Il calcio africano nell’era pre-internet

Dal talento di George Weah fino alla gloria recente della Costa d'Avorio. Come il calcio africano si è evoluto rispetto agli anni '90.

Ricordo l’autunno del 1997 come uno dei più colorati che abbia vissuto. Non tanto per mie sinestesie, per una soggettività della mia esperienza, quanto per una sorta di filtro fotografico attraverso cui l’ho osservato, nel senso filmico del termine, nei suoi video musicali, nel suo cinema, nelle sue grafiche commerciali ma soprattutto nelle sue divise da calcio. Tutto ciò che di allora riconosciamo come ipertrofico era, con gli occhi dell’epoca, futuristico, vagamente sognante.

L’imminente 2000 stava portando a compimento quel concetto di saturazione dei colori che già gli anni ‘90 li avevano resi plastici ai limiti della dilatazione della pupilla, e gli effetti si erano inevitabilmente riversati anche sull’estetica calcistica. In un calcio come quello nostrano, dominato dal rosso, dal blu, dal nero o dal bianco e, in generale, dalla poca fantasia, l’azzurro della maglia nazionale sembrava lo sforzo minimo che potevamo concederci per lasciar entrare in casa nostra quella dialettica di drappi acetati.

Tutto era così portato all’eccesso che già con più di sei mesi di anticipo noi ragazzini già attendevamo trepidanti i Mondiali francesi: era arrivato Fifa 98 – Road to World Cup a cambiare il nostro modo di fruire il calcio virtuale per sempre e, complice il gaming, si era venuta a creare una fame abbondante di nazionali e di colori. Niente saziava questo duplice appetito quanto le nazionali africane.

18 Jun 1998: A group photograph of the South African team before the World Cup group C game against Denmark at the Stade Municipal in Toulouse. The match ended 1-1. Mandatory Credit: Ben Radford/Allsport
Il Sud Africa prima di una gara del gruppo C di Francia ’98 contro la Danimarca (Ben Radford/Allsport)

Le regole dell’attrazione

Verde, rosso, bianco, giallo, arancione, mescolati tra loro attraverso fantasie talvolta davvero semplici, ma sconosciute al nostro campionato quel tanto che bastava per farci entrare letteralmente in fissa con le squadre africane. La responsabilità di questa connessione affettiva privilegiata veniva da tre direzioni diverse: innanzitutto dall’elezione, nel 1994, di Nelson Mandela come Presidente del Sudafrica, evento che aveva avuto un forte impatto culturale sul mondo occidentale, mettendo l’Africa – a dire il vero più come entità che come vero e proprio interlocutore – sotto i riflettori della scena politica mondiale, e facendo leva, anche se mai abbastanza,  sul senso di colpa occidentale per i secoli di sfruttamento e violenze nei confronti del continente africano.

L’abbraccio dei calciatori nigeriani prima del match perso per 2 a 1 contro l’Italia (Rick Stewart/Allsport)

Sempre nel 1994, poi, c’era stato l’exploit della Nigeria ai Mondiali americani, che proprio noi italiani avevamo visto bene e da vicino: si trattava di una squadra dalle potenzialità fisiche che allora sembravano sovrumane, con vette di resistenza, velocità e forza fisica che costituivano uno svantaggio per qualsiasi squadra avversaria, a prescindere da quello che sarebbe stato il risultato finale. Era notevole, era outsider, fu amore.

Poco più di un anno dopo, infine, cioè nel dicembre 1995, George Weah divenne il primo calciatore non europeo a vincere il Pallone d’Oro, portando a compimento un processo di riconoscimento al contributo del calcio africano verso quello europeo. Fino ad allora nessuno aveva ancora mai premiato gente come Roger Milla o il grande (e coevo di Weah) Abedì Pelè per quanto avevano arricchito il calcio continentale. Vero anche che Weah era diverso da tutto ciò che si era visto prima: un calciatore da amare, a prova di tifoso avversario, perché aveva un passato da outsider (nel Paris Saint Germain partiva spesso dalla panchina), era veloce come una gazzella, potente come la zampata di un leone e soprattutto dotato di sorriso assai più incisivo di un gol allo scadere, nonché di attitudine sudamericana nel rapporto con il pallone, Weah era un danzatore che si divertiva a fare quello che faceva, e lo faceva bene, ma uno dei suoi più grandi meriti in assoluto fu il fatto che nel ‘96 il giocatore più famoso e forte al mondo, e quindi l’idolo di parecchi bambini, era per la prima volta africano.

I nuovi idoli, in questa atmosfera, andavano dunque cercati lontano dal talento austero ma glaciale dei Laudrup, dei Klinsmann, dei Litmanen, degli Shearer. Ironia della sorte, Weah non avrebbe mai preso parte a un Mondiale con la sua Liberia, ma avrebbe aperto le porte del calcio che conta a numerosi fratelli africani, e solo pochi tra questi avrebbero raggiunto i suoi livelli e i suoi traguardi sportivi.

Hadji, M’boma e gli altri

L’onda lunga della fascinazione per il calcio africano aveva esteso i suoi influssi fino alla pioggia di colori di Francia 98, Improvvisamente tutti volevamo sapere tutto sui talenti che venivano dalla Confederation of African Football, ma all’epoca internet era ancora per pochi, una specie di circolo del tennis per ricchissimi raggiungibile solo in bassa stagione, tramite jet privato. L’unico modo per documentarsi sugli altri, e cioè su calciatori che non giocavano nel nostro campionato ma in quello giapponese o, alla meglio, in squadre di seconda fascia della Ligue 1, era attraverso le riviste specializzate o le pagine del televideo. In ogni caso si sarebbe letto più di quello che si sarebbe visto, nell’epoca pre-Youtube. Per quanto ne sapevamo noi ragazzini i maggiori talenti delle Nazionali africane erano tutti fenomeni, ma sulla fiducia. Per la prova del 9 bisognava aspettare l’estate.

Ricordo che due dei più attesi erano il marocchino Mustapha Hadji, che si era già messo in luce con un gol contro l’Olanda durante i Mondiali del ’94, e il camerunense Patrick M’Boma. Il primo era davvero qualcosa di speciale da vedere, quintessenza dell’esterno anni ‘90 che veniva considerato centrocampista tout court e non attaccante. Hadji sembrava prendere molto sul serio questa interpretazione del ruolo: tecnicamente eccelso, dribblomane ma con stile, lucido nelle scelte e soprattutto veloce come il vento che soffia nella tempesta, giocava molto, molto lontano dalla porta e, sempre da lì, tirava. E infatti non ha segnato abbastanza gol da venire considerato davvero un’ala, nella sua carriera, nonostante si trattasse di uno di quei giocatori che se solo fossero nati in Spagna avremmo visto sfrecciare sulle fasce dell’Inter o della Lazio di quegli anni. Avvolto in quella maglia rossa e verde (o verde e rossa in alternativa) al limite del fluorescente, e dotato di lunga coda riccia impomatata e raccolta con un elastico, aveva il physique du rôle della rockstar.

GettyImages-1637896
Moustafa El Hadji in azione durante una gara di Francia ’98 contro la Norvegia (Stu Forster/Allsport)

Paradossalmente, quell’anno, segnò più gol di lui il meno sponsorizzato Salaheddine Bassir, seconda punta di soli 168 centimetri, molto propositivo e dai piedi discreti, autore di una doppietta in quel Mondiale sfortunato per il Marocco, fatto di ottime prestazioni ma ottenute in un girone in cui una sola vittoria non poteva bastare. In difesa c’era Noureddine Naybet, e chi ama il calcio spagnolo e quello inglese se lo ricorderà bene.

Patrick M’Boma, invece, era un centravanti atipico, perché nonostante fosse assai potente fisicamente se possibile era ancor più leggiadro di Weah, ma assai meno concreto e costante, – ricordiamo la sua esperienza intermittente al Cagliari, dove in due stagioni non raggiunse mai la più timida doppia cifra – tanto che non riuscì mai a diventare protagonista in un club europeo di primissimo piano nonostante fosse cresciuto nelle giovanili del Psg -, né a eccellere nella cornice di un Mondiale. Eppure quello fu un po’ il suo unico tabù con la maglia della sua Nazionale, dato che nei quattro anni successivi vinse con i Leoni Indomabili due Coppe d’Africa e un oro alle Olimpiadi di Sydney. Solo Samuel Eto’o ha segnato più di lui, avvolto in quella sgargiante e calda maglia verde-rosso-gialla. Questo non avrà fatto di lui uno tra i più grandi di tutti i tempi, ma di sicuro è servito a farne qualcosa in più di un local hero. Peccato per quel Camerun del ‘98, in generale poco solido e smaliziato, perché oltre a M’Boma, poteva contare su altre leggende del calcio africano come il difensore Rigobert Song (passato anche dalle parti di Salerno), un giovanissimo Samuel Eto’o e il portierone Jacques Songo’o.

Hadji quasi come Ronaldinho, contro la Norvegia al Mondiale 1998

Hadji, al tempo del Mondiale di Francia, giocava nel Deportivo La Coruna, M’Boma nel Gamba Osaka (!!!). Ora io dico Gamba Osaka e chi legge si farà un’idea assai meno entusiasta di quella che avevamo noi ragazzini, ma perché gli manca la prospettiva dell’epoca. Nel pre-internet si passava dal Parma in finale di Coppa Uefa all’amichevole con il Palmeiras in precampionato, dallo strapotere europeo di Manchester United e Real Madrid alla favola del Castel di Sangro, ergo Gamba Osaka suonava esotico, alieno, stuzzicante come una versione super saiyan della New Team di Oliver Hutton.

Nel limbo che ti separava del fischio d’inizio del Mondiale tutto ciò che avevi avuto a disposizione erano la familiarità con quei pochi talenti africani che giocavano in Serie A. Dovevi cioè basarti su Phil Masinga, che tutto sommato, oltre a essere un Weah molto meno scattante, molto meno potente e assai più dinoccolato, era metà dell’artiglieria pesante del Sudafrica. L’altra metà era Benni McCarthy, all’epoca promessa dell’Ajax, uno dai pochi gol ma costanti, e soprattutto in grado di fare tanto, tanto movimento. Benni avrebbe avuto un’onesta carriera in squadre come Ajax e Blackburn Rovers, con 10 anni di ritardo però rispetto ai periodi d’oro di entrambi i club. Masinga non segnò neanche un gol in quel Mondiale, delegò a un altro giramondo degli anni a venire: Shaun Bartlett, autore di una doppietta, ma le cui segnature non bastarono a far passare il turno al Sudafrica, e anche quella maglia bianca, oro e verde, forse la più fantasiosa in assoluto del torneo, la salutammo dopo sole tre apparizioni.

L’Armata Verde e il Gigante di Ghiaccio

Chi non deluse le aspettative fu la Nigeria, una garanzia in quella seconda metà degli anni ‘90. La base solida del ‘94 era arrivata in Francia con una veste rinnovata: innanzitutto stavolta era allenata dal cittadino sotto ogni cielo Bora Milutinovic, ma poi era anche arricchita della saetta dell’Ajax Babangida, un trenino sinistro a cui non abbiamo fatto in tempo a prendere la targa, dal difensore treccioluto Taribo West, beniamino degli interisti, e dal Cigno Nero Nwankwo Kanu. Immaginate ora un Julian Ross africano e spilungone, un po’ centravanti dai piedi buoni e un po’ regista avanzato dal baricentro molto alto, immaginatelo per tutta la carriera in bilico tra lo status di stella e quello di oggetto misterioso e comunque non saremo riusciti né io né voi a restituire a questo personaggio la poesia che ha accompagnato la sua narrazione agonistica, che meriterà altro approfondimento.

L’insieme di queste figure calcistiche, messe vicine al talento schizoide e surrealista di Jay Jay Okocha, alla sostanza di “Mimmo” Oliseh, all’esperienza di Ikpeba e agli armadi Yekini e Amokachi costituì l’Armata Verde contro cui si schiantarono le Furie Rosse. La Nigeria fece polpette in rimonta della Spagna di Raùl, Hierro e Luis Enrique e passò il girone come prima con 6 punti, ma agli ottavi dovette arrendersi alla sontuosa Danimarca dei fratelli Laudrup, di Schmeichel, Sand e Helveg, che in quell’occasione sfoderarono tutto il loro mix di raffinato talento e cinica concretezza. Ironia della sorte, la Nazionale africana più compatta e interessante di quegli anni fu spazzata via da un poker di una gelida, nordica europea.

 
Il 4 a 1 con cui la Danimarca eliminerà la Nigeria

Cosa resterà

Al calcio che è venuto dopo Francia ’98 il continente africano ha regalato sì una manciata di top player dal valore mondiale, ma a livello di esperienze di squadra poca, davvero poca continuità. C’è stato l’exploit da una notte del Senegal ai Mondiali del 2002 e le promesse non mantenute della seconda genesi del pallone nigeriano, troppo dipendente dagli alti e bassi dei Martins e degli Obinna. Nonostante poi l’ultimissima generazione – guidata carismaticamente da John Obi Mikel – abbia vinto la Coppa d’Africa nel 2013 e bissato il raggiungimento degli ottavi nel mondiale brasiliano del 2014, non è comunque riuscita ad avere lo stesso impatto culturale e sportivo dei predecessori di cui sopra. C’è stato inoltre il consolidamento del Ghana, nell’ultimo decennio, come nuova realtà stabile (peccato per la poco vivace divisa bianca), con ben due secondi posti in cinque anni nella Coppa d’Africa e i quarti di finale raggiunti nel Mondiale del 2010.

Certo è che a una seconda, auspicabile ondata di quell’entusiasmo panafricano non fa bene l’ansia tutta europea – soprattutto francese e tedesca – di accaparrarsi giocatori naturalizzati per sopperire alle mancanze nei loro vivai, operazione che farà anche bene alla carriera internazionale del singolo atleta ma che, di fatto, prosciuga il bacino di molte nazionali che in questo modo sono condannate a rimanere “minori”. Riguardo invece i top player che hanno raggiunto – e forse anche superato – la grandezza di Weah è scontato ma anche doveroso chiamare in causa Samuel Eto’o (che all’epoca andava a scuola da M’Boma, prima di doppiarlo a destra) e Didier Drogba. Proprio quest’ultimo, tra l’altro, è stato probabilmente il più grande giocatore dell’unica compagine africana in grado di offrire un accenno di continuità a livello internazionale negli anni recenti, la Costa d’Avorio, una squadra che in quanto a colori e magliette sgargianti, col suo mix di arancione e verde, non ha nulla da invidiare a nessuna delle precedentemente citate ma che, proprio come il Ghana, in quel Mondiale di Francia non c’era.

Ivory Coast national football team players react with disappointement after losing the African Cup of Nations final football match between Zambia and Ivory Coast on February 12, 2012, at the Stade de l'Amitie in Libreville. Zambia won the match during the final penalty shootout. AFP PHOTO / FRANCK FIFE (Photo credit should read FRANCK FIFE/AFP/Getty Images)
II giocatori della Costa d’Avorio si disperano dopo la sconfitta in finale di Coppa d’Africa 2012 contro lo Zambia (Franck Fife/Afp/Getty Images)

Ne deriva la sensazione che quella primavera del calcio africano, che tanto abbiamo amato, sia così bella a guardarla indietro ora per quello che ha significato più che per il segno lasciato nel tempo, e soprattutto per la peculiarità dei suoi protagonisti, talenti anarchici come le sorti stesse del gioco e perciò impossibili da riprodurre in serie. Si tratta forse di una memoria pura e sacrale perché irripetuta e, forse, irripetibile. In generale, quell’esperienza ingenua ma significativa a cui ora affibbiamo la sardonica etichetta di vintage, ci è rimasta così cara per la sua allegria, per la facilità e leggerezza con cui rubava la scena ai colossi europei e sudamericani, per quel senso di riequilibrio karmico nel’ immaginare una sua vittoria, per quell’entusiasmo che appartiene alla dimensione del gioco puro più che all’ansia di vittoria a tutti i costi, e per quei colori. Soprattutto per i colori.

Nell’immagine in evidenza Daniel Amokachi mentre festeggia la sua seconda rete nel match di Usa ’94 contro la Bulgaria (David Cannon/Allsport)