La mia vita al Chievo

Maran e il suo Chievo ci sanno fare eccome. Un'intervista sul senso del gruppo, l'intensità, le concatenazioni di una vita nel calcio.

rolando maran

Rolando Maran all’epoca era. «Eh no, ferma tutto: state dicendo che sono vecchio?». Va bene. Ricominciamo. Quando Maran aveva i capelli. «Aspetta aspetta. Allora lo fate apposta». È che trovare un punto da cui cominciare la storia non è facile. A Chievo Maran c’era la prima volta della Serie C. C’era da capitano. C’era negli anni delle promozioni da giocatore. C’era mille volte, Maran. E oggi che il Chievo galleggia nell’euforia, lontano dal precipizio della retrocessione, così vicino a un posto in Europa, lui è ancora qui che passeggia sui campi di Veronello con le mani in tasca, l’espressione dura, che poi è solo un abbaglio: Maran ride molto di più di quanto si veda. «Lo dico sempre: non fatemi sembrare un fenomeno, non mi piace». Dovrà pur esserci una ragione se il suo calcio è vigoroso, bello, fatto di passione. E ancor più profonda deve esserci qui, al Chievo. «È un posto particolare, difficile da descrivere. C’è grande professionalità, cultura del lavoro. In una forma, come dire, familiare. Ma no, non è l’aggettivo giusto. So solo che si riesce a fare tutto con grande familiarità. E questo rende il percorso un po’ più intenso perché ti leghi a qualcosa, non ti senti di passaggio. Ti senti parte di un progetto».

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Ⓤ Allora partiamo da qui: 1986, primo campionato in C della storia del Chievo. Lei ventidue anni. 

Ero giovane, mi si apriva un mondo. Mi si offriva la possibilità di diventare professionista. Ricordo il primo allenamento. Avevo l’influenza. Non ho detto nulla a nessuno, soffrivo come un cane. Nessuno doveva togliermi quel momento. Era un sogno che si avverava.

Ⓤ Dopo più di 300 partite da giocatore, che cosa vuol dire essere allenatore del Chievo?

Per me è semplice, ho passato la stragrande maggioranza della vita calcistica qui. Ma chi arriva deve sentirsi parte della situazione. E non è questione di maglia. Uno deve viverla in maniera diversa, deve entrare in sintonia.

Ⓤ Lo dice perché sa cosa vuol dire fare i sacrifici? 

Con me tutti parlano di gavetta. Sono arrivato in A a 49 anni. Sono orgoglioso, mi ha rinforzato. A qualcuno magari la gavetta non serve. Ma ogni giorno si presentano situazioni diverse. Impari a elaborarle, mica puoi affrontarle tutte allo stesso modo. E allora realizzi che la tua conoscenza ti aiuta a trovare soluzioni veloci, con meno errori.

Ⓤ Lei che errore ha fatto?

Magari ce ne fosse solo uno. Ma in fondo sono scelte, e io le ho sempre fatte senza essere avventato. Se tornassi indietro magari ne farei di diverse, ma in quel momento le avvertivo come giuste. Le scelte diverse non erano mie.

Ⓤ Al passato ci pensa mai?

Sono più proiettato al futuro. Dall’attimo che passa porto via qualcosa e non guardo più indietro. Non serve.

Ⓤ Dagli anni delle giovanili che cosa si è portato via?

Divertimento. A un certo punto a Trento è venuta fuori l’idea della Primavera. Prima volta nella storia. Un’esperienza pazzesca. Andare a giocare contro il Milan, l’Inter. Ci sembrava di toccare il cielo. Era davvero la fucina della Serie A e della B. Trovavi Bergomi, Ferri, gente che uno o due anni dopo vedevi in A, in Nazionale. E invece noi stavamo ancora nel fango. Tempi diversi.

Ⓤ Oggi che calcio è?

Il calcio si fa in tanti modi. Ma nel nostro il risultato conta. Diventa primario. Cerchi di arrivarci attraverso le idee. Ma se non ottieni il risultato il tempo per portarle avanti è poco.

Ⓤ E le sue idee quali sono?

Un calcio propositivo. Mi piace l’aspetto offensivo, forse perché ho fatto il difensore. Voglio che la squadra sia artefice della propria prestazione. Chiedo aggressività. L’approccio deve essere forte, per esaltare le qualità.

rolando maran

Ⓤ Uno dei dati più impressionanti è che correte molto.

Più in alto recuperiamo palla, meno spazio dobbiamo percorrere. Ho la fortuna di avere attaccanti molto generosi.

Ⓤ Parola chiave?

Intensità. Poche pause. Solo per bere.

Ⓤ Maran che allenatore è?

Cerco di essere come avrei voluto che fosse il mio allenatore. Schietto. Ci metto la faccia. Se mi camuffo commetto un errore. Mi sono ripromesso di essere me stesso. Sempre e comunque.

Ⓤ Diceva di lei ragazzo.

In quegli anni il Trento faceva la C. C’era la Triestina. A Padova andavano anche ventimila persone. Adesso al Nord è quasi impossibile. Era un calcio che vivevano tutti, quello. La domenica era un evento per la città. E in una città fredda, dove è molto praticato lo sport alpino, ti rendevi conto che c’era un grande interesse attorno a quel campionato.

Ⓤ Analogie con il Chievo di oggi?

Chievo è rimasto attaccato alle origini. Io l’ho vissuto in C. Nella forma un po’ è cambiato, ruota attorno a un mondo diverso. Ma nella sostanza è ancora lo stesso ambiente. Fatto di poche persone che si mettono al servizio e fanno anche più di quel che gli tocca.

Ⓤ Per la salvezza. Oppure…

L’annata ci sta riservando delle gioie. Parti con l’obiettivo di salvarti, è il tuo scudetto. Siamo rimasti lontani da quel tipo di classifica. Siamo orgogliosi.

Cerco di essere come avrei voluto che fosse il mio allenatore. Schietto. Ci metto la faccia.

Ⓤ Come l’anno scorso.

Un andamento progressivo. Ma il futuro non lo conosciamo.

Ⓤ Ha molti amici nel calcio?

Alcuni. Non faccio nomi. Qualcuno te lo tieni stretto perché ti fa sentire bene, ti tiene legato a certe situazioni, te le fa rivivere.

Ⓤ Diciamo Silvio Baldini? Ha fatto il suo secondo, parliamo del ’97. Il Chievo era in B.

Silvio è un grandissimo. È una persona vera. Gli sarò sempre riconoscente. Magari ci sentiamo pochissimo o ci vediamo per caso, un minuto. Ma non si interrompe mai nulla.

Ⓤ Cosa le ha insegnato?

La disciplina del gruppo. La convivenza e il rispetto per gli altri. Una volta eravamo dei soldatini, adesso è un po’ diverso. C’era più disciplina. Anche nelle comunicazioni, nel rispetto dei ruoli. Ma è la vita che è cambiata.

Ⓤ Invece Ciccio Franzoi, uno dei suoi primi allenatori, che le ha lasciato?

Che valeva la pena prendersi cura del calcio delle cose. Di te stesso, sì, e anche degli oggetti. Le scarpette, la borsa. Mi ha insegnato a essere attaccato al calcio.

Ⓤ Mai sgridato?

Ah certo, se si rompeva la borsa lui te l’aggiustava ma poi te lo faceva notare. Lo scarpino prima di gettarlo via doveva essere consumato, perché non si buttava via nulla.

Ⓤ Diceva dei ruoli: l’allenatore deve farsi sentire.

Sì, ogni tanto tocca alzare la voce. Lo faccio se c’è l’esigenza. Perché non sempre trovi chi ti permette di far capire le cose con pacatezza.

Ⓤ Mai appeso nessuno al muro?

Bah. Se si arriva a tanto… Ma anche se fosse non lo direi mai. Però negli anni qualche scontro c’è stato.

Ⓤ E i presidenti che ruolo hanno?

Ognuno è diverso. Dipende dalle situazioni. L’unica cosa certa è che io faccio l’allenatore.

Ⓤ Di Campedelli, invece, che ci dice?

Ci conosciamo dall’86, c’è un rapporto diverso. Con lui ho vissuto tante tappe e continuo a viverle. A volte mi basta guardarlo e so a cosa sta pensando, cosa vorrebbe dirmi, perfino cosa mi dirà. E lui uguale. È un rapporto privilegiato del quale sono orgoglioso.

Il primo, bellissimo, gol di Valter Birsa contro l’Inter

Ⓤ Il segreto del successo Chievo?

Non sono io quello che ha fatto fare successo al Chievo. Ma il nostro rapporto è un valore aggiunto, questo sì.

Ⓤ E i giocatori? Non sono tutti uguali.

Nei doveri sì. È diversa la comunicazione. Ho ragazzi dai 18 ai 38 anni. L’allenatore deve avere la capacità di usare il linguaggio giusto, adeguato, comprensibile. Se la comunicazione personale cambia, quella di gruppo no.

Ⓤ Cosa la incuriosisce di un ragazzo di vent’anni?

Quando lo scopro interessato, quando vuole aggiungere qualcosa a quello che sa già.

Ⓤ A chi stava pensando?

Mattiello. Quando è arrivato aveva voglia di allenarsi, e ok. Ma anche di crescere. Qualche volta magari arriva il giovane che ha un po’ di presunzione e rallenta il processo di crescita di qualche mese, o addirittura di anni. Invece è bello vedere le persone che sfruttano il loro potenziale».

Ⓤ E chi non lo fa?

Chi non gioca per la squadra con me sta fuori. Per giocare deve essere proprio un talento, deve fare la differenza, farci vincere le partite. Qualcuno l’ho incontrato.

Ⓤ Diventare padre le è servito per capire meglio i ragazzi che allena?

Ho iniziato a fare questo lavoro quando i miei figli erano piccoli. Non avevo una corrispondenza. Essere genitore è la cosa più difficile del mondo. Gianluca, mio figlio, gioca in D, e sento come vive i momenti. A volte ti fa ricordare come li sentivi tu, torni dall’altra parte. Questo sì ti può aiutare.

Ⓤ Quanti giocatori delle serie inferiori ha visto che non sono arrivati?

Tantissimi. Se penso alla mia Primavera del Trento l’unico a diventare professionista sono stato io. Ma c’erano altri ragazzi validi. Ci si equivaleva.

Ⓤ Mai pensato di allenare all’estero?

Mi piacerebbe molto. Prima o poi lo farò. Potevo andare in Inghilterra qualche anno fa. Adesso mi piacerebbe andare in Germania. Forse perché mi assomigliano nell’organizzazione del lavoro. Spendo molto tempo per organizzare tutto.

Ⓤ Sempre con la stessa passione?

Sì. Sono un privilegiato.

 

Fotografie di Diego Mayon
L’intervista è apparsa sul numero 8 di Undici