Tra i nati sull’isola d’Irlanda, è il calciatore che ha alzato più trofei fra tutti. Non ce ne voglia George Best, ma la matematica incorona Roy Keane. Come il Belfast boy, ha giocato nel Manchester United per una vita e questo è stato, di certo, un grande aiuto per la sua carriera. O forse, come sostiene chi lo venera, è stato Keane a essere la fortuna dello United: è diventato un Red Devil il 19 luglio del 1993 e ha smesso di esserlo il 18 novembre 2005. Ha vinto una Coppa Intercontinentale, una Champions League, sette Premier, quattro Coppe d’Inghilterra e altrettante Community Shield. Un bel bottino.
Prima di Manchester nella sua vita c’erano state altre due sole squadre: il Cobh Ramblers in Irlanda e il Nottingham Forrest in Inghilterra. Dopo lo United, il Celtic in Scozia, dove un irlandese che calcia il pallone si sente un po’ a casa. Arrivato a gennaio 2006, a Glasgow giocò appena dieci partite e giugno fu il mese dei saluti: «Sento che l’unica possibilità che ho è il ritiro – disse guardando in faccia i tifosi di mezzo mondo – Lo staff sanitario del club mi ha consigliato di non forzare». E quindi addio. In Scozia aveva avuto il tempo di puntellare la sua bacheca e conquistare il campionato di casa in una stagione in cui il Celtic l’aveva fatta da padrone, relegando i Rangers al terzo posto in classifica e vincendo anche la Coppa di Lega. L’otto febbraio, contro il Falkirk al Park, Keane segna il suo unico goal con la maglia cerchiata di verde: sugli sviluppi di un calcio di punizione la traballante difesa avversaria spazza fuori, ma la palla carambola proprio sui piedi di Keane che si coordina per bene, tira una botta e segna.
Per uno che faceva della violenta tenacia la sua forza, il goal non era una priorità. Eppure Keane, che di mestiere era un mediano difensivo, riuscì a gonfiare la rete 61 volte in oltre di 500 partite giocate: i più comuni di destro e testa, come ricorderanno i tifosi della Juventus. Nell’aprile del 1999, United e bianconeri si giocarono la semifinale di Champions League: all’andata in Inghilterra la Juve di Carlo Ancelotti era stata in vantaggio per tutto il match grazie alla rete di un altro che per lavoro non era obbligato a segnare, Antonio Conte. Lo United riuscì a pareggiare solo nel recupero grazie a Ryan Giggs e per capire chi fosse davvero più forte fu necessario rimandare tutto al ritorno. A Torino Filippo Inzaghi (uno che sì, era pagato per il goal) al sesto e all’undicesimo minuto aveva portato la Juventus sul due a zero; ma fu proprio Keane a dare il via alla rimonta dei Red Devils che ribaltarono vincendo 3 a 2: taglio in area piccola e palla in arrivo dalla bandierina che impatta sulla testa irlandese. La Juventus è fuori.
Negli spogliatoi lo United è esaltato: la vittoria al Delle Alpi è un’impresa sportiva e tutti, con Sir Alex Ferguson in testa, festeggiano l’arrivo in finale. Keane e Paul Scholes restano quasi impassibili, seduti sulle panchine riservate ai giocatori ospiti: i due cartellini gialli mostrati dall’arbitro Meier hanno fatto finire la loro Coppa in anticipo. Nella storica finale di Barcellona, vinta dallo United contro il Bayern Monaco nei minuti di recupero, entrambi non ci saranno: Keane è stato l’ultimo capitano del secolo scorso a non poter alzare la Champions League vinta dalla sua squadra.
Dopo la vittoria al Delle Alpi: la gioia e la delusione, insieme, di Roy Keane
Quella fascia ce l’aveva tatuata sul braccio dal 1997. L’aveva ereditata da Eric Cantona e aveva svolto il suo lavoro da uomo-simbolo con dedizione. Sul terreno non si risparmiava nemmeno un attimo, sempre pronto a correre qualche metro più degli altri e a fare falli anche inutili che avrebbero dato la misura della forza messa in campo: «Comando io». Uno che gli è stato al fianco sul finire dei suoi anni a Manchester lo ha definito «man amongst men», calciatore capace di dare l’esempio e che riusciva a prendere voti in pagella sempre superiori alla media: «Roy Keane – ha detto Rio Ferdinand – è stato un capitano fantastico: se c’era qualche risposta da dare era sempre la prima o la seconda persona a farlo. È stato un grande».
Nonostante le responsabilità da capitano, l’agonismo esasperato di Keane ne fece un giocatore violento. Nel 2001 non ebbe timore ad accelerare i titoli di coda della carriera di Alf-Inge Haaland. Quattro anni prima, nel 1997, il norvegese militava nel Leeds e durante una partita contro lo United provocò la rottura del crociato di Keane in uno scontro di gioco per niente violento. Il suo errore fu quello di accusare l’irlandese di simulazione: il 16 dello United gli giurò vendetta e quattro anni più tardi, in un derby di Coppa contro il City, con un intervento a gamba più che tesa sentenziò la fine della carriera di Haaland che era arrivato a Manchester – sponda citizen – da poco. L’arbitro ci mise alcuni millesimi di secondo a tirar fuori il cartellino rosso; Keane si sfilò la fascia dal braccio destro e uscì dal campo bofonchiando qualche parola verso Haaland.
Per quel fallo Roy si prese un totale di otto giornate di squalifica; ma cinque di queste arrivarono diversi mesi dopo, insieme a 150 mila sterline di multa: «Keane ha danneggiato l’immagine del calcio inglese», scrisse un collegio di giudici sportivi britannici dopo aver letto la sua prima autobiografia (Keane – The autobiography, Penguin, 2002) nella quale spiegava di aver fatto quel fallo criminale intenzionalmente, per gelida vendetta. Del resto, uno che ha avuto bisogno di scrivere due libri per parlare di se stesso (The second half è stato pubblicato nel 2014) nutre così tanta autostima che non può sentire la necessità del pentimento: «Ho rammarico per tante cose fatte nella mia vita, ma questa non è tra loro», scrisse a freddo parlando del fallo su Haaland.
Si pentì, ad esempio, di aver provato a ricucire il suo rapporto con Sir Alex poco prima di lasciare lo United per sempre. Ma perché era stato troppo buono nei confronti dell’allenatore scozzese, non il contrario. Gli aveva chiesto scusa dopo aver attaccato duramente il suo vice Carlos Queiroz: «Tu sei il capo, dovresti fare di più», disse Keane a Ferguson che pensò bene di chiudere in fretta ogni rapporto. «Se potessi non gli chiederei scusa – ha scritto l’irlandese nel suo The second half – mi piacerebbe aver fatto solo la cosa giusta» e cioè sbattere la porta, non piagnucolare. Invece andò diversamente perché se è vero che tra i due non è finita bene, la stima era sincera e reciproca. «Se dovessi diventare allenatore – raccontava Keane ai suoi – sarai un perfetto mix tra la spregiudicatezza di Ferguson e il calore di Brian Clough; ma ci aggiungerei qualche elemento del mio carattere».
Di Ferguson adorava proprio «la mancanza di calore, la sua vera forza»; per come vedeva il mondo Keane, era stata la calcolata «freddezza» dello scozzese a fare grande lo United negli anni Novanta. Ferguson, da parte sua, contava su quello che considerava essere più di un calciatore intoccabile: «Se dovessi mettere in campo un Manchester United in scontri dove le squadre si fronteggiano uno contro uno, manderei in campo Roy. Sono sicuro che vinceremmo qualunque competizione: calcio, ippica, canottaggio. Roy ha qualcosa di particolare». La tenacia e quell’onestà intellettuale che ti fa essere così schietto con tutti da trascendere senza troppi pensieri nella violenza: un irlandese.
Chiedere a Peter Schmeichel. Durante un tour estivo del Manchester United in Asia, in un pub litigò con Peter Schmeichel: scazzottata e occhio nero per il portiere danese. Uno come Keane, che avrà perso il conto delle pinte bevute molto presto nella sua vita, al bancone era di casa e ha raccontato anni dopo la rissa come era andata: «Avevamo bevuto qualcosa di troppo e lo scontro degenerò. Il giorno dopo il portiere si presentò con un occhio nero davanti ai giornalisti»; ma da buon inglese adottato il numero uno dello United non disse una parola: «Ho preso una gomitata in allenamento», mentì Schmeichel.
«La parte più dura del corpo di Keane è la lingua. Potrebbe mettere in difficoltà anche l’uomo più sicuro di sé con quella lingua», disse Sir Alex in un impeto di bontà. In realtà, guardando l’insieme della carriera di un calciatore così divisivo a dieci anni dal ritiro, viene naturale pensare che Keane sia diventato quella leggenda che è perché usava tutti gli strumenti del suo corpo nella stessa maniera, impiegando al 100% la forza, che fosse fisica o mentale. Le gambe per correre e scivolare; la lingua per far male; la testa per segnare e ragionare: è stato il suo cervello renderlo il capitano più titolato dello United, il numero 16 più forte della storia del calcio e l’irlandese più vincente tra tutti – probabilmente per sempre. Grazie alla sua complessità, Keane è riuscito a mettere in difficoltà avversari, compagni, allenatori e non si può non pensare quanto abbia inciso nella sua carriera l’influenza di un coach saccente e scurrile come Clough. Ai tempi del Nottingham Forrest lo ha battezzato sul campo e quindi nella vita.
Daniele De Rossi, che è uno che guarda il campo dalla sua stessa prospettiva, dice che Keane è l’unica persona al mondo con la quale ha voluto scattare una fotografia: è il suo idolo da sempre e il sedici marchiato sulla maglia giallorossa è un po’ un omaggio all’eroe della gioventù. Non perché sia stato mai bello da vedere come Best né perché corretto ed elegante come Roberto Baggio: Keane è l’altra faccia del calcio, rappresenta tutti quelli che hanno scelto la lotta per permettere agli altri di dedicarsi allo spettacolo del pallone.
L’irlandese era una che le partite le faceva vincere, al costo di caricarsi sulle spalle qualche cartellino giallo di troppo e saltare la partita più importante della carriera. Quella storica finale di Barcellona con lo United che vince la Champions League nei minuti di recupero grazie a Sheringham e Solskjaer (90+1, 90+3) il capitano dei Red Devils la vide da lontano e negli almanacchi il suo nome non c’è: incredibilmente il simbolo di quella squadra non ha potuto vivere il match più importante giocato da Sir Alex con i Red Devils. Ma che importa, chi deve sa che nella storia dello United «there is only one Keano».