«Nella valigia hai una maglietta rossa?», chiede Adriano Panatta a Paolo Bertolucci, la sera prima della finale di Coppa Davis del 1976. Bertolucci ha portato a Santiago una Fila interamente rossa. «Allora domani te la metti», lo intima Panatta. Il giorno dopo i due sconfiggono in quattro set i cileni Fillol e Cornejo. Il capitano della squadra italiana è Nicola Pietrangeli, che da giocatore era stato vicino a quel traguardo, nel 1960 e nel 1961. «Sapevo bene che cosa significava il colore rosso per il popolo cileno. Subito l’idea di Adriano mi spaventò», racconta Bertolucci. Ma la voglia di sollevare il trofeo lo inebria, pur di raggiungere quella vittoria sarebbe disposto a tutto. «Ma tu sei diventato completamente matto, gli dissi: questi ci sparano, ci gambizzano o, nella migliore delle ipotesi, ci sbattono in galera». Dopo una fase tormentata Panatta ha preso una decisione e non è disposto a ritrattare. «Non mollò, voleva trasmettere un modesto ma significativo messaggio politico e non voleva farlo da solo, così alla fine cedetti».
A quasi quarant’anni di distanza da quella vittoria della squadra italiana – Panatta, Barazzutti, Bertolucci, Zugarelli – del dicembre 1976, l’evento appare come l’epicentro di un terremoto sportivo che non ha smesso di scuotere il tennis e la comunità di discepoli che si rinnova a ogni generazione. Sono appena stati pubblicati due libri che raccontano il tennis e ciò che rappresenta per la vita pubblica e per quella privata dei suoi protagonisti. Il primo di intitola Sei chiodi storti (pp. 147, 15 euro), e racconta la Coppa Davis del 1976, lo ha scritto il giornalista Dario Cresto-Dina ed è pubblicato dall’editore 66thand2nd. Il secondo è una raccolta di racconti, si intitola Smash (pp.240, 17,50 euro) e propone quindici storie legate a palline gialle e racchette in cui altrettanti scrittori italiani affrontano la loro relazione, esaltante o dolorosa, con il tennis (l’editore è La nave di Teseo). Oltre che dal tema, i due libri sono accomunati dalla prospettiva – il tennis visto dall’Italia – e dalla convinzione che questo sport sia il terreno dove attecchisce, meglio che altrove, l’epica, e dove cresce anche un inestricabile groviglio di rancori e rimpianti. Il tennis, come la letteratura, dà il meglio di sé, infatti, quando cede alla memoria e si abbandona senza filtri ai ricordi per restituire un mondo di nostalgia, vecchie glorie e tanti sogni infranti.
Nel 1976 Panatta vince gli Internazionali a Roma. Qualche settimana dopo, a Parigi, sulla terra rossa del Roland Garros, batte Björn Borg ai quarti e vince il torneo. «Sulla terra di Parigi gioca il miglior tennis della sua vita, ma dopo il colpo che chiude la finalissima la sua felicità dura lo spazio di sessanta secondi», ricorda Cresto-Dina. Ecco infatti affacciarsi subito «un senso di vuoto, una depressione che si porterà addosso per più di un mese».
Intorno alla partita da disputare a Santiago a fine anno, nel pieno degli orrori di Pinochet, nasce una polemica internazionale con comitati che promuovono boicottaggi. «Andare a Santiago sarebbe veramente compiere un atto inspiegabile, ingiustificabile da ogni punto di vista, compreso quello sportivo», scrive il quotidiano l’Unità. A Santiago la dittatura militare perseguita i cittadini, mette in prigione ogni giorno persone senza motivo, tortura, fa sparire nel nulla migliaia di cileni, uccide negli anni talmente tanta gente che non è mai stato possibile avere un numero esatto dei morti. In questo clima, Pietrangeli a settembre dice: «Considero buffoni coloro che mescolano la politica con lo sport».
Sull’andare o non andare a giocare in casa di Pinochet si spaccano i tennisti, si spacca l’opinione pubblica, i giornali e i partiti hanno idee diametralmente opposte. Il ministero degli Esteri è possibilista, il governo italiano all’inizio tentenna e propone di giocare in campo neutro. Alcuni sostengono che andare sia importante, potrebbe essere l’occasione per smascherare la violenza del regime. Zugarelli si schiera con Pietrangeli: «Ho le mie idee politiche, conosco e critico i regimi che negano le libertà individuali ma il mio mestiere è giocare a tennis».
Panatta solleva il trofeo, in Francia nel 1976 (Keystone/Hulton Archive/Getty Images)
Sei chiodi storti racconta il punto in cui il tennis e la Storia si intrecciano. Lo fa sempre a partire dalle biografie dei protagonisti. Per Dario Cresto-Dina il ritratto è la chiave migliore per interpretare i grandi eventi. Nelle pagine lascia che i protagonisti di allora si raccontino, ripristina le delicate relazioni della squadra, osserva da lontano, con gli occhi dei reduci dell’epoca, come se la distanza temporale fosse un luogo neutro, perfetto per avvicinarsi alla verità. Nel libro Pietrangeli dice: «Sono stato dieci volte più forte di Panatta, ho il mio posto nella Hall of Fame e al Forio Italico c’è un campo con il mio nome. Me lo hanno intitolato da vivo. Una rarità». Di Bertolucci, Cresto-Dina racconta l’addio al tennis del 1983: «Parte in solitaria da Aosta e approda in Sicilia, ad Aci Trezza. Un mese intero trascorso a tavola. Ingrassa di undici chili e due etti, finalmente liberato dalle catene di uno sport che lo ha costretto a forzare i suoi limiti fisici e a addomesticare per oltre quindici anni le sue voglie. Finalmente felice. A tennis non ha più giocato». Di Zugarelli ricorda le cicatrici, le mani, le preghiere della moglie. Di Barazzutti evoca la riservatezza, l’inclinazione alla vita solitaria di chi si sente un marziano.
L’unico documentario disponibile sulla vittoria italiana in Cile: regia di Gigi Oliviero, musiche del padre Nino
Ma tra tutti è Adriano Panatta la figura che resterà di più nell’immaginario collettivo. È il divo, è insieme il ribelle e il borghese. La conferma del suo impatto nella cultura sportiva italiana è la presenza di Panatta nel libro di racconti Smash. È qui che prosegue idealmente il ritratto di Cresto-Dina. Panatta viene evocato fin dal primo racconto di Sandro Veronesi: «A quel tempo avevo due idoli: uno era Panatta e l’altro era Luca Ciardi, il mio compagno di doppio. Panatta era Panatta, era l’idolo di tutti, ma Luca Ciardi era l’idolo solo mio». Veronesi non è il solo a considerare il tennis di gioventù come il regno delle occasioni perdute, il momento in cui la vita poteva prendere una piega diversa e non l’ha presa. Rievoca Panatta anche Fulvio Abbate: «Mi sono ritrovato davvero amico addirittura di Adriano Panatta, lui, proprio il Tennista, il Campione, il bel ragazzo di Roma, il fidanzato ideale, il vincitore di un sorriso perfetto». Panatta torna nella memoria di Elena Stancanelli: «All’epoca avevo una passione per Adriano Panatta, una passione puramente tennistica, pensavo. Seguivo ogni suo incontro, leggevo e ritagliavo le interviste. Passeggiavo per caso vicino alla bella villa che aveva comprato a Firenze, sotto il Poggio Imperiale, gesto che faticavo un po’ di più a includere nella categoria “stima professionale”. Ma quando vacillavo, mi ripetevo che la mia infatuazione aveva a che fare soltanto con quella splendida volée detta “Veronica”, con quel gioco sorprendente che faceva impazzire Björn Borg». Di fatto quella di Elena Stancanelli non è stima tennistica né professionale: «Ero innamorata di Panatta ma non potevo saperlo, e me ne accorsi, come quasi sempre accade, nel momento in cui lo tradii». Capita infatti che mentre Panatta perde un match, lei sia in un altro campo a fare la raccattapalle. Per Elena Stancanelli, il tennis è pervaso di un invisibile erotismo e regolato dalle stesse leggi del desiderio amoroso: «Solo i romanzi, i buoni romanzi, e il tennis (e anche altri sport, immagino) dicono la verità: l’amore, qualunque cosa sia, perde 6-0 6-0 contro il desiderio».
Desiderio, sensualità e amore tessono il racconto di Valeria Parrella, dove la protagonista restituisce l’immagine di uno sport elitario e sempre in bilico tra eleganza e ostentazione di ricchezza: «Di tutto quel circo a me piacevano gli abiti delle signore in tribuna d’onore. Tricot bianco e smeraldi grandi come un’oliva. Quelle scarpe con le zeppe per star comode, estive, le stesse che indossano le regine quando vanno in giro per il mondo a testimoniare qualcosa».
Questi quindici racconti hanno il merito di rivelare quanto il tennis sia strettamente legato con ambiti della vita che apparentemente ne sono distanti. Molti racconti si concentrano sulla figura dei padri, in particolare quelli di Marco Missiroli e Mauro Covacich. Il tennis appare come il luogo della consegna di un’eredità, il canale di comunicazione tra padri e figli; emerge spesso il legame tra tennis e letteratura (nella bella e commovente intervista a Matteo Garrone, Edoardo Albinati dice: «Il tennis tra tutti gli sport è quello – anche per la sua durata, certe volte – che ha l’andamento più romanzesco. Quei continui rovesciamenti… quando la partita sembra perduta e invece riparte da capo»); così come spesso vengono rievocate alcune partite mitiche, come quella tra Chang e Lendl, o personaggi leggendari come la Micol Finzi-Contini di Giorgio Bassani, o il fantasma di Roger Federer.
Una donna si ripara dalla pioggia, a Wimbledon nel 1969 (Central Press/Getty Images)
Sei chiodi storti e Smash a volte comunicano tra loro. Nel racconto “Grip” di Giorgio Falco si legge: «Il tennis era diventato uno sport popolare grazie ai successi in Coppa Davis di Panatta, Barazzutti, Bertolucci, Zugarelli, ripetuti sempre così, in ordine di filastrocca». Terminati entrambi i libri rimane del tennis soprattutto la percezione che nella memoria collettiva e in quella privata sia legato ad attimi fulminanti di sogni e a montagne di speranze precipitate nel buio. Se tra tutte queste pagine di ricordi di vecchie partite e di naufragi (sportivi, affettivi e sentimentali) si dovesse scegliere una sola formula, si potrebbe adottare quella che impedisce ancora a Matteo Garrone di giocare: il tennis è una ferita aperta.
Come ricorda Cresto-Dina, la squadra della vittoria italiana alla Davis – e Smash conferma il peso di quella vittoria storica – tornò a casa in un silenzio pesantissimo. «Al nostro rientro in Italia fummo ignorati, il Cavalierato ci venne consegnato quasi di nascosto» racconta Bertolucci, «come se la nostra vittoria fosse stata una vergogna». Il tennis è lo sfondo dei sogni dell’adolescenza, la calamita che attrae sconfitte, il teatro perfetto delle delusioni. Per il resto, è ottimo da usare come specchio per rimpiangere la vita passata.