Siccome il calcio contemporaneo rigetta i dogmi, se vuoi starci dentro seriamente non puoi mai finire di imparare. Allenatore diplomato a Coverciano, Daniele Adani è un quarantenne che accetta la sfida della complessità. Uno disposto ad ascoltare e con un tratto di umiltà nei modi. Un quarantenne che studia.
Un anno fa stupì molti per il no a Roberto Mancini che lo voleva suo vice alla guida dell’Inter. Optò per proseguire l’esperienza di opinionista televisivo. Commentatore e seconda voce nelle telecronache. C’erano la parola data e un progetto avviato con Sky da onorare. E c’era la consapevolezza del privilegio di raccontare e spiegare calcio a un pubblico qualificato. Non un ripiego, non una parentesi, non un dopolavoro in attesa della chiamata di qualche club per tornare in prima linea. «Un lavoro a tempo pieno. È una questione di incastri umani e professionali che si combinano in un certo modo. Mancini ha capito e ora siamo più amici di prima. Ma non è stata una scelta definitiva, tra quattro anni vedremo».
Oggi Adani è il più apprezzato commentatore di calcio in circolazione. Apprezzato da tecnici e giocatori, da giornalisti e colleghi. Apprezzato dai telespettatori. «Per uno che ama questo sport, la televisione è un punto di vista privilegiato. Preparandoti, lo vivi nella sua totalità. Segui la partita, il fatto agonistico, gli allenamenti, le abitudini dei calciatori, la tattica, la psicologia, il lavoro degli allenatori, le cose che dicono in conferenza stampa… C’è sempre qualcosa da approfondire, qualche talento da scoprire. Per questo dico che la curiosità è la prima dote. Il calcio non è fatto di verità assolute. L’unico suo dogma è non averne. Vale prima di tutto per me che pure ci sto dentro tutto il giorno. Anche se mi documento, se studio, non potendo essere tutta la settimana a bordo campo come un tecnico, mi mancherà sempre qualche informazione. E allora penso che devo andarci piano con i giudizi». Più controtendenza di così… «Il nostro ruolo ci fa stare sopra una collinetta a guardare in basso dove fischiano le pallottole. Se ti controlli un attimo puoi essere più analitico, più rispettoso della complessità di uno sport di squadra fatto da ventidue giocatori e un’infinità di variabili».
Giusto, quando si parla di tattica e di moduli di gioco, meglio essere prudenti. Ma se invece si fanno valutazioni tecniche, sulla qualità di un singolo calciatore, si vede se uno è scarso, un buon giocatore o un campione. O no? «Certo, ma a questo punto quello che fa la differenza sono i modi. Nella comunicazione la forma è sostanza. Si fa presto a dire che un giocatore non è da Inter o da Milan. Ma non è mai tutta la verità. Quando arrivò Mancini ci si chiedeva se Medel avrebbe resistito e ora ci si accorge che è il più presente. È l’assemblaggio che conta, la chimica tra i giocatori. A me piace riflettere. Preferisco documentarmi. Ascolto tutti, anche quelli con cui non sono d’accordo. Non c’è un parere più qualificato di altri a priori. Se proprio arrivo a dare un giudizio assoluto voglio farlo alla fine di uno studio approfondito. Solo così posso essere credibile».
Sintesi: certezze poche, studio tanto. Il calcio ha il motore sempre acceso, se rallenti sei finito. «A Coverciano ci insegnano che un giocatore si analizza attraverso quattro parametri: l’attitudine mentale, la tecnica, la tattica e le doti fisiche. Per me c’è anche il quinto elemento, che non dico sia il più importante, ma quasi: i tempi di gioco. Quelle quattro doti servono a niente se uno non ha i tempi giusti, se non si muove in sintonia con gli altri. È il tempo che fonde le caratteristiche di un giocatore. Un calciatore modesto ma con i tempi giusti può essere più utile di uno che ha più qualità ma va per conto proprio».
Un altro dei suoi segreti è Wyscout, la app creata da un gruppo di ragazzi di Chiavari che monitora tutto il calcio mondiale, grazie alla quale si tiene aggiornato sulle squadre sudamericane, di cui è esperto da quando le commentava per Sportitalia, e su quelle dell’Europa League. Una prateria sconfinata, con tutte quelle squadre finlandesi, turche, polacche. «Quando dicevo che questo è un lavoro a tempo pieno non scherzavo. Al mattino leggo i quotidiani, riguardo i filmati delle partite che ho registrato, mi informo sui risultati dei campionati e delle coppe sudamericane. Poi mi concentro sulle squadre di cui dovrò parlare nel prossimo turno di Europa League o per l’anticipo di Serie A. Una cosa che cerco subito è come una squadra propone in una fase e contiene nell’altra nelle ultime partite giocate. Vedo se ci sono corsi e ricorsi. Mi consulto con i coordinatori dei programmi per preparare dei focus su schemi e giocatori da mostrare in studio prima delle partite. Anche scrivere e prendere appunti mi aiuta a focalizzare come giocano le squadre e a ricordare mosse e contromosse degli allenatori».
Il rischio può essere prendere il calcio come ossessione. Una magnifica ossessione. Tanto più che per un outsider non dev’essere facile la convivenza in un team di opinionisti farcito di vincitori di Mondiali e Champions League. «Sono ben consapevole di essere in mezzo a calciatori blasonati. E ovviamente mi spiace non aver vinto quanto loro. Sono pieno di rispetto e ammirazione. Però poi, quando dobbiamo commentare le partite, quello che abbiamo fatto dieci o quindici anni fa è solo un piccolo bagaglio di esperienza per egli argomenti che sviluppiamo. Documentarsi, entrare nei contenuti, non è un compito per fuoriclasse e persone speciali, ma per persone normali. Pensare che chi ti ascolta si accontenta delle tue opinioni nate in base alle tue vittorie del passato è qualcosa di incompleto e anche un po’ presuntuoso. Se devi parlare del Bruges conta poco quante coppe hai vinto. Se devi commentare il Carpi di Castori e non sai quali sono i suoi schemi non ti basta avere la Champions in bacheca. A me piace fare il calcio che diventa show, non fare show parlando di calcio».
A volte viene anche il dubbio che il suo lavoro sia così meticoloso che persino gli allenatori fatichino a seguirlo. «Con gli allenatori ho un ottimo rapporto. Documentarmi è il mio modo di rispettare il loro lavoro. I tecnici capiscono se bluffi, se provi la frase a effetto».
E così eccoci a un’altra sintesi, “la formula delle tre c”: conoscenza, competenza, credibilità. Sembra l’algoritmo dell’analista. «Ma non c’è niente di garantito in questa formula, perché si può conoscere senza essere competenti e viceversa. E allora la credibilità è un miraggio». C’è qualcosa di sacchiano in Daniele Adani? Forse oggi potremmo dire che quello di Sacchi era un calcio algoritmico… «Certo, Sacchi ha cambiato radicalmente il calcio. Ma più che un approccio scientifico il mio è un buon matrimonio tra passione e applicazione. In questo senso, mi sento più vicino a Guardiola e a Bielsa. Secondo me, la passione abbinata all’applicazione generano l’intuizione e la genialità. Tanto lavoro durante la settimana, poi a venti minuti dalla fine il grande allenatore ha la scintilla e cambia la partita. Questa scintilla o ce l’hai o no. Non la puoi allenare».
La chiacchierata è finita. Ma si continua a parlare: della rimonta della Juventus, del Milan assortito male, di Mourinho, di mercato, della difesa dell’Inter e di Scolari che al mondiale brasiliano non convocò Miranda… Adani non si lesina. «Non dovevi andare via dopo un’ora?», gli ricorda qualcuno. «Ma no. Sono fatto così, anche al bar ascolto e parlo ad esaurimento. Sono sempre l’ultimo ad andare a casa. Quando si è finito di parlare di calcio».