Undici in collaborazione con Puma Eyewear presenta #NoCage, il format che raccoglie le storie di 12 personaggi sportivi contemporanei e del passato, che hanno cambiato la storia dello sport superando le barriere e gli ostacoli grazie alla determinazione e alla forza di volontà.
Non è vero che non sudi. Non sei un dio. Non lo sei per gli altri. Non lo sei ancora per te. Lo stai diventando. Sulla pelle nera e nuda il sudore sa di sale, cristalli che si addensano e luccicano sotto i fari, tutti intorno è notte, sono le quattro e la jungla non dorme. Nessuno dorme. Da nessuna parte. Gli occhi sono tutti qui. Il sale scivola, dalla testa alle sopracciglia e sulle spalle, sul petto senza cicatrici, sulle braccia di lava nera, le gambe di granito, e giù a sfiorare le unghie, dove il nero diventa onice. È così anche per l’altro, George, un eroe umano, con i pugni più robusti di chiunque, più di Rocky Marciano, più di Joe Louis, più degli ultimi due che ti hanno fatto inginocchiare dopo il rientro, dopo la squalifica. Ha massacrato Frazier e abbattuto Norton, quello che ti ha spaccato la mascella. Il segreto per deragliare dalle leggi degli uomini è dire al sale che è rugiada. È sempre sudore, ma si volge alla speranza, al futuro. È gravido. È possibilità. E torna ogni mattina, quando si apre il giorno, ogni volta, per sempre. È solo così che le tue parole, quello che sei, il tuo labbro, il tuo sguardo, l’ombra che lasci dopo ogni scarto di lato, si raccontano come leggenda. Solo che prima devi sudare, come nessuno ha mai fatto, pagare, pagare tutto, ogni sillaba, ogni sbruffonata, ogni pensiero gettato lì come inganno, giocando pure tu alla fiera delle parole, sapendo che gli stolti strafogano tutto e chiedono meraviglia da vendere come cianfrusaglia. Ti suderai ogni no, e sarà rugiada.
Kinshasa. Rumble in the Jungle. Primo round. Ali lo cerca, si muove, prende il centro del ring, e attacca. È più pensante di un tempo. Non danza. Non punge. Picchia. Picchia forte. Sembra che davvero voglia chiudere tutto in fretta, un paio di volte prova perfino ad affondare il suo gancio sinistro. Foreman tutto questo non se lo aspetta. Muhammad Ali non fugge. Quasi non ha grazia. È un animale infuriato che evoca i suoi avi, tutti i Cassius Clay rinnegati e riesumati. C’è qualcosa di folle o di stupido. Quello che Foreman non sa è che questa non è una rissa nella giungla, non è rombo, rimbombo, rumore. È rivelazione, epifania, metempsicosi, è un rito orfico, come in Euripide: «Chi sa se il vivere non sia morire e il morire invece vivere». È la porta dove Ali deve passare ed ha bisogno di tutto il furore di Foreman. Lo incalza perché lo vuole fuori di senno, lo vuole cattivo, come George non è stato mai. Foreman è un nero buono. Nessuno si inganni a vederlo, quel corpo che fa spavento, quella forza immane da demonizzare quel cuore nero, così nero, è un cuore innocente da nero. «Ci insegnano ad amare il bianco ed odiare il nero. Il colore nero significa essere tagliato fuori, ostracizzato. Il nero era male. Pensiamo a blackmail. Hanno fatto l’angel cake bianco e il devil’s food cake color cioccolato. Il brutto anatroccolo è nero. E poi c’è la magia nera… Quel che voglio dire è che nero è bello. Nel commercio il nero è meglio del rosso. Pensate al succo di mora: più nera è la mora, più dolce il succo. La terra grassa, fertile, è nera. Il nero non è male».
Il campione dei pesi massimi Muhammad Ali durante la conferenza stampa prima dello scontro con George Foreman a Kinshasa(Str/Afp/Getty Images)
George è buono, come sono buoni i neri che hanno trovato un posto nella casa dei bianchi. E lo spazio di George è il ring. Quattro corde dove sentirsi invincibile. Quattro corde dove non fai paura. Quattro corde per gli applausi. Quattro corde e sei un campione. Quattro corde ed è un confine. È quello che volevano da te, da quello che eri, dal Cassius Clay che regala all’America una medaglia d’oro. Roma, Olimpiadi, 1960, mediomassimi e un ragazzo di 18 anni che combatte a guardia bassa. C’è già tutto, la sorpresa, l’orgoglio, la storia da raccontare, Foreman sarebbe soltanto la tua copia. Cosa cambia? Città del Messico invece di Roma. Ma George non sei tu. George in questo ring ci vuole stare in eterno. Non immagina neppure un dopo. Dio è nel suo angolo. E questa è la sua chiesa. Non la tua. Nella tua non ci sono corde. Non c’è quadrato. Non c’è confine. Il tuo ring è dove sono le tue parole e il tuo sguardo. Il nero per l’America è l’uomo invisibile. Non ha volto. Non esiste. Ma l’invisibilità è la forza del «più grande». La fragilità diventa la tua danza. Sei una voce. Una voce che non smette più di parlare. E una voce non puoi afferrarla. La voce ti sfida. Ti dice: voi non mi vedete, ma io esisto. E non solo esisto. Sono il più forte, il migliore. Sono il più bello. «Il combattimento è vinto o perso lontano dai testimoni, dietro le linee, in palestra, e là fuori sulla strada; molto prima che io danzi sotto quelle luci». La tua chiesa sei tu.
Cassius Clay contro Zbigniew Pietrzykowski ai Giochi Olimpici di Roma 1960
Kinshasa. Rumble in the Jungle. Secondo round. Ora lascialo sfogare. Si vede la rabbia. Qui gridano Ali, bomaye ma è lui che deve trovare la voglia di farlo, di pensarlo. Non Ali ammazzalo, ma il contrario. Provaci George. Sfogati. Prova ad essere davvero cattivo. Ali sceglie l’angolo del sacrificio. Si piazza lì. Alza la guardia. La tiene chiusa e aspetta. Aspetta i colpi: fegato, guanto, testa, braccio, fegato, milza, testa, guancia, guanto, guardia, braccio, ancora, ancora, ancora. Fino a quando a Foreman non cadranno le forze. Ora Ali è il nero più nero. Sei Emmett Till. Ti ricordi quella storia? Avevi 13 anni. Non parlavi con nessuno, solo con i fantasmi. Uno in particolare, un ragazzo poco più grande di te, massacrato il 28 agosto del 1955 a Money, Mississippi. La faccia maciullata, ore e ore di calci e pugni, uno a terra contro tanti. Aveva alzato lo sguardo su una donna bianca. Gli hanno cavato l’occhio e poi un colpo di pistola dritto in faccia, per poi gettare quel sacco di carne nel fiume Tallahatchie. Al collo come zavorra, legata con filo spinato la pala di una ginnatrice, serve per lavorare il cotone. Rimase nel fiume per tre giorni. Tutti i neri ricordano quel funerale, la bara aperta, per vedere. I bianchi, gli assassini, furono tutti assolti. Non abbastanza le prove. Nessuna colpa. È da quel giorno che il nome Cassius Clay ti suona male. Chi sei? Chi è Cassius Marcellus Clay? È il nome di uno schiavista. È allora che comincia il dialogo con il tuo demone. È la voce. Tu sei il megafono. Lei parla, tu parli. Lei dice. Tu fai. Come quando hai buttato la medaglia d’oro di Roma nel fiume Ohio, dalle parti di Louisville, Kentucky. A fondo, come il corpo del ragazzo di Money. «Ascolta, Emmett, ascolta la mia promessa: a te che non hai più una faccia, io darò la mia. Andrai per il mondo con i miei occhi e la mia bocca, sotto la protezione dei miei pugni».
Kinshasa. Rumble in the Jungle. Terzo round. Questo che racconta è Norman Mailer: «Quando mancano solo pochi secondi, Foreman tira il pugno più forte di tutto il match, un gancio sinistro potente come un treno, che solca la notte con il suo passaggio. È stato appena un po’ troppo lento. Ali lo lascia passare nel modo languido e senza fretta di Archie Moore che osserva un gancio mancare il suo mento di un centimetro. Mancando l’impatto, Foreman perde l’equilibrio al punto che Ali potrebbe gettarlo attraverso le corde. – Niente – dice attraverso il paradenti. – Non hai mira». Picchia George picchia. Tu porti il nome di un bianco, George Edward Foreman. Ti piace essere bianco. Ti piace quando ti chiamano il Marciano nero. Ma questo è Ali e sa incassare. Non dirlo forte, perché questo è un vero segreto. Non puoi essere il più grande se non sai incassare. S’impara a resistere. Non è che non ti fa male. Senti il dolore, lo controlli, lo superi, lo dimentichi, ti appoggi sulle corde, dondolando, per attutire i colpi, ma non scansi, non scivoli, non diventi invisibile, lasci solo che tutto si compia e paghi il prezzo. «Chi non è abbastanza coraggioso da assumersi le proprie responsabilità non compirà niente nella vita». Non ce la fai George. È tutto qui? «Mi hanno detto che potevi colpire come Joe Louis». Dicevano che picchiavi più forte. «Mi hanno detto che sai dare pugni, George!». Norton ha esagerato: «La sera che mi confrontai con lui fu mostruoso: l’impersonificazione, per cinque minuti, dell’Armata Rossa all’attacco». Picchi ma non fai male. Hai fatto di Frazier uno jo-jo? Doveva essere indisposto quella sera. Non sei abbastanza cattivo. Non sei così forte. No, George, «non mi butti giù». E non importa che non è nuova, questa. Ali non è un toro scatenato. Non è il La Motta nero. Ali è tutto.
Kinshasa. Rumble in the Jungle. Quarto round. Ti lego, ti aggancio, basta appoggiarsi a te, al tuo corpo. Resistenza passiva. C’era un’altra giungla e sapeva di inferno. Qualcuno dice che l’America lì ha perso l’innocenza. No, ha solo scoperto la paura. L’innocenza era già stata seppellita sulla linea Mason&Dixon, nello scontro tra il blu e il grigio, nel Kentucky e nel Tennesse, nella valle dello Shenandoah e a Gettysburg, nei fuochi e nel fango della marcia di Sherman. O semplicemente non l’ha mai avuta e bastava ascoltare i canti sui campi di cotone. Nessuna guerra è la tua guerra. Non lo sarà il Vietnam. «La mia coscienza non mi permette di andare a sparare a mio fratello o a qualche altra persona con la pelle più scura, o a gente povera e affamata nel fango per la grande e potente America. E sparargli per cosa? Non mi hanno mai chiamato negro, non mi hanno mai linciato, non mi hanno mai attaccato con i cani, non mi hanno mai privato della mia nazionalità, stuprato o ucciso mia madre e mio padre. Sparargli per cosa? Come posso sparare a quelle povere persone? Allora portatemi in galera. Siete voi il mio nemico, il mio nemico è la gente bianca, non i Vietcong i cinesi o i giapponesi. Voi siete i miei oppositori se voglio la libertà, siete voi i miei oppositori se voglio giustizia. Siete voi i miei oppositori se voglio uguaglianza. Voi non mi sosterrete mai in America per il mio credo religioso. E volete che vada da qualche parte e combattere. Ma difenderete mai voi me qui a casa?». È per questo che adesso non può più pungere e danzare. Sono passati quattro anni da quando è stato punito: via il titolo, via la licenza per combattere. Tre anni e mezzo fermo. Che fai quando torni? Non sei più lo stesso. Il nemico ti vede, ti prende, ti colpisce. Non sei più invisibile. Quando perdi la velocità, quanto fai i conti con la lentezza, puoi solo cambiare il tuo modo di combattere. Non ti arrendi, non pieghi la testa, non scappi. Stanchi il tuo nemico. Come Mandela nel suo carcere.
No Viet Cong called me nigger
Kinshasa. Rumble in the Jungle. Quinto round. Adesso i colpi arrivano più deboli. Lo sai come si chiama questo, George? Rope-a-dope. È il consiglio di un fotografo sportivo, George Kalinsky, George come te. «Perchè non provi qualcosa del genere? Una sorta di droga tra le corde, lasciando che Foreman scivoli via ma, come nella foto, fargli colpire nient’altro che l’aria». È l’arte di sopravvivere in difesa. È lasciare che gli altri si sfiniscano. È il libro di Giobbe. «C’era nel paese di Uz un uomo che si chiamava Giobbe. Quest’uomo era integro e retto; temeva Dio e fuggiva il male». Giobbe soffre senza colpa. Giobbe è una cinica scommessa di Dio. Satana dice che questo benedetto dalla Bibbia e dal Corano sia devoto solo perché teme di perdere la sua ricchezza. Dio è sicuro che sia puro amore, ma lo mette alla prova. Giobbe perde la casa, la famiglia, la moglie, il rispetto, la dignità, ma non smette di amare. Non si arrende. Incassa. Incassa la malasorte e l’ingiustizia. E quando Giobbe viene toccato dalla disgrazia e la moglie lo incita a maledire Dio e a morire, non rinnega e risponde: «Tu parli come parlerebbe una stolta. Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremmo accettare il male?».
La verità è che la scommessa di Dio non ha ragioni. È un gioco, fine a se stesso. Quello che conta davvero è la resistenza di Giobbe. Ma sai come finisce, George? Conosci la risposta di Dio? Quasi vaneggia, o così sembra. «Sei mai giunto alle sorgenti del mare e nel fondo dell’abisso hai tu passeggiato? Sei mai giunto ai serbatoi della neve, hai mai visto i serbatoi della grandine? Chi ha elargito all’ibis la sapienza o chi ha dato al gallo l’intelligenza? Sai tu quando figliano le camozze e assisti al parto delle cerve? Chi lascia libero l’asino selvatico e chi scioglie i legami dell’onagro? L’ala dello struzzo batte festante, non è forse penna e piuma di cicogna?. Forse per il suo senno si alza in volo lo sparviero o al tuo comando l’aquila si innalza?». Tutto questo ben di Dio, snocciolato come non senso, per poi colpire all’improvviso di gancio sinistro. «Dov’eri tu quand’io ponevo le fondamenta della terra?». È questa la risposta di Dio. Caro Giobbe, tu dov’eri mentre creavo l’universo? E soprattutto, cosa vuoi? Di che ti lamenti? Pensi davvero che sto qui a preoccuparmi di una nullità come te? Ecco George, Ali impara la lezione di Giobbe per essere come Dio. Tu intanto picchia e picchia duro.
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Kinshasa. Rumble in the Jungle. Sesto round. Angelo ti accarezza le spalle, finge di bisticciare con il guantone per rubare tempo al gong. Respira, Clay respira. Non importa se ti chiama con il nome da bianco. Angelo Dundee, l’italiano di Filadelfia, come te ha cambiato nome, perlomeno un pezzo di nome. È nato Angelo Mirena, refuso made in Ellis Island di Merenda, gente di Roggiano Gravina, cosentina, meridionali come Salvatore Lazzara, campione del mondo dei welter nel 1927. Salvatore Lazzara che per trovare pace in America si fece chiamare Joe Dundee. E anche Angelo divenne Dundee. Perché pure gli italiani sono stati invisibili, sono stati pezzenti, sono stati appesi a una forca. Angelo ti ha difeso quando hai scelto la nazione islamica, quando hai legato la vita a Malcom X, quando hai parlato troppo, quando hai detto no al Vietnam, e ti ha aspettato fuori dal carcere per riportarti qui, su questo ring. Angelo è bianco senza essere bianco. Non sbatte con la tua identità. Non ti fa dire che i neri stanno con i neri e i bianchi con i bianchi, che non ci può essere contaminazione di razze. Angelo è l’uomo contro cui non vuoi e non ti puoi ribellare. Angelo ha contato tutti i pugni che hai preso. «La gente dice che parlo lentamente oggi. Sai che sorpresa. Mi sono beccato 29.000 pugni in faccia. Ma ho guadagnato 57 milioni di dollari e ne ho risparmiati la metà. Di pugni forti ne ho presi pochi. Sai quante persone di colore vengono uccise al giorno d’oggi da colpi di pistola o da coltellate senza incassare una lira. Magari parlo lentamente, ma la mia testa è a posto».
Kinshasa. Rumble in the Jungle. Settimo round. Le braccia di Foreman sono uno straccio. Sono un tamburo senza più ritmo, la cadenza stanca di una litania. La sua faccia è tumefatta, perché i colpi di Ali sono stati pochi e precisi e George li ha sentiti. Non era pronto. Troppo accecato da rabbia, stizza, foga, paura. Nessuno gli ha insegnato a perdere e adesso sente per la prima volta che potrebbe accadere. Ali bomaye, Ali bomaye, Ali bomaye. Ali uccidilo. Questo cuore d’Africa non riconosce Foreman. Lo sente americano. Non lo sente universale. Ali è tutti gli uomini. Ali sta lasciando la sua parte umana per trasfigurarsi in un dio. Ali sta alla fine del suo calvario. Ali sente che adesso il tempo corre. Ali è il tutto e il tutto è l’America. Ali sta per realizzare la profezia di Ralph Ellison e come lui, l’autore di Invisible Man, bibbia dell’America nera, presto potrà dire: «Quando scoprirò chi sono sarò un uomo libero». I pugni di George sono il suo lasciapassare. Ma lui e George sono sempre di più la stessa persona. Il pugilato è scambio di anime. L’io finalmente è l’altro. «Io sono l’America. Sono la parte in cui non ti riconosci. Ma abituati a me. Nero, sicuro di me, presuntuoso; il mio nome, non il tuo; la mia religione, non la tua; i miei obiettivi, i miei; abituati a me». Potrebbe finire qui, ma Foreman deve conoscere la sconfitta.
Il settimo round del match tra Ali e Foreman
Kinshasa. Rumble in the Jungle. Ottavo round. Dura pochi secondi. Ali esce dalle corde. Si vede un pugno che colpisce Foreman alla nuca. È palesemente stanco. Lo accusa. Ali lo spinge verso il cento del ring. Balla. Parte. Uno, due, tre, quattro, cinque colpi al volto. È difficile contarli. Una scarica veloce, invisibile, inesorabile. L’ultimo è un destro al centro della faccia. Foreman caracolla e cade. Perché George non si alza? Quale segno sta aspettando? Three, four, five, Once I caught a fish alive. Six, seven, eight, nine, ten, Then I let it go again. È finita. Come una filastrocca. Dicono che il Parkinson fosse già lì, accanto a lui, in quell’autunno del ’74 nella giungla. Forse Ali lo sapeva. Ventidue anni dopo fu chiaro a tutti. È il 9 giugno 1996. E Il cielo di Atlanta è buio Coca-Cola. Non brucia più. Sono le Olimpiadi, quelle del centenario. Toccherebbero ad Atene, ma gli sponsor pesano di più.
Il nome dell’ultimo tedoforo è rimasto segreto. Il pubblico non sa chi sarà l’atleta che accenderà il braciere. La penultima è una ragazza dal viso dolce e le braccia forti. È Janet Evans, quattro medaglie d’oro nel nuoto tra 400, 800 e 1500 stile libero. Quando passa la fiaccola si vede un’ombra che si illumina. È lui, ma molti faticano a riconoscerlo. È pesante, si muove a fatica, come una farfalla che si spegne nella notte. Ma quella notte durerà altri vent’anni. Il braccio sinistro trema, la mano destra sembra non reggere la torcia, solo lo sguardo non cambia. È dritto, lontano, fiero, orgoglioso. È lo sguardo del più grande. C’è un silenzio sacro, maestoso, neppure un singulto o un sospiro, si vedono solo le lacrime di un intero stadio luccicare come una costellazione. Come sudore. Come sale. Come rugiada. Ali ha fatto pace con l’America. L’America con se stessa. Non per sempre. Ma quella notte sì. Solo gli dei possono fermare la storia. E a quel punto sarebbe la fine. È la lezione di Giobbe. E Cassius Marcelo Clay, che ha voluto essere Muhammad Ali, l’ha raccontata al mondo, per diventare leggenda. «Dentro un ring o fuori non c’è niente di male a cadere. È sbagliato rimanere a terra».
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