Quando giocavamo Italia-Germania

Una classica che scandisce il tempo del calcio e il tempo delle nostre vite. Il racconto di quattro autori di quattro Italia-Germania: 1982, 1996, 2006 e 2012.

Italia-Germania è una di quelle partite che scandiscono non solo il tempo del calcio, ma anche quello delle nostre vite. C’è almeno un Italia-Germania nella memoria di ciascuno di noi, e che ci restituisce qualcosa di noi stessi. Quattro autori raccontano quattro diversi Italia-Germania: quello del terzo Mondiale, del 1982; quello della delusione e del senso di ingiustizia, del 1996; quello dell’urlo di Grosso, del 2006; quello della doppietta di Balotelli, del 2012.

1982

La cosa bella di vincere un Mondiale a 11 anni è sentire con assoluta convinzione che appartiene a te quanto a Paolo Rossi. La cosa brutta è che mezz’ora dopo ne hai già nostalgia, perché intuisci che dopo una gioia così perfetta la vita non potrà far altro che peggiorare. Io, che nel 1982 avevo undici anni, i capelli a caschetto e 37,8 di febbre tutte le domeniche pomeriggio intorno alle 16:30 (l’ora in cui finiva Tutto il calcio minuto per minuto), non conoscevo né potevo immaginare nell’universo nulla di più importante, grandioso, urgente e solenne che vincere un Campionato del Mondo.

Non così i miei genitori, che quell’estate affittarono un camper e portarono me e mio fratello in vacanza in Francia. Il 5 luglio, mentre Rossi si ridestava in tempo per umiliare il Brasile, io mi trovavo nientemeno che al Louvre («Tanto stravincono loro, che la guardiamo a fare?») non ricordo se davanti a un Rembrandt o a un De la Tour; l’8, all’ora di Italia-Polonia, viaggiavo tra Saint-Malo e la valle della Loira («Dai, contro il Brasile ha portato fortuna non guardarla») senza che i capispedizione avessero previsto soste intermedie. Per la finale con la Germania punto i piedi: «Se non me la fate vedere vi annego tutti nella Loira». Dopo alcune peripezie, raggiungiamo il campeggio alle 8 passate, giusto in tempo per occupare la piazzola di fianco a una famiglia francese tele-dotata, vedere Briegel franare su Bruno Conti e Cabrini scialacquare il relativo rigore. Il resto sono ricordi per lo più spuri, in cui alle emozioni vissute di prima mano e in diretta si sovrappongono impressioni decantate nel corso degli anni e raccolte le altre mille volte che ho rivisto la partita nel disperato tentativo di replicare la stessa gioia incontaminata della prima. Ricordo solo – quello sì – di non aver mai dubitato neppure per un attimo che l’Italia avrebbe vinto. E ricordo anche l’ultimo pensiero prima di addormentarmi quella sera sulla mia amaca sospesa tra i sedili del camper: «Siamo campioni del mondo». Io e Paolo Rossi. Insieme. (Andrea De Benedetti)

1996

Dieci anni, ancora figlio unico, un’estate in macchina a viaggiare tra Umbria e Toscana. Alcune foto di quel viaggio sono ancora su un mobile a casa dei miei genitori: io ho le gambe sottili e delle Superga blu, i denti piccoli e distanziati tra di loro, un casco di capelli. Mio padre ha i capelli neri e la barba folta, nera; anche mia madre ha ancora i capelli neri, corti. Mi impressiona, oggi, il fatto di non ricordarli giovani. In un appartamento affittato a San Gimignano, una cena presto, con il cielo ancora illuminato. Mio padre che impreca piano contro la piccola televisione, dice qualcosa sul fatto che i tedeschi giocano sempre così, non stanno superando la metà campo, guarda, solo lanci lunghi, è una vergogna. Non sapevo ci fossero gli Europei, non mi interessava. Di quell’appartamento di San Gimignano ricordo, non so perché, cuscini morbidi che mi inghiottivano la piccola testa di bambino. Non sapevo perché mio padre ce l’avesse con la Germania in particolare. Ho riguardato pochi giorni fa una sintesi della partita commentata da Bruno Pizzul. Sono passati vent’anni, ma non l’avevo mai vista – o rivista. Non sapevo che Zola avesse sbagliato un rigore, non ricordavo l’assedio alla porta di Enke da parte di Fuser, Donadoni, Carboni, ma oggi capisco quella frustrazione e quell’impotenza e quel senso di ingiustizia. Avrei iniziato a interessarmi al gioco del calcio soltanto il 6 aprile dell’anno successivo, guardando una sconfitta del Milan contro la Juventus per uno a sei. Mi è capitato alcune volte, anni dopo, di commentare quell’Europeo dicendo che però, che vergogna, i tedeschi non hanno nemmeno mai superato la metà campo. (Davide Coppo)

2006

«Dov’eri il 4 luglio del 2006?», mi chiese qualcuno di cui non riesco a ricostruire bene il volto. Risposi con un semplice «Non ricordo». «Cosa significa che “non ricordi”», continuò a incalzarmi il viso indefinito che non riuscivo a mettere a fuoco. «Significa che non ho memoria del dove e come. Solo del perché». Effettivamente non ho memoria del posto in cui ero, ed è strano se penso che quella partita ha segnato una generazione cresciuta su delusioni azzurre che invece sono ben presenti nella nostra mente. Ma non riesco a ricordare il posto esatto in cui ero e con chi: probabilmente gli stessi amici di vent’anni di vita. Vent’anni in cui abbiamo passato a guardare il calcio negli stessi posti, tanto che ora non so distinguerli. Non ho prestato attenzione ai luoghi, mi sono ripromesso di cominciare a farlo da qualche anno. Perché il contesto è importante quanto ciò che accade in campo.

Come in un dialogo scritto da Robbe-Grillet, o un romanzo di Casares, i tempi si fondono e mi confondo. Quanto più mi sforzo di ricordare il dove, tanto più la mente si annebbia. Ricordo di aver festeggiato però, siamo saliti in 7 in una vecchia Bmw decappottabile quasi subito il gol di Del Piero. Le strade di Avellino si sono affollate mentre scendevamo verso il centro dalle strade isolate di una campagna stranamente silenziosa. Un vigile solerte ci ha intimato di scendere, perché «Voi in cinque dietro non potete starci». E allora siamo scesi e abbiamo corso veloce come Gilardino mentre scappa dai tedeschi in transizione, abbiamo voltato l’angolo guardandoci indietro a cercare la Bmw bianca, come se avessimo voluto servire Alex con il 7 sulle spalle. Siamo risaliti e ci siamo persi nel caos di una festa che era per noi nuova ma simile a quelle della promozione. Stesse facce ma colori diversi, al verde solito si era sostituito l’azzurro di maglie dalle fibre sintetiche. Mentre i fumogeni ci ostruiscono i polmoni e l’odore di birra rancida macchia le narici, non pensiamo alla finale. Pirlo, Grosso e Cannavaro. A vent’anni, il mondo nelle mani lo senti almeno per una volta. (Oscar Cini)

2012

Ero teso, no anzi ero rilassato.
«Alla fine si tratta solo di calcio». Inevitabile che qualcuno lo dica, soprattutto prima di certe volte in cui temi la tempesta sportiva, e lo si disse anche allora, in quel bar chiassoso e giallognolo, volgare e rassicurante, un numero imprecisato di birre – non un numero primo, questo son disposto a riconoscerlo – le battute, gli sberloni amichevoli, e qualche urlaccio oxfordiano.
CRUCCHI DI MERDA!
Devo esser sincero: di Europei e Mondiali mi disturba la loro ciclicità, il fatto che si ripresentino ogni quattro anni, e ti costringano a confrontarti con il te stesso di quattro anni prima. Nel mio caso, un ventenne che aveva ancora i capelli lunghi e che smise di studiare per due mesi perché il Bari era stato promosso in Serie A, e la cosa andava festeggiata a dovere. Tempi lontani: di lì a pochi giorni mi sarei laureato, e la testa doveva rimanere concentrata su quello, non sugli Europei.
CRUCCHI DI MERDA!
Già, stavo divagando. Il solito urlaccio mi riportava alla realtà. I tedeschi sono forti. Hanno una bella squadra. E poi sai giocano così, veloci, tecnici, imprevedibili. Ma non avevo voglia di addentrarmi nella discussione. Non quella sera. Spesi il mio fiato per maltrattare verbalmente Balotelli. Non che mi fosse dispiaciuto in quell’Europeo, insomma, era bravissimo ad accentrare su di sé tutte le azioni offensive e a portare pericolosità: però difettava sotto porta, e con l’Inghilterra i suoi errori non erano passati inosservati.
Stavo ancora lamentandomi di Balotelli quando il pallone entrò. Il tocco delicato di Cassano, l’energico colpo di testa di Balotelli. Leggerezza e potenza. La gente balzò in piedi, qualcuno si abbracciava, volavano parecchie birre. Io urlavo, in piedi, agitando le braccia, infilandoci tra le frasi sconnesse qualche critica su Balotelli – nonostante tutto, ci tenevo a essere coerente.
POOOOOPOPOPOPOPOOOPOOOO…..
Adesso eravamo rilassati per davvero, insomma stavamo vincendo, stavamo giocando bene e Balotelli aveva segnato. Mi stravaccai un po’ sulla sedia, un braccio appoggiato sullo schienale, mentre con l’altra mano reggevo una birra sudata. In fondo era bello stare lì, come una famiglia riunita per un pranzo di Natale. Le ragazze, in particolare quelle che non sanno niente di calcio e al massimo si interessano alla partita solo per scegliere chi è il giocatore più affascinante, c’erano anche loro. Era divertente. E in qualche modo mi sentivo parte di una cosa più grande, inafferrabile. E tutti eravamo utili alla causa.
Quando Balotelli segnò il secondo gol, un calcio secco all’incrocio, e la famosa esultanza a torace nudo, l’urlo fu più forte di prima. Ora gli abbracci erano molto più frequenti, più energici, più convinti. Corsi attorno ai tavoli e alle sedie, saltando sulle spalle di chiunque trovassi davanti. Poi mi sedetti, e gustai il sapore della vittoria. Sapevo che l’avremmo portata a casa. Volevo fare come Pertini, non ci prendono più, ma mi limitai a un sorriso sornione. È fatta.
Più tardi, in strada, rimasi a festeggiare fino a tardi, urlando nei finestrini aperti delle auto che procedevano a passo d’uomo. Mi resi conto con colpevole ritardo che i miei amici mi avevano salutato ed erano andati via – sì insomma, è tardi, e poi è periodo di lauree ed esami per tutti. Li avevo lasciati andare, ma io sarei rimasto là, a festeggiare con chi capitava. Ma sì, alla fine si tratta solo di università. (Francesco Paolo Giordano)