Il mosaico del campionato

Cinque temi scelti da altrettante firme sulla nuova Serie A: Banega, il post Pogba alla Juve, l'ambizione della Roma, le speranze di Bologna e Cagliari.

La bellissima anarchia di Banega

Google non è solo il posto in cui trovi tutte le risposte. Quello che mi diverte, ultimamente, è cercare le domande: inizio a digitare quello che mi interessa e aspetto che arrivino i suggerimenti. Se scrivo “Éver Banega”, Google lo completa così: Éver Banega Inter, Éver Banega età, Éver Banega ruolo. Il primo accostamento è piuttosto ovvio. Il secondo è il riflesso del fatto che Banega è un crack dal lontano 2007, quando esplose nel Boca Juniors al fianco di Juan Román Riquelme. Il successivo passaggio in Europa non fu del tutto indolore e, prima di raggiungere la piena maturità calcistica, Éver dovette passare attraverso un paio di prestiti, prestazioni non esaltanti, infortuni tanto stupidi quanto gravi (rompersi tibia e perone alla pompa di benzina è qualcosa degno dei Darwin Awards), e un ritorno in Argentina. È quindi lecito chiedersi quanti anni abbia Banega. Ne ha 28: in una bulimia di talenti precoci, sembrano tanti; da un’altra prospettiva, invece, sembra il momento giusto, dopo due stagioni sontuose al Siviglia, per venire a recitare la parte del Messia con la maglia nerazzurra.

E arriviamo al terzo suggerimento di Google. Quale sarebbe il ruolo di Banega? Da quando è andato via Sneijder, l’Inter non ha più avuto un calciatore capace di accendere la luce in mezzo al campo. Quello che doveva essere l’erede dell’olandese, Mateo Kovačić, non ha mai trovato la giusta collocazione: Mazzarri lo schierava troppo vicino all’area avversaria (con l’intenzione di trasformarlo in Hamsik), Mancini, addirittura, lo esiliava sulla fascia o gli chiedeva di diventare il nuovo Pirlo. Questa confusione nella lettura delle qualità di Kovacic ha portato alla sua (prematura) cessione al Real Madrid. Non vorrei che una confusione del genere si ripetesse con Banega. El Tanguito non è proprio un play basso e non è nemmeno un trequartista puro. A Banega piace abbassarsi per ricevere palla, ma a Banega piace anche giocare a ridosso dell’area avversaria per tirare in porta: calcia forte, in modo quasi perfetto anche sotto pressione, e la palla descrive traiettorie crudeli (per i portieri) e si abbassa di colpo. Banega sa quando tenere il pallone e temporeggiare, azzardare il dribbling (che gli riesce molto spesso, visto che i suoi piedi creano un campo magnetico che attrae irrimediabilmente il pallone) o verticalizzare in modo repentino e imprevedibile. El Tanguito non ha solo una capacità di leggere il gioco ben oltre la media, una percezione innata e istintiva del ritmo e del respiro della partita, ma riesce a creare il gioco: dove gli altri vedono spazi vuoti o intasati lui vede possibilità, e inventa. Tutto questo è quello che è mancato nella scorsa stagione al centrocampo interista, tutto muscoli e agonismo ma carente di qualità. Per fare in modo che l’ingegno di Banega possa dispiegarsi in tutta la sua bellezza ed efficacia, non gli va imposto un ruolo: gli basta stare in mezzo al campo, con le spalle coperte da Medel, Kondogbia o Felipe Melo, libero di essere se stesso. (Sebastiano Iannizzotto)

L’ultima stagione a Siviglia

Le scommesse di Cagliari

Quando si è affacciato per la prima volta in Serie A, rilevando il Cagliari da Massimo Cellino, Tommaso Giulini ha scelto la via dell’utopia. Una squadra di giovani di buone speranze, un allenatore che, da solo, è capace di far sognare le piazze in cui si sposta. L’esperienza di Zdenek Zeman per gli esordienti Crisetig, Longo, Cragno e Donsah. Peccato che quei giovani abbiano (in buona parte) tradito, e che quella scommessa si sia rivelata perdente, pagata con una stagione fallimentare, fatta di quattro cambi in panchina e culminata con la retrocessione. Dopo 11 stagioni di A, alla prima del nuovo presidente. Ora, dopo aver visto il suo Cagliari dominare il campionato di B, Giulini ha una seconda chance. E ha scelto di giocarsela in maniera molto diversa. L’esordiente, stavolta, è l’allenatore Massimo Rastelli. Mentre dal mercato sono arrivati giocatori d’esperienza nazionale e internazionale. Da Bruno Alves, che ad ora è l’unico campione d’Europa a giocare in Italia, a Mauricio Isla, da Marco Borriello a Simone Padoin. Centoventotto anni e 652 presenze in Serie A (con le zero di Bruno Alves ampiamente compensate dalle 332 raccolte ai massimi livelli in giro per l’Europa e le 86 con la nazionale portoghese) per fare da contrappeso alle poche, quasi nulle, di Salamon, Ceppitelli, Di Gennaro, João Pedro, Farias e Melchiorri.

Il Cagliari si presenta ai nastri di partenza destando curiosità. Quanto segnerà Borriello ora che ha l’occasione di giocare titolare con continuità? (Per ora sono quattro gol, con un assist, nella prima partita di Coppa Italia). Quanto assomiglierà Bruno Alves al giocatore che qualche stagione fa finì nelle mire della Juventus? Mauricio Isla è ancora quello di Udine? Di Gennaro, a 28 anni, è finalmente pronto per mantenere la promessa fatta dal suo talento quando era ancora nelle giovanili del Milan? E Federico Melchiorri, quando rientrerà dall’infortunio al crociato, mostrerà in A le stesse qualità che gli sono valse il soprannome di ‘Ibra della B’? La scommessa di Giulini dipende da tante variabili. Prevederne l’esito è, ancora una volta, difficile. Ma la nuova rotta, al momento, convince più della vecchia. (Gabriele Lippi)

Il 5-1 del Cagliari alla Spal in Coppa Italia, poker di Borriello

Come cambia la Juve senza Pogba

Al di là di una (presunta) superiorità che dovrà comunque essere certificata dal campo, la Juventus 2016/2017 sarà una squadra da seguire con attenzione. Se negli ultimi cinque anni siamo stati abituati a un dominio dal punto di vista prettamente fisico e psicologico, tipico di un gruppo abituato a far valere la propria legge con la forza bruta figlia del tremendismo contiano, l’idea dell’Allegri bianconero 3.0 è quella imporsi in un modo diverso. Se dominio sarà, dovrà passare dalla maggiore cifra tecnica rispetto all’avversario: un calcio più palleggiato e ragionato e meno ossessivo e di rincorsa, privilegiando la qualità rispetto alla quantità, gestendo di più (e meglio) il pallone in fase attiva per sprecare meno energie in quella passiva.

Il mercato ha dato fino ad ora indicazioni precise, indipendentemente dalla partenza di Pogba e da chi arriverà al suo posto. Detto che il francese è unico e non replicabile nell’interpretazione della gara sui due lati del campo, le chiavi saranno il ruolo di Pjanic, la rinnovata centralità di Dybala e il maggiore coinvolgimento degli esterni nella fase offensiva. Il bosniaco ha effettivamente ricevuto dal tecnico la valigetta con i codici della squadra seppur in quel ruolo di regista che continua a non convincere del tutto, ma che ha già pagato dividendi discreti finché fiato e muscoli hanno retto (leggasi prima mezz’ora dell’amichevole contro il West Ham); l’argentino, invece, sta proseguendo nella sua ‘messificazione’, ovvero la capacità di essere allo stesso tempo catalizzatore di gioco e specchietto per le allodole per favorire gli inserimenti senza palla dei compagni dal lato debole. Un processo che la presenza di Dani Alves (che con il Messi originale aveva instaurato una felice connection in quel di Barcellona) potrà certamente accelerare, essendo il brasiliano un cattedratico dei movimenti di coppia negli ultimi 30 metri su quel centro-destra che i Messi e i Dybala eleggono a territorio di caccia privilegiato. A proposito: proprio Alves e Alex Sandro sono la vera novità della nuova Juventus. Che, fino ad oggi, era abituata a privilegiare una manovra che si sviluppasse quasi esclusivamente per vie centrali, con gli Evra e i Lichsteiner azionabili solo in situazione dinamica e quasi mai pericolosi nell’uno contro uno. Con due che, invece, sono in grado di creare la superiorità numerica anche partendo da fermo, non sarà raro vedere una squadra alla ricerca quasi ossessiva del cambio del fronte di gioco e dell’allargamento di campo per poter sfruttare al meglio sia le doti aeree di Mandzukic che quelle di smarcamento di Higuain, migliorando quella capacità di read and react delle situazioni difensive proposte dall’avversario di giornata che, in passato, non è sempre stata impeccabile. Il tutto nell’attesa del ritorno in condizione di Khedira e di quello a pieno regime di Marchisio, nonostante il precampionato di Lemina e Asamoah abbia dimostrato come questi ultimi siano scudieri ben più che affidabili. (Claudio Pellecchia)

L’amichevole giocata dalla Juventus contro il West Ham

Bologna, vista sul sogno

C’è chi dice che questo Bologna potrebbe arrivare a toccar le stelle, ed è già un successo per come era cominciata l’estate: al primo giorno di raduno Amadou Diawara, il talento guineano, l’uomo-mercato, non si era presentato (adesso sta per passare al Napoli per 15 milioni di euro), Mattia Destro doveva ancora capire l’entità di un vecchio infortunio (ne avrà ancora per una settimana ma è ok) e l’addio di Pantaleo Corvino (tornato alla Fiorentina) per qualcuno era un presagio di sventura. E invece. L’arrivo di Riccardo Bigon, nuovo diesse rossoblù, ha portato freschezza, entusiasmo, e – mica è un dettaglio – giocatori veri. Linea giovane, ma di fine qualità. Presi Ladislav Krejcì dallo Sparta Praga e nazionale ceco, l’ungherese Adam Nagy che lo voleva mezza Europa (anche il Siviglia, il Leicester, il Marsiglia), poi Simone Verdi scuola Milan, a cui si aggiunge il più esperto Dzemaili dal Galatasaray. Il mercato non è ancora finito. Arriverà il giovane Sadiq dalla Roma, che tanto bene ha fatto con la Nigeria alle Olimpiadi. Il mix che aveva chiesto Roberto Donadoni per puntare dritto al decimo posto (o più), per crescere ancora un po’, insomma, eccolo qui. L’obiettivo della società è tornare a disputare le coppe europee. Difficile accada già quest’anno, probabilmente. Ma il ruolo di outsider, si sa, è nato apposta per queste cose. (Giorgio Burreddu)

Il Bologna parte con un successo contro il Trapani in Coppa Italia

Roma, fattore extra cercasi

Qualche sera fa un commentatore sportivo parlava in tv della Roma di Spalletti, definendo l’associazione di lemmi quasi “un marchio di fabbrica”. Nonostante oggi Spalletti sia di nuovo allenatore della Roma, lui faceva riferimento a quella di dieci anni fa, quella del 4-2-3-1, delle sfide contro l’Inter del primo Mancini e poi di Mourinho e del doppio conseguimento consecutivo dei quarti di Champions League tra il 2007 e il 2008. Quella squadra era un inatteso frullato di efficacia, con un undici capace di esprimere un gioco sorprendente, esteticamente soddisfacente, ma soprattutto in grado di assicurarsi tre trofei nazionali e due secondi posti negli anni in cui i nerazzurri erano tra le prime squadre al mondo. Eppure, nonostante un Francesco Totti con dieci anni in meno, sulla carta non aveva una rosa dalle individualità forti come la Roma attuale, quella che Spalletti si appresta ad allenare dall’inizio della stagione, dopo aver riscattato la scorsa annata, apparentemente destinata a una mediocre opacità, e dopo averle restituito gioco e risultati. Certo, dieci anni fa c’era davanti un’Inter fuoriserie a tarpare ali e ambizioni, stavolta ci sarà davanti una altrettanto stellare e agguerrita Juventus. Per evitare che la storia si ripeta in un loop beffardo, quindi, andrà cercato un fattore extra, un quid che riesca ad esaltare il valore aggiunto dell’ampiezza della rosa, sufficientemente assortita, e a sublimarlo nella personalità che Spalletti riesce a dare alle sue squadre. (Simone Vacatello)

 

Nell’immagine in evidenza, i giocatori della Roma nel preliminare di Champions a Porto (Miguel Riopa/AFP/Getty Images)