riposarci, perché anche il Crotone è stato appena invitato alla festa.