Qualunque sia il vostro sport d’elezione, è molto probabile che vi siate imbattuti nella massima attribuita a Bear Bryant (il leggendario coach di Football dell’Alabama University): «L’attacco vende biglietti, la difesa vince titoli». È una frase emblematica del paradosso inerente allo sport professionistico, diviso (soprattutto negli Usa) tra intrattenimento e agonismo, in un dualismo non sempre facile da conciliare. L’obiettivo, ovviamente, è la vittoria, ma in America lo sport è un business con il quale si vuole guadagnare, e nulla “vende biglietti” (o magliette e merchandising) quanto i grandi attaccanti, che di conseguenza, sono sempre stati celebrati a dismisura, a volte di là dalla loro effettiva importanza sportiva.
I giocatori più pagati e costosi sono quasi inesorabilmente giocatori offensivi; in Nba si può essere stelle dominando l’attacco ed esibendo una competenza difensiva modesta (Steve Nash, Dirk Nowitzki, Damian Lillard, per citarne alcuni), mentre non è quasi mai vero il contrario, perché un grandissimo difensore, incapace però di spostare gli equilibri con la palla in mano, finisce quasi inesorabilmente etichettato come specialista. Quella di delegare tutto l’attacco a un grande solista, è una strategia della quale si è abusato quando era possibile isolare un attaccante su di un quarto di campo e limitare così le capacità di recupero della difesa, costretta, semplificando un po’, a marcare a uomo (pena, un tiro libero e palla agli avversari).
Il punto di svolta è coinciso con l’abolizione dell’illegal-defense. Negli ultimi 15 anni, l’uso della zona ha liberato la fantasia di tattici come Tom Thibodeau, che ha sviluppato la strategia “shrink-the-floor” oggi usata da quasi tutte le squadre, costringendo gli attacchi a cercare nuovi modi per trovare conclusioni ad alta percentuale. Il sistema maggiormente in voga consiste nell’aggredire il canestro e poi scaricare ai tiratori liberi appostati sul perimetro, secondo il modello drive-and-kick magnificato dai San Antonio Spurs durante le Finals ’14. In questo nuovo contesto tecnico, è riemersa prepotentemente la figura del giocatore two-way, ossia l’atleta capace di essere una stella dell’attacco e un mastino in difesa, e che quindi, non costringe mai l’allenatore a pagare dazio, al contrario di uno specialista, che, in una metà campo o nell’altra, obbliga inesorabilmente a giocare 4 contro 5. Il two-way player non è un’evoluzione della specie, quanto un ritorno alle origini; certo, Magic Johnson e Larry Bird erano draghi nel fare canestri e molto meno quando si trattava di evitarli, ma lo stesso non si può dire di Michael Jordan e soprattutto Bill Russell, l’uomo al quale è intitolato il premio di Mvp delle Finali Nba, non a caso vinto, nelle ultime due edizioni, da Kawhi Leonard e Andre Iguodala, entrambi ali capaci di fare la differenza su 28 metri di campo.
Chi sono, oggi i migliori esemplari di questa categoria di giocatori? Partiamo dai lunghi, che, storicamente, sono chiamati al “doppio lavoro”. Il loro ufficio è il verniciato, ossia la porzione di parquet dalla quale si segna con percentuali più alte, e questo si è tradotto nell’esigenza di dotarsi di centri capaci d’agire come terminali offensivi e di proteggere il ferro per abbassare il più possibile il numero di conclusioni facili concesse alla squadra avversaria.
Tim Duncan
Nella prima metà dello scorso decennio, Tim Duncan era, con ogni probabilità, allo stesso tempo il miglior giocatore offensivo e difensivo di tutta la Nba; Duncan poteva (e in certe serate, può ancora) dominare una partita senza tirare, limitandosi a controllare i rimbalzi, agendo da “facilitatore” per i compagni, e proteggendo il proprio verniciato come pochi altri lunghi nella storia della pallacanestro. L’ex nuotatore delle Isole Vergini (Timmy passò al basket solo quando l’urgano Hugo, nel 1989, distrusse l’unica piscina olimpionica di Saint Croix) non è mai stato un atleta devastante. Soprannominato “The Big Fundamental” in virtù della padronanza tecnica, Duncan è invecchiato benissimo, proprio perché il suo gioco non è mai dipeso dalla velocità o dalla potenza, quanto dall’uso impeccabile del tabellone, dal tempismo con il quale ruba rimbalzi a gente dieci o vent’anni più giovane, e dall’infinita serie di trucchi e mosse cui ricorre per metterla nel canestro o negare due punti agli avversari.
Tim ha attraversato due decenni di Nba rappresentandone l’assoluta eccellenza, reinventandosi costantemente in base alle esigenze della squadra e all’inevitabile declino atletico. Quando vinse i primi due anelli (1999 e 2003) e i suoi titoli di Mvp (consecutivamente nel 2002 e 2003), era la prima opzione offensiva di San Antonio, ma quando il suo corpo non è più stato in grado di supportare stagioni da 40 minuti di media e 25 punti (conditi da 12 rimbalzi), Duncan si è silenziosamente adattato ad un ruolo più defilato in attacco, concentrandosi sulla difesa. Con 6 Finali, 5 titoli e innumerevoli premi individuali in bacheca, Tim Duncan è uno tra i più grandi giocatori della storia del gioco, un monumento vivente a come si possa diventare leggende di questo sport, anche senza accumulare grandi cifre offensive.
Anthony Davis
Per certi versi il Monociglio è l’esatto opposto di Tim Duncan. Il ventitreenne di Chicago parte da una base fisica clamorosa, ma non ha fondamentali comparabili con quelli del caraibico. Al netto delle differenze però, l’approccio al basket è simile. Davis, proprio come Duncan, non è un accentratore, quanto un giocatore che fa quel che serve alla squadra, sia esso segnare, portare un blocco o difendere.
Davis ha in faretra un valido tiro da fuori (merito di Kevin Hanson, ex giocatore dell’Università di San Diego, che dopo una breve carriera, ha lavorato per San Antonio a stretto contatto proprio con Tim Duncan), finisce benissimo in situazione di pick-and-roll (quest’anno però è stato usato come rollante solo nel 24.7% delle occasioni), salta come un grillo, tratta discretamente la palla, ma si è imposto soprattutto come un fattore difensivo, grazie ad una combinazione unica di centimetri, apertura alare, e velocità, che gli consente di raggiungere ogni punto del campo in un istante, alterando tiri e togliendo linee di passaggio. L’hardware è di tutto rispetto, ma non abbiamo ancora capito se questo corpo costruito per giocare a basket è fornito anche di un software altrettanto progredito. Quest’ultima stagione di New Orleans (la prima dopo la firma del contratto che lo legherà ai Pelicans per cinque anni) è stata piuttosto enigmatica, tanto da aprire crepe nella granitica convinzione che Davis sia un giocatore destinato a dominare l’Nba per anni a venire.
L’avvento di Alvin Gentry sul pino doveva aprirgli spazi mai neppure immaginati con Monty Williams, e invece la squadra della Big Easy ha deluso assai, vivacchiando ai margini della Western Conference, mentre Anthony Davis stentava a imporre il proprio gioco. Prima di emettere sentenze però, è meglio ricordare che la stagione “deludente” di Davis annovera un settimo posto per rimbalzi e punti, il terzo per le stoppate, e, ancora, il settimo posto per efficienza.
Chris Paul
Spostandoci nel settore guardie, c’è un giocatore che svetta quanto a capacità di giocare attacco-difesa a livelli celestiali: Chris Paul, il playmaker che ha dato rispettabilità alla metà bianco-blu angelena, trasformando i derelitti Clippers in un formazione prima elettrizzante, e poi, con Doc Rivers, finalmente ambiziosa. L’ex Wake Forrest è un giocatore tignoso, veloce, e, cosa non troppo consueta per un fine dicitore, anche discretamente duro. CP3 è una via di mezzo tra i playmaker del terzo millennio e quelli di una volta. Combina doti balistiche e propensione a dirigere l’orchestra, ma allo stesso tempo, è anche un eccellente difensore di uno-contro-uno nel ruolo più ricco di talento e competitivo dell’Nba moderna. Uomo dal carattere non facilissimo, perfezionista maniacale e agonista puro, Paul ha lavorato molto per provare a smussare gli angoli, alla ricerca di un difficile equilibrio tra le caratteristiche da realizzatore, e l’istinto del regista puro, che lo porta a giocare per i compagni.
Un duello di classe purissima: Chris Paul e Stephen Curry
Se Steph Curry si è ormai preso il titolo di miglior playmaker della Nba grazie alle incredibili doti offensive, Paul rimane il più bravo del ruolo per capacità di incidere su due lati del campo. I 9.9 assist di media in carriera e 18.8 punti la dicono lunga sul suo talento palla in mano, ma è in difesa che Paul fa spesso, silenziosamente, la differenza. Contro di lui, gli avversari tirano poco, e quando lo fanno, hanno cattive percentuali (in questi Playoffs, il 36.8%, contro il 42.7% abituale). La taglia non eccelsa gli impedisce di essere un grande difensore d’aiuto, ma la sua capacità di stare con il proprio uomo, e le mani velenose, lo rendono comunque un’arma difensiva di primo livello.
Klay Thompson
I Warriors vantano una cospicua rappresentanza dei migliori giocatori two-way di tutta la Nba, con Draymond Green, Andre Iguodala e Klay Thompson. Il figlio di Mychal (Thompson senior è stato per cinque anni parte dello Showtime dei Lakers targati Magic Johnson) è arrivato in Nba senza troppe fanfare. Klay non è il classico esterno Nba, privo com’è di grande stacco da terra e velocità, ma in compenso ha tecnica da vendere. Fu snobbato dai grandi college, finendo a Washington State, prima della chiamata dei Warriors, con l’undicesima selezione assoluta nel 2011.
Thompson si è rapidamente imposto come un grande tiratore grazie al lavoro svolto ai tempi dell’High School con Joedy Gardner, e vanta quello che probabilmente è stilisticamente il miglior catch-and-shoot di tutta la Nba. Come potrebbe spiegarvi Ray Allen, il segreto di un grande tiratore è il lavoro svolto con le gambe, e quelle di Klay sono tanto forti da consentirgli sempre di salire con grande equilibrio. Klay però ha continuato a espandere il proprio gioco, trasformandosi anche in un defensive stopper, abile sia in marcatura individuale (nella quale eccelle) che in aiuto e sulle linee di passaggio. In più, negli ultimi due anni il suo repertorio offensivo s’è arricchito della capacità di costruire dal palleggio, e oggi Thompson può davvero presentare la “tripla minaccia” (tiro, penetrazione e passaggio) insegnata dagli allenatori.
Manca Curry? No problem: Thompson ne fa 37 in gara 1 contro i Blazers
Klay Alexander Thompson è unico nel suo genere, perché rispetto a tanti giocatori two-way il suo stile offensivo è raffinatissimo e impeccabile, senza che questo abbia levato qualcosa alla sua voglia di sporcarsi le mani e di piegare le ginocchia. Insomma, Thompson è diventato uno specialista di…. tutto, trasformandosi in un giocatore totale, pericoloso con la palla in mano e senza, in marcatura sul miglior attaccante avversario oppure da flottante.
Andre Iguodala
Quando nel 2013 i Warriors decisero di buttarsi su Iguodala, molti pensarono fosse una mossa di ripiego vista l’impossibilità di arrivare a Dwight Howard, accasatosi a Houston. Invece nel giro di due anni, Iguodala è divenuto il cuore e la mente della second-unit di Golden State. Andre (non chiamatelo Iggy, è un soprannome che odia) è cresciuto imitando Penny Hardaway, e si vede. Alto come l’ex guardia di Orlando, ma meno elegante nei movimenti, ha lo stesso gusto per il palleggio e per la costruzione del gioco. L’altro sua grande idolo cestistico è Scottie Pippen, dal quale ha preso l’attitudine a lasciare il proscenio ad altri (Jordan e Curry), concentrandosi sulla difesa e sulle piccole cose che, alla fine, fanno la differenza tra la vittoria e la sconfitta. Iguodala è un’ala di grandissimo acume cestistico; trattatore di palla superiore, con letture da playmaker puro, ha il gusto per la giocata utile, come uno sfondamento preso, oppure un extra-pass.
Nella metà campo difensiva AI non raggiunge le vette di Pippen, ma è un difensore sulla palla di altissimo livello, dotato di piedi rapidi e braccia lunghe, molto forte nella parte superiore del corpo. Lo scorso giugno, l’ex atleta di Arizona ha tenuto in single-coverage LeBron James come meglio non si poteva, giocando una serie di sacrificio, di fatto, dominandola pur senza accumulare grandi cifre offensive. Luke Walton, che è stato suo compagno al college, dice di lui: «È raro che un giocatore con il suo atletismo e talento sia così disponibile a giocare in modo altruista». A Philadelphia cercarono di farne un classico realizzatore, raccogliendo solo frustrazioni, e questo è un monito a quelli che pensano che i giocatori debbano rendere a prescindere dalle circostanze. In un contesto tecnico completamente diverso, il mezzo bidone che non portava i Sixers ai Playoffs è diventato Mvp delle Finali.
Jimmy Butler
Jimmy Butler, com’è noto, non ha avuto un’infanzia felice, e il suo gioco rispecchia il modo in cui è cresciuto: ostinato, duro, di cuore. Prima di diventare l’uomo-franchigia dei Chicago Bulls, Jimmy Buckets (com’è soprannominato) è stato un adolescente cacciato di casa dalla madre tossicodipendente. Butler visse alla giornata per qualche tempo, girovagando per le case di amici, prima che la signora Michelle Lambert decidesse d’adottarlo. Butler è orgogliosissimo del suo passato perché, come ha detto lui stesso, «è quel che ho vissuto ad avermi reso ciò che sono oggi; sono felice delle sfide che ho dovuto affrontare».
Scelto alla trentesima chiamata del primo giro nel 2011 dopo tre anni a Marquette, Jimmy era reputato uno specialista difensivo destinato ad arrangiarsi in attacco. In realtà, anno dopo anno, Butler ha sfruttato le opportunità che sono capitate sulla sua strada, partendo dalla panchina, arrampicandosi in quintetto, fino a trasformarsi in una credibile prima opzione. La sua è stata un’evoluzione rapida e sorprendente; al primo anno segnava 2.6 punti di media, poi è salito a 8.6, al terzo anno 13.1, e nelle ultime due stagioni ha scollinato quota 20 con oltre il 45% dal campo. Non è raro che uno specialista difensivo si ricavi una nicchia in attacco, ma Butler ha esagerato, trasformandosi in una star capace di segnare in transizione, dalla media, tagliando (situazione nella quale ha il 77.8% dal campo) oppure entrando con una delle sue classiche zingarate da canestro e fallo.
Jimmy Buckets non è un realizzatore naturale, e a volte non sembra essere a suo agio nel ruolo di go-to-guy come altre stelle del firmamento Nba, ma, facendo un bilancio tra attacco e difesa, è un giocatore che inizia a spostare anche ad alto livello. Il 2015-16 di Chicago è coinciso con una sequela di errori marchiani della dirigenza che hanno addirittura tenuto la squadra fuori dai Playoffs, per cui è probabile che grandi cambiamenti siano all’orizzonte (probabilmente destinati a perdere Pau Gasol e ormai sicuri di non potersi più affidare a Derrick Rose). Comunque vada a finire però, il futuro dei Bulls passa per le mani e la testa di Butler.
Paul George
Madre natura non ha certo lesinato i propri doni con l’ala di Palmdale, California; atleta dai movimenti abbacinanti, fluido e coordinato come pochi, l’ex alunno di Fresno State è arrivato in Nba senza grandi certezze su quello che sarebbe stato il suo impatto, ma quando l’infortunio patito da Danny Granger gli ha aperto le porte del quintetto, la sua scalata non ha conosciuto soste; George (classe 1990) è diventato grande con l’Indiana “grit-and-grind” di David West e Roy Hibbert, imponendosi all’attenzione del mondo cestistico grazie a doti difensive fuori dal comune.
Le migliori giocate di Paul George selezionate dalla Nba
Passo dopo passo Paul si è costruito un gioco offensivo sempre più completo, e se l’anno scorso un tremendo infortunio gli ha sostanzialmente impedito di scendere in campo, nel 2015-16 George ha dimostrato d’aver preso molto sul serio il ruolo di leader dei nuovi Pacers, imparando a convivere con la pressione che deriva dall’essere una conclamata prima opzione. I miglioramenti di Paul George, i riconoscimenti e l’attenzione mediatica non hanno cancellato l’attitudine difensiva di questo californiano cresciuto a pane e Kobe Bryant. PG13 può fare il vuoto in attacco e con la stessa naturalezza togliere l’ossigeno alla fonte di gioco avversaria.
In più, come spesso capita ai reduci da certe tremende fratture, Paul è tornato dall’infortunio con un’attitudine molto più assertiva. Certe titubanze ed esitazioni che un tempo facevano capolino sono scomparse dal suo gioco offensivo, che, per completezza (ha anche imparato ad “usarsi” come specchietto per le allodole, creando così opportunità per i compagni), varietà e bellezza, basterebbe da solo a farne un grande giocatore. Per fortuna però, a differenza di altre stelle, i cui miglioramenti offensivi coincidono con un calo difensivo (James Harden e Russell Wesbrook sono due esempi), Paul George non si è trasformato in un casellante, per quanto ovviamente oggi regga molte più responsabilità offensive che in passato, e non possa difendere ventre a terra per 48 minuti.
LeBron James
Quattro Mvp della Regular Season, due titoli Nba su sei Finali disputate; questo il curriculum di King James, che è sempre stato una macchina da pallacanestro offensiva, ma si è gradualmente imposto anche in difesa. Se negli ultimi due anni a Miami LBJ era diventato offensivamente inarrestabile, già da un po’ di tempo era ormai capace di spostare anche grazie alle doti difensive, stoppando in aiuto, giocando sulle linee di passaggio grazie alla sua comprensione del gioco superiore, oppure, semplicemente, limitando il proprio uomo.
In quest’ultima stagione però, complice l’esigenza di caricarsi gran parte dell’attacco sulle spalle (scelta, per certi versi, opinabile, avendo in squadra Kevin Love e Kyrie Irving), l’impegno difensivo di James è calato in modo visibile, con passaggi a vuoto un tempo impensabili, come mancati tagliafuori, giocatori dimenticati nell’angolo pronti a segnare un piazzato piedi per terra, e via dicendo. Quando vuole, LBJ resta un difensore di alto profilo, ma è innegabile che il suo impegno sia mediamente calato, e questo è in parte fisiologico per un giocatore di quella stazza, che ha passato i trent’anni e continua a farsi carico di così tante responsabilità offensive. Anche Jordan, che in gioventù era un mastino spietato, quando tornò dal primo ritiro iniziò a centellinarsi, concentrando la propria difesa in alcune azioni o momenti chiave della partita nei quali alzava l’intensità.
Kawhi Leonard
Se c’è un ritornello che caratterizza le storie di molti esterni two-way menzionati nella nostra disamina, è quello d’essere stati sottovalutati all’ingresso in Nba. Nel caso di Kawhi, c’è il fondato sospetto che i dubbi siano stati incoraggiati ad arte proprio dall’organizzazione che ci aveva messo gli occhi sopra, quei San Antonio Spurs che, per averlo, sacrificarono a malincuore l’apprezzatissimo George Hill. Oggi è facile sorridere della pochezza di tanti scouting report, ma all’epoca (Draft 2011) il fatto di aver cambiato quattro High School in altrettanti anni e una certa tendenza alla laconicità (scambiata per ottusità), avevano fatto sorgere qualche dubbio anche in chi, vedendolo giocare a San Diego State e ammirandone l’impegno, le dimensioni delle mani (tiene la palla come un’arancia, come faceva Jordan!) e la disciplina tattica, un po’ di voglia di sceglierlo effettivamente l’aveva.
Il resto della carriera di questo ventiquattrenne californiano è storia; in cinque anni di carriera ha già vinto un titolo Nba da protagonista (Mvp della serie, il più giovane di sempre dopo Magic Johnson), ha fatto la sua prima apparizione all’All-Star Game, ha messo in bacheca due premi di Miglior Difensore dell’Anno (2015 e 2016), ed è ormai diventato quel che coach Popovich preconizzava nel 2012, cioè “la faccia della franchigia”, l’uomo che ha raccolto l’eredità di Tim Duncan, con un lungo e graduale passaggio di consegne iniziato nel 2014, e ormai giunto a compimento.
Sapere qualcosa della vita personale di Kawhi è impresa ardua, perché risponde alle domande dei giornalisti solo a monosillabi, ma, contrariamente alle suggestioni dei provini 2011, questa sua parsimonia verbale non è per niente sinonimo di cervello vuoto. Kawhi è uno studente del gioco ragguardevole, uno che sta costantemente crescendo e sviluppando il proprio bagaglio tecnico saccheggiando l’arsenale dei più grandi, senza trascurare la difesa.
Per dire: le migliori 10 giocate in carriera di Leonard
Leonard è il genere di giocatore ideale per gli Spurs, che prediligono giocatori allenabili, di basso profilo e disposti ad adeguare il proprio apporto in campo alle esigenze del gruppo. Kawhi è ormai un attaccante eccellente, bravo con entrambe le mani, dotato di un gioco mid-range impeccabile, pericoloso da tre punti, in grado (grazie ad un fisico potente) di andare dentro con la moto o di mettersi spalle a canestro. Al contempo, sa passare bene la palla, e nell’altra metà campo, può marcare con eguale efficacia un Kevin Durant oppure un Russell Westbrook. In America va di moda stilare classifiche d’ogni genere e sorta, ma se è abbastanza facile collocare Kawhi in cima alla lista dei giocatori two-way (l’ha fatto anche Steve Kerr), è più controverso stabilirne il valore assoluto rispetto a giocatori come LeBron James e Steph Curry, che sono ovviamente attaccanti puri migliori, ma che non valgono altrettanto in difesa.