Tra il 1826 e il 1833, Katsushika Hokusai pubblicò una serie di 36 xilografie policrome con soggetto il Monte Fuji, ritratto in stagioni diverse e da punti di osservazione variabili. Vento, cielo sereno, tempeste di pioggia, tsunami. La grande onda di Kanagawa, la stampa più famosa, diventò in breve tempo una delle immagini più famose al mondo, e all’artista fu commissionata una serie aggiuntiva di 10 ulteriori vedute. L’ossessione di Hokusai per il Fuji era legata al valore culturale e religioso che il vulcano riveste nella tradizione popolare giapponese. Secondo la Storia di un tagliabambù, il più antico esempio di narrativa nipponica, il fumo che sale dalla cima del monte deriva dall’elisir dell’immortalità depositato lassù dalla Principessa splendente.
Poche altre montagne rivestono un ruolo altrettanto evocativo nella storia dell’arte e della cultura mondiali. Vengono in mente il Vesuvio, il gigante più immortalato di sempre, e lo Snæfellsjökull, il ghiacciaio islandese sulle cui pendici Jules Verne fissò il passaggio verso il centro della Terra. Non è un caso che sempre di vulcani si tratti. Escludendo dalla lista i monti con dentro il fuoco primordiale del nostro pianeta, invece, una delle primissime vette a palesarsi nella memoria collettiva è certamente il Mont Ventoux. Il gigante della Provenza, per aspetto, storia, posizione geografica e condizioni meteorologiche racchiude una simbologia ricchissima; nella nostra epoca, ineguagliata.
La sua conformazione fisica, con i cedri che salendo si diradano fino a scomparire e il mistral che cresce di forza ad ogni metro, lo rende da sempre manifestazione concreta dell’idea scolastica di natura naturans; le vicende del ciclismo ambientate lungo i suoi rari tornanti lo hanno consacrato luogo misterioso del triplice incontro tra l’uomo, i suoi limiti e la morte. Il Ventoux fa ancora paura. Fa paura perché non concede respiro. Fa paura perché non perdona. Fa paura perché è esecutore del destino. Fa paura perché sono tornati i lupi. Nel seguito vengono proposte dieci vedute del Monte Ventoso, ovverosia dieci differenti prospettive narrative della montagna francese, partendo da Petrarca e arrivando a Gianni Mura, passando per romanzi e proverbi provenzali. I contributi sono divisi in tre sezioni (il mito, le tragedie, le imprese) e cullano l’ambizione di raccogliere il meglio di quanto è stato detto e scritto su uno dei posti meno raccomandabili del mondo. Per questo, tra i più affascinanti.
IL MITO
Il Mont Ventoux è geologicamente più vecchio delle Alpi: il suo pallore è l’esito di migliaia di anni di lavorìo degli elementi. È certo che i Romani lo conoscessero, ma i primi scritti in cui compare ufficialmente risalgono al XIV secolo. Francesco Petrarca, che trascorse in Provenza alcuni anni della sua giovinezza, si decise a scalare il monte come esercizio spirituale: la sua lettera all’amico Dionigi è considerata il primo resoconto alpinistico della storia. Il secondo e il terzo contributo della sezione sono due definizioni del monte date rispettivamente dal poeta Frédéric Mistral, premio Nobel per la letteratura nel 1904, e dal semiologo Roland Barthes, uno dei più influenti intellettuali francesi del XX secolo. Nell’ultima parte della sezione, infine, il monte calvo è raccontato dall’ottica di tre autori contemporanei: Allen Weiss, drammaturgo americano; Paul Fournel, scrittore francese, e Bert Wagendorp, romanziere olandese: il loro Ventoux è un viaggio del corpo, dello spirito e della memoria.
1. L’ascesa
Sono salito sul più alto monte di questa regione, chiamato giustamente Ventoso. Da molti anni mi ero proposto questa gita; come sai, infatti, per quel destino che regola le vicende degli uomini, ho abitato in questi luoghi sino dall’infanzia e questo monte, che a bell’agio si può ammirare da ogni parte, mi è stato quasi sempre negli occhi. […] Finalmente, con un servo ciascuno, abbiamo cominciato la salita, e molto a stento. La mole del monte, infatti, tutta sassi, è assai scoscesa e quasi inaccessibile, ma ben disse il poeta che «l’ostinata fatica vince ogni cosa». (Francesco Petrarca, Ascesa al Monte Ventoso, 1336)
2. La paura
Un fan si ferma al memoriale dedicato a Tommy Simpson (Charlie Crowhurst/Getty Images)
Visto da Nord, il Ventoux è spaventoso: si potrebbe dire un muro. / Appare, grandiosamente cesellato fino in cima; / Una nera corona di alberi, / Una foresta di larici, linea calcata, funge da feritoia / E da portale del formidabile bastione. (Frédéric Mistral, Mes memoirs, 1866)
3. La calva dannazione
Fisicamente il Ventoux è terribile. È calvo. È l’essenza dell’aridità. Il suo clima lo rende un terreno dannato, un luogo adatto agli eroi. È come il più alto degli inferni. Il Ventoux è un Dio del Male al quale bisogna sacrificare. Non accetta debolezze ed esige un ingiusto tributo di sofferenza. (Roland Barthes, Miti d’oggi, 1957)
4. Provenza in assenza
Una veduta del panorama lunare offerto dal Mont Ventoux (Boris Horvat/Afp/Getty Images)
Il Mont Ventoux è allo stesso tempo il cuore della Provenza e l’antitesi della Provenza. È iperbolico in tutti i suoi aspetti: eminentemente visibile da quasi tutte le zone della Provenza, è il punto più alto della regione con i suoi 1912 metri; la sua cima, appropriatamente chiamata Col des Tempêtes, è costantemente schiaffeggiata dal vento, che nel febbraio 1967 soffiò a 320 all’ora, un record del mondo; la visibilità dalla cima è leggendaria; è stato descritto in termini di assoluta austerità, comparato a una pila di pietre rotte per riparare le strade. Quello che condivide con altre montagne calve è la natura diabolica: le pendenze sono così proibitive e terrificanti da far credere a qualcuno che in una delle caverne, la Baume de Méne, ci sia un’entrata dell’inferno. È difficile credere che questa sia la stessa Provenza che ha prodotto guide di viaggio vendutissime e idilliaci racconti; la Provenza del sole e degli ulivi, del miele e del timo selvatico, delle vigne e dei campi di lavanda. Paradossalmente, il Mont Ventoux rappresenta, nel cuore della Provenza, un avvertimento contro il turismo e lo sviluppo, contro la modernizzazione e l’appropriazione. Il Ventoux è un’anti-Provenza. (Allen S. Weiss, The wind and the Source – In the shadow of Mont Ventoux, 2002)
5. Identificazione
Il Ventoux non ha un sé. È la più grande rivelazione di te stesso. Semplicemente ti restituisce la tua fatica e la tua paura. Ha totale consapevolezza del tuo stato di forma, della tua capacità di essere felice in bicicletta, e di essere felice in generale. È te stesso che stai scalando. Se non vuoi conoscerti, rimani a valle. (Paul Fournel, Vélo, 2012)
6. Marmo nero
Feci irruzione nella stanza con le mie scarpe da ciclismo ai piedi. André mi diede un asciugamani e mi mostrò dove fosse il bagno. Il pavimento era ricoperto di marmo nero. Quando osservai più da vicino le mattonelle rosso scuro con simboli geroglifici sui muri, vidi piccole figure egiziane su delle bici da corsa.[…] «Leggo libri di poesia e filosofia medievale. Vado alle aste di incunaboli. Lo sai cosa sono? Ti ricordi la biblioteca di Walburgiskerk, con quei libri antichi incatenati? Ci andavamo una volta all’anno con la classe. Li trovavo affascinanti anche allora». «André, cazzata. Stavi tutto il tempo a tirare le catene. Facevi diventare pazze le persone». Sorrise.«Quello voleva dire essere un ragazzaccio. Vieni con me». Nel suo studio c’era una classica scrivania inglese. Su tre pareti c’erano scaffali riempiti ordinatamente di libri. Sulla quarta pendeva una foto di noi sei in cima al Mont Ventoux. Si diresse verso la foto e indicò Peter. «Ha il destino segnato, ma ancora non lo sa». Sfiorai la faccia di Peter con un dito. (Bert Wagendorp, Ventoux, 2015)
IL BUIO
Il Tour de France transitò per la prima volta in cima al Ventoux nel 1951; il primo arrivo di tappa nel 1958: fu il leggendario Charlie Gaul ad alzare le braccia per primo all’ombra dell’osservatorio meteorologico. Da allora soltanto altri 8 arrivi di tappa in cinquant’anni, a testimoniare la volontà dell’organizzazione di preservare straordinarietà e mistero dell’evento. La maledizione del Ventoux non ha risparmiato il più grande campione della storia del ciclismo, Eddy Merckx, che nel 1970 ebbe un malore dopo la linea del traguardo. Prima di lui, c’era stato il drammatico approccio di Ferdi Kübler, ricordato di seguito in un brano di Marco Ballestracci, e, soprattutto, la morte di Tom Simpson, riportata alla memoria da Mario Fossati. La stele in memoria del ciclista inglese è uno dei motivi principali che spingono ogni estate migliaia di cicloamatori a cimentarsi con le pendenze del Ventoux.
7. Una montagna diversa
Il 18 luglio 1955 il Giro di Francia affrontava per la terza volta il Mont Ventoux, ascendendolo, come già nel ’52, da Bédoin. La tappa andava da Marsiglia ad Avignone e fin dalla partenza il sole più spietato picchiava sulla strada. Nel caldo torrido, in mezzo al frinire delle cicale, Ferdi Kübler attaccò poco prima di Bédoin. […] Al cambio di pendenza, all’uscita della curva di Saint-Estève, Kübler aumentò baldanzosamente l’andatura, tanto che Géminiani lo affiancò e gli chiese: «Ma tu hai mai fatto il Ventoux?» In piedi sui pedali, lo svizzero rispose seccato che no, non l’aveva mai fatto. Géminiani storse la bocca e disse in un respiro: «Attento, Ferdi, il Ventoux non è una montagna come le altre». Kübler, forte del Tour vinto cinque anni prima, del secondo posto nell’edizione precedente e di uno straordinario palmarès, buttò sulla strada un perentorio: «Neppure Ferdi è un corridore come gli altri» e proseguì con cadenza ancora più sostenuta. All’imbocco della pietraia, allo Chalet Reynard, quando tutto diventò incandescente, Kübler ebbe una clamorosa défaillance e cominciò a roteare gli occhi come impazzito, quasi stesse cercando qualcosa di importante in quel biancore diffuso. Poi, d’improvviso, un’ombra cadde sul suo sguardo e gli occhi persero vividezza. Géminiani lo vide oscillare e capì immediatamente che cosa era accaduto. Scosse la testa e proseguì con il suo passo, abbandonando Kübler allo sbando negli ultimi sei chilometri di ascesa. Lo svizzero, zigzagante, venne ripreso da quasi tutti i concorrenti e transitò in vetta con venti minuti di ritardo da Louison Bobet che aveva scollinato per primo e che allo Chalet Reynard era ancora distanziato dalla coppia di testa di una quarantina di secondi. Kübler era talmente tramortito che durante la discesa cadde due volte, poi fu coinvolto in una terza caduta a pochi chilometri da Avignone. Lì fu necessario tutto l’impegno dei massaggiatori per rimetterlo in sella, perché lo svizzero voleva rimanere disteso sulla strada e dormire. Lo scossero finché non risalì in bicicletta e lo sorvegliarono da vicino perché giungesse all’arrivo, ma l’ex campione del mondo del 1951, arrivato al traguardo, abbandonò difilato la corsa e non volle mai più partecipare al Tour de France. (Marco Ballestracci, Il dio della bicicletta, 2014)
8. Il Dio del male
Alcuni spettatori incitano gli atleti durante una tappa del Tour 2013 (Charlie Crowhurst/Getty Images)
Il Ventoux è una montagna calva, affetta da seborrea secca. Lo vedi dalla bassa Provenza. Millenovecento metri di un verde che stinge, impallidisce, si spegne. Verso il culmine il Ventoux imbianca. Da lontano, un monte di sale. Il Ventoux è rimasto per il Tour il dio del male dell’antica Provenza. Il suo clima è assoluto. Gli uomini da classifica lo pedalano con il fiato che si rompe in gola, alle prese con un rapporto (la marcia ciclistica) che incarognisce la ruota dentata, che la trasforma in uno strumento di tortura. […] Il Ventoux del ’67 è legato alla memoria di Tommy Simpson. Il povero Simpson l’ho inciso nella retina dei miei occhi. Steso nella piega di pietra di una duna, in un avvallamento scistoso, il dottor Dumas, rovesciato su di lui, disperato, che gli pratica la respirazione bocca-bocca. Simpson, che rappresentava il whisky, nel mondo del chianti e del beaujolais del ciclismo, era partito nel Tour con una cera da fare trepidare. Forse Tommy non avrebbe voluto rubare il fuoco al dio Ventoux: una scintilla gli sarebbe bastata. Fu veduto zigzagare sul Ventoux, quasi volesse inseguire la sua ombra sottile che gli sfuggiva davanti al manubrio: eppoi crollare. Dentro gli pedalava un altro. […] Ogni qualvolta mi è capitato di avvicinare il Ventoux o di sentirmi chiedere del Ventoux ho sempre pensato o risposto che di una montagna personificata o di natura antropomorfica si tratta. (Mario Fossati, La Repubblica, 1987)
LA GLORIA
Nonostante il passare del tempo e il ridimensionamento del potere selettivo di numerose delle salite leggendarie del Tour de France, il Ventoux è rimasto teatro privilegiato di imprese memorabili. Abbiamo scelto due recenti vittorie italiane, entrambe precendenti alla rivelazione di Chris Froome del 2013. Si tratta del sorprendente successo del ’94 da parte del passista Eros Poli, raccontato da Alessandra Giardini e Giorgio Burreddu, e dell’emozionante vittoria di Marco Pantani nel 2000, rivissuta attraverso le parole di Gianni Mura.
9. L’inatteso
Quel lunedì del 1994 si andava da Montpellier a Carpentras, duecentotrentuno chilometri incontro alle strade di luna del Ventoux. […] La corsa avanzava placida, erano passati sessanta chilometri di niente, o poco più. A un certo punto uscì dal gruppo questo spilungone, e quasi nessuno se ne accorse. Correva con la Mercatone Uno, e alto e grosso com’era non poteva certo pensare di andare da solo incontro al Ventoux. Lui, di solito, le salite le faceva ben protetto nel gruppetto dei velocisti, attento più che altro a non perdere troppi minuti per non finire fuori tempo massimo. Quel giorno però guadagnava metri, e secondi. Poi minuti: uno, due, cinque. Venti. Erano diventati quasi venticinque quando cominciò ad arrampicarsi sul Ventoux. Tutti si aspettavano che a quel punto attaccasse a franare, e il suo vantaggio si sgretolasse sempre più in fretta. In effetti, Poli cominciò ad arrancare, e dietro – come se lo sapessero – la corsa prese fuoco: scattò Pantani, Leblanc gli andò dietro, a quota 1400 avevano già succhiato un quarto d’ora al fuggitivo. Quando Poli alzò gli occhi e scorse la vetta, l’osservatorio e la terra pelata dal vento, gli erano rimasti fra le dita appena cinque minuti di vantaggio. La gente era affascinata dall’impresa, dal coraggio di questo corridore troppo grande per la salita, uno che aveva vinto le Olimpiadi, ma quella era la cento chilometri a squadre, uno che era diventato campione del mondo, ma sempre in quell’altra specialità. Un pedalatore, un passista, mica un eroe. La passione dei tifosi gli diede ancora un barlume di forza, Poli arrivò da solo in cima al Ventoux, al traguardo, a quel punto mancavano trentuno chilometri. Pochi, tanti. […] Poli a quel punto volava sulla discesa verso Carpentras, non sentiva più il male e neanche la fatica. Sapeva che ad aspettarlo c’era la gloria: vinse la tappa, dopo centosettantuno chilometri di fuga solitaria, e si guadagnò un posto nella leggenda del Tour de France. In quel modo Poli si costruì anche un ponte sul futuro: oggi guida i turisti in bici sulle strade del Giro, del Tour e delle grandi classiche. La sua agenzia si chiama MontVentoux, come il giorno più folle della sua vita di corridore. (Alessandra Giardini e Giorgio Burreddu, Vedrai che uno arriverà, 2012)
10. A testa nuda
Marco Pantani scatta durante la scalata del Mont Ventoux, davanti allo spagnolo Roberto Heras e al tedesco Jan Ullrich (Patrick Kovarik/Afp/Getty Images)
Si sa che Pantani agli appuntamenti ci tiene. E quello col Ventoux, tra calvi, era fissato da tempo. […] Il Ventoux è indifferente. Niente vittime stavolta, ma una corsa a eliminazione, chi perde 50 metri non li ripiglia più. Vale per tutti tranne uno, Pantani. […] Sul Ventoux Pantani ha patito come un cane, ha perso i contatti due volte. Il gruppettino dei migliori lo ha visto allontanarsi, si è trovato oltre le ammiraglie, arrancando alla ricerca del passo giusto. Una, due volte è tornato sotto, con umiltà, con fatica estrema. In coda, il Fossile rifiata. E pensa. Pensa che altre volte è stato meglio, pensa che da due giorni gli fa male il quadricipite sinistro, pensa a Hautacam, quando s’è tolto il cappellino, è scattato e poi l’hanno piantato lì come un fico. E poi pensa che l’appuntamento non si può mancare. Non ha niente da togliersi, è a testa nuda, e scatta la prima volta. Heras e Beloki lo accalappiano. E allora scatta la seconda volta, più secco, Heras sempre dietro, in faccia un gran vento. E questo dovrebbe consigliare prudenza, è come una mano che ti spinge indietro, il vento. Ma Pantani non è prudente, è lucidamente disperato. Le ali di Pantadattilo gli si stanno muovendo, lo sente, ma non riesce ad aprirle. Dovrà riprovarci, sì. Lontani i tempi che bastava un colpo, finiti quei tempi. Ma finito poteva essere lui, se non s’aggrappava all’ultimo vagone, chissà quanto gli è costato. Invece è lì, se la gioca ancora, che è un modo di dire. Ci sono momenti in cui ogni scatto si porta dietro l’anima e i polmoni, tanto più in questa pietraia che sarebbe rovente senza questo vento che la spazza. Così per la terza volta va via il Fossile, proprio mentre Virenque si sta accodando e, per essere sicuro che quello là non s’accodi, Pantani dà ancora gas, e quattro. Ormai il traguardo è a meno di 3 km. E Pantani piazza altri due scatti, ravvicinati, per distanziare Botero, il guardiano di turno. Ullrich continua a tirare, deciso e regolare: chiaro che più di così non può, Armstrong allora pianta la compagnia e in poche pedalate raggiunge Pantani. Si parlano. Passano davanti alla stele di Simpson, luogo di culto per i cicloturisti che davanti non lasciano fiori (non durerebbero) ma borracce piene di sassi, tubolari, portachiavi fatti a bicicletta, cappellini. Il masso di granito grigio su cui è tracciata la sagoma, l’ombra di un ciclista, non è del Ventoux. Sul Ventoux è tutto o verde o bianco. (Gianni Mura, La Repubblica, 2000)
Fine
L’undicesima e ultima veduta, quella che riassume le precedenti e trascende le sezioni, è affidata – e non poteva essere altrimenti – al popolo della Provenza, che con l’ingombrante presenza del Monte convive dalla notte dei tempi.
Non è stolto chi sale sul Ventoux, ma chi ci ritorna una seconda volta. (Proverbio provenzale, ripetuto spesso e volentieri nel Café de l’Observatoire di Bédoin, l’ultimo paesino prima dell’ascesa).