Accettare il doping

La lotta al doping ha dimostrato di avere troppe falle, aprendo una discussione: le sostanze proibite dovrebbero smettere di essere proibite?

Lunedì scorso, quando la russa Yulia Efimova è uscita dalla piscina dello stadio olimpico di Rio dopo aver vinto la medaglia d’argento nei cento metri rana, ad attenderla non c’erano applausi, ma fischi e dita puntate. L’accusa di essere dopata è stata più forte della decisione del comitato olimpico di riammetterla in gara dopo la squalifica di 16 mesi, sebbene i giudici abbiano stabilito che «chiaramente non aveva intenzione» di migliorare le sue prestazioni assumendo lo steroide DHE. L’ha fatto senza saperlo, hanno concluso le indagini, fidandosi di un farmacista che le ha venduto un prodotto assicurandole che non conteneva nulla di proibito. Al contrario, in Italia, la squalifica di Alex Schwarzer è stata vissuta come un’enorme ingiustizia. Attilio Bolzoni e Massimo Capello di Repubblica hanno realizzato un’inchiesta che individua addirittura delle «trame dei signori del doping» dietro la squalifica del marciatore italiano. E sono stati pochi quelli che hanno accettato senza scetticismo la sentenza.

I due episodi, seppur molto diversi tra loro, hanno un elemento in comune: rivelano che il sistema dell’anti doping è circondato dalla diffidenza. E che non solo esso è messo in discussione, in certi casi è vissuto come apertamente ingiusto. Fondate o meno che siano queste reazioni emotive, esse colgono una realtà di fatto: la fragilità del sistema di controllo del doping nello sport. Nel 2012, l’Agenzia Anti Doping Mondiale (WADA) ha condotto 270 mila analisi. I test risultati positivi sono stati l’un per cento. La stessa percentuale emersa dalle analisi effettuate ai Giochi olimpici di Pechino e Londra. Qual è il problema? Sono numeri troppo bassi, secondo gli studi più accreditati del settore.

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Da un report del 2013 commissionato dalla WADA, e basato su interviste anonime a 2 mila atleti, risulta infatti che gli atleti che hanno usato sostanze illecite l’anno prima dei campionati del mondo del 2011 sono stati il 29 per cento, percentuale che cresce sino al 45 per cento tra coloro che hanno partecipato ai Giochi Panarabi. Nel 2015, uno studio pubblicato su Sports Medicine stima che almeno il 39 per cento degli atleti che appartengono alle élite professionistiche usa, illegalmente, sostanze che migliorano le prestazioni sportive.

Sono cifre, certo: ma non ci sono solo quelle. A luglio, gli ispettori del Comitato olimpico internazionale hanno annunciato che 45 atleti che hanno partecipato ai giochi olimpici di Londra e Pechino – 23 dei quali vincitori di medaglie – sono risultati positivi ai test, dopo che il loro sangue e le loro urine sono state ri-analizzate usando nuove tecniche di controllo. Con loro, i partecipanti alle due edizioni olimpiche risultati positivi a-posteriori sono saliti a quota 98. E ciò dimostra che a Londra e a Pechino almeno un centinaio di atleti sapeva che i suoi campioni sarebbero stati ri-controllati, e, tuttavia, ha deciso di doparsi, scegliendo di correre un rischio che ha considerato inferiore a quello di essere scoperto.

Ed è difficile dargli torto, sul calcolo delle probabilità. La maggior parte degli scandali più clamorosi degli ultimi anni – da quello di Lance Armstrong (vincitore di sette Tour de France senza mai aver fallito un controllo) al recente caso degli atleti russi – non sono stati individuati dal sistema anti-doping, ma da inchieste giornalistiche, rivelazioni di un delatore, azione della magistratura – o da una combinazione di questi tre strumenti. In un report del 2012 per l’Organizzazione anti-doping mondiale si legge che «il sistema di controllo non ha mostrato di avere una particolare efficacia nello scoprire gli atleti che si dopano». Quelli più abili – o coloro che sono circondati da uno staff più preparato – sono in grado di sottoporsi ai test senza che le sostanze che usano siano rilevate. Conoscono i metodi di controllo e conoscono il modo di aggirarli. E quando viene inventata una nuova tecnica di rilevazione, alcuni malcapitati vengono scoperti (e pagano, da buoni capri espiatori, per tutti), gli altri modulano l’assunzione delle sostanze sui nuovi standard, per passare indenni quando toccherà a loro.

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La lotta tra doping e anti-doping è impari, anche dal punto di vista economico. Si stima che il budget dell’anti-doping mondiale si aggiri tra i 250 e i 400 milioni di dollari. Una cifra molto inferiore ai soldi che guadagnano gli atleti, e ai fondi a disposizione delle squadre, che non hanno nulla da guadagnare quando i test risultano positivi. È per questo che dopo averlo combattuto per anni, Doug Logan, ex capo dell’Associazione dell’atletica leggera americana, ha scritto che la guerra al doping è «ipocrita» e «inutile». Ha suggerito di accettare che è persa, «smettere di combatterla» e «riportare le truppe a casa», come consigliò il senatore George Aiken al presidente Lyndon Johnson durante la guerra in Vietnam. «Più lavoro in questo campo, più mi meraviglio della diffusione del doping», disse – quando era capo della procura anti-doping del CONI – Ettore Tozzi. Aggiungendo: «Non credo che il doping verrà estirpato, per il semplice fatto che si evolve continuamente. Escono sempre nuove sostanze sulle quali non esistono controlli». L’intervento, insolito per l’Italia, suscitò numerose repliche indignate, ma pochi accolsero l’elemento di fondo della confessione: l’inefficacia della politica della “tolleranza zero”.

In Italia, è difficile parlarne. Il libro di Danilo Di Luca, Bestie da vittoria (Piemme), in cui l’ex vincitore del Giro d’Italia racconta la sua esperienza di ciclista professionista alle prese con l’ossessione della vittoria e l’ausilio diffuso del doping, ha stimolato qualche recensione, ma non una riflessione generale. Nel mondo anglosassone, invece, il dibattito è aperto da tempo. Di fronte all’inefficacia della cultura proibizionista, analisti, esperti e soprattutto accademici “eretici” propongono una pazza idea: legalizzare il doping, o, quantomeno, regolamentarlo. «La guerra al doping ha fallito», afferma Julian Savulescu, neuro-etico dell’Oxford Centre, spiegando che «il doping non è contro lo spirito dello sport», dal momento che «ha fatto sempre parte dello spirito umano usare la conoscenza per ottimizzare le prestazioni».

Coloro che si oppongono a quest’ipotesi (ancora la maggioranza), lo fanno per tre ragioni principali: la salute degli atleti, la lealtà della competizione, la tutela della natura dello sport. Tre argomenti che, secondo la fronda dei legalizzatori, nascondono un’ipocrisia. «Oggi gli atleti vanno alla ricerca di sostanze pericolose con alti rischi per la salute», spiega il professor Andy Miah dell’Università del West Scotland. «Con un corretta regolamentazione, invece, conoscerebbero i rischi a cui vanno incontro». E potrebbero essere controllati, monitorando attentamente anche gli effetti collaterali, da cui spesso vengono i pericoli maggiori. Inoltre, anziché affidarsi al mercato nero per reperire le sostanze, gli atleti le troverebbero su quello legale, con tutte le verifiche sui prodotti che ne derivano. Certo, «ci sono molti problemi associati all’uso di doping», ragiona il professor Miah, «ma si può decidere quale sia un accettabile livello di rischio e testare il meccanismo. Il punto di partenza», spiega, «dovrebbe essere quello di consentire che gli atleti possano usare sostanze che sono generalmente accettate nella società».

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All’inizio di quest’anno, la tennista Maria Sharapova è stata condannata a due anni di esclusione dai tornei per essere risultata positiva al meldonium, una farmaco usato nelle cure per il cuore e prescrittole nel 2006 da un medico di Mosca per rinforzare il suo sistema immunitario. Sino all’inizio dell’anno, il meldonium non era nell’elenco delle sostanze proibite. Poi è stato incluso, benché non siano chiari i suoi effetti nel miglioramento delle prestazioni. E chi mette in discussione il sistema dell’anti-doping si chiede se, e in che modo, questa, o sanzioni come questa, proteggono la salute degli atleti e custodiscono la lealtà della competizione.

È vero: il doping migliora le prestazioni, ma non rende tutti i centometristi veloci come Usain Bolt. L’allenamento, la tenacia, la grinta, la determinazione, la disciplina, il talento continuano a essere gli elementi fondamentali per raggiungere i risultati. La slealtà entra in scena nel momento in cui due atleti competono senza che uno assuma sostanze e l’altro, illegalmente, sì. Ma se il doping dovesse essere regolamentato tutti saprebbero cosa assume il proprio avversario, e non ci sarebbe più nessuna frode, nessuna scorrettezza.

Come scrive sul New Yorker Louisa Thomas, la riflessione sul doping deve partire dal riconoscimento che la cultura dello sport mondiale è profondamente cambiata. «Per la maggior parte del ventesimo secolo», ricorda «la minaccia esistenziale allo sport non è stato il doping, ma il professionismo. Se un atleta competeva per ottenere un guadagno materiale, macchiava lo spirito dello sport». Oggi, invece, l’elemento professional-commerciale è dominante: «Ciò che ha cambiato le cose è stata l’introduzione della televisione, e lo straordinario giro di denaro che ha fatto circolare nei Giochi olimpici». La spettacolarizzazione dello sport ha reso le discipline sportive delle professioni. In molti casi, anche molto ben remunerate. E, ovviamente, tanto meglio remunerate, quanto più ogni atleta è capace di vincere e dare spettacolo – che è poi ciò che il pubblico chiede. In questo senso, il doping non è una malattia, ma il sintomo di un mutamento radicale dello sport – che i professionisti dell’anti-doping non mettono affatto in discussione. Ma come è possibile che in un mondo ormai dominato dalla tecnica, lo sport rimanga del tutto estraneo alle innovazioni? Qui risiede l’illusione di una visione – quella rigida dell’anti-doping – a tratti anche moralistica: in una società come la nostra, dove c’è una pillola per migliorare qualsiasi attività umana, come può essere proibito potenziare proprio le prestazioni sportive?

 

Tutte le immagini via Kirill Kudryavtsev/Afp/Getty Images)