Una preadolescenza senza cellulare è possibile. Lo so perché l’ho vissuta, a cavallo tra gli ultimi anni ‘90 e i primi 2000. Quando tutto finì, quando smisi di uscire di casa con il brivido di poter tornare in ritardo rispetto all’orario stabilito, perché si era aperto uno squarcio nella realtà che aveva mangiato il tempo o perché avevo trovato traffico di pedoni inanimati nei vicoli del centro, ricordo che la novità portò con sé parecchi paradossi logici. Ad esempio il fatto di iniziare una corrispondenza a distanza di sms con una ragazza di Salerno, che probabilmente non era neanche una vera ragazza ma qualche amico del mare buontempone a cui incautamente avevo lasciato il numero del cellulare, e che durante quelle poche telefonate, e di breve durata, mi passava qualche sua amica o cugina. Quantomeno, la voce femminile era sempre la stessa. Erano quelli i primi, artigianali, machiavellici, lodevolissimi tentativi di profili fake interattivi. Qualcosa che oggi meriterebbe di entrare nell’immaginario steampunk per la sola fatica di aver voluto immaginare la loro messa in pratica, in un periodo in cui la tecnologia non aiutava affatto.
Con la mia fiamma-telematica-al-buio lo scambio di messaggi durò poco più di una settimana, durante la quale fu inevitabile parlare di calcio, perché io sì che ci sapevo fare con le ragazze. Quando lei seppe qual era la mia squadra del cuore, mi disse che, a quanto le risultava, il più importante talento della sua neopromossa formazione di casa sarebbe passato a giocare insieme ai miei beniamini, l’anno successivo. Il suo nome era David Di Michele, e quella era la prima volta che prendevo coscienza attiva della sua esistenza, al di là di sporadiche menzioni carpite distrattamente all’ora delle altre di B.
Una rete di Di Michele con la maglia della Salernitana, a San Siro
Nel mondo reale invece, dove i fake non sono esperti di calciomercato, Di Michele rimase a Salerno ancora per un paio d’anni, ma nel frattempo avevo iniziato a conoscerlo meglio, a vederlo da vicino, grazie alla comparsata in Serie A e all’annata successiva in cui siglò 23 gol in Serie cadetta. Quello che di lì a qualche anno sarebbe diventato il Re David era una seconda punta atipica sul metro e settanta, come solo gli anni ‘80 e ‘90 avrebbero saputo produrne, prima dell’avvento dei falsi nueve. Scattante, sinistro potente, piedi educati ed eleganti, facilità di dribbling, bravo in acrobazia, non era uno da ultimo tocco ma faceva tanto movimento in cerca della porta. Per inciso, per essere uno che è andato in doppia cifra solo 5-6 volte in circa vent’anni di carriera, David puntava la rete come il falco faceva con la sua preda.
Quando fu evidente che Di Michele non sarebbe stato acquistato da nessuna squadra di A ma che sarebbe invece rimasto un altro anno a Salerno, rimasi stupito, deluso, ma d’altronde quella fu un’estate di spese pazze ed esotiche, di super campioni e di sette sorelle per lo Scudetto. Era l’estate di Crespo alla Lazio, Batistuta alla Roma e Trézéguet alla Juventus, erano gli anni di Shevchenko, Vieri, Chiesa e Inzaghi. In effetti a guardare la classifica cannonieri finale della stagione successiva sarebbe stato difficile trovare doppie cifre in provincia, avresti dovuto chiamarti Beppe Signori o essere un’anomalia straripante e meravigliosa come Dario Hubner. Non c’era ancora spazio per Di Michele nel calcio maggiore, e il fatto che io fossi contrario non cambiava la realtà delle cose. Nel retro del mio cervello, perciò, si piantò il seme di una convinzione, quella che Di Michele facesse parte di una categoria arbitraria di persone che avrei amato per tutta la vita, la cui manifestazione corporea e le cui gesta si compiono in un luogo, in un tempo e in un modo che non gli permetterà di incastrarsi perfettamente con la grandezza corrente. Persone giuste ma un attimo prima, o un attimo dopo, rispetto al momento giusto, e comunque in un luogo più in disparte.
L’estate ancora successiva fu quella in cui smetti di essere invisibile per le coetanee, e passi dai primi scherzi in acqua alle prime corse verso le docce del camping, quelle nascoste, spinti sia tu che lei da un fragore di sensi che echeggiava dal corpo ancor prima di svelarsi acerbo, impacciato, ma sincero come la salsedine. Con buona pace degli sms verso interlocutrici fittizie, s’intende. Quella fu l’estate in cui non si era ancora nemmeno abbastanza corrotti dall’urgenza tribale di raccontarlo agli amici, tanto più che il pallone non lasciava spazio né alle confidenze né alle vanterie. Le ragazze non erano mai state così belle, il calcio italiano era il migliore possibile, l’interesse verso la Premier League o la Liga era pari a quell’entusiasmo moderato verso gli spin-off della tua serie preferita. Una cosa più da nerd ortodossi che da corsia principale. Era l’estate delle grandi illusioni e delle poche preoccupazioni, era quella frazione di secondo del tuffo in cui sei sospeso a mezz’aria e ti godi gli sguardi ammirati degli altri, prima di sentirne la mancanza, prima dell’acqua e dello schiaffo, quello solo presagito da chi come me aveva avuto genitori troppo poco permissivi per andare in gita al G8 di Genova. In quell’estate di turbamento e conflitto David Di Michele ottenne finalmente la sua chance di passare al calcio maggiore. Aveva già 25 anni e non proveniva da un vivaio altisonante, era uno di quelli che Springsteen avrebbe definito bound to provincia. A Udine persi le sue tracce, 25 presenze in campionato e 5 reti fecero di lui uno di quelli a rotazione nella squadra titolare ma non un protagonista. Avrei fatto in tempo a disaffezionarmi, com’è facile farlo solo a quell’età, se l’anno successivo – il 2002 – non me lo fossi ritrovato in casa. In realtà dovrei dire a due ore di automobile da casa, ma in quegli anni il mio cuore copriva quelle distanze ogni domenica.
Ora, sarà l’iperbole nostalgica, ma mi pare che alla Reggina Di Michele abbia segnato solo gol belli. Lui stesso in passato ha parlato dei due anni calabresi come un periodo fantastico, al quale è molto legato. A Reggio è persino tornato per altre due stagioni dal 2013 al 2015, scendendo in Lega Pro prima della drammatica retrocessione in D. Alla base di questo amore reciproco c’è un discorso duplice da fare, che comprende una motivazione soggettiva, del tutto personale e sommaria, e una oggettiva. Per quanto riguarda la prima, se si guarda al tipo di giocatore che la Calabria ha regalato più spesso alla Serie A, vengono in mente gregari eccellenti, combattenti in ogni zona del campo (Gattuso, Perrotta, Iaquinta) o raffinati e compassati registi di centrocampo (Fiore, Cozza) eppure i semiprofessionisti, i dilettanti e gli amatoriali calabresi che ho visto giocare in ben dieci estati passate ai bordi di un campetto sterrato davanti al mare, sia che venissero da Vibo, Cosenza, Catanzaro o Reggio, avevano tutti in comune l’altezza non straordinaria, lo scatto propulsivo, la ricerca dell’acrobazia, del tiro al volo, l’abitudine a puntare l’uomo. Nessuno di loro avrebbe mai sfondato nel calcio che conta, ma d’altronde nessuno di loro aveva il talento reale di Di Michele, che incarnava alla perfezione, per il suo stile di gioco, la massima aspirazione calcistica di gran parte dei miei conterranei. Era il loro avatar nato a Guidonia.
La seconda motivazione sta nell’oggettività della partecipazione di Di Michele al doppio spareggio contro l’Atalanta, al termine della stagione 2002/2003. In palio c’era la permanenza in Serie A e quella, ad oggi, fu l’unica finale nazionale che la Reggina abbia mai raggiunto. Era Nord contro Sud, una lunga esperienza in A contro un’outsider alle prime armi. Era l’atto conclusivo di un’annata faticosa, ma i cui ultimi attimi offrivano una decisiva occasione di riscatto. Questo valeva sia per me che per la Reggina, ognuno per le sue ragioni, che fossero sportive o private.
Lo spareggio tra Atalanta e Reggina per la permanenza in Serie A
Ricordo che la scuola non era ancora finita, ma era come se lo fosse. Ricordo la sensazione di immotivata rilassatezza per aver completato tutte le interrogazioni di rito, e la fortuna di essere arrivato a meno di un mese dall’esame di maturità con la stima di professori pacifici, amanti del proprio lavoro, di quelli che oggi definiresti amici degli studenti. Nessuna pressione, ci ripetevano, vi conosciamo da anni, preparatevi piuttosto per quello che verrà dopo. Per quello che verrà dopo ci sarebbe voluta una madeleine sul Grande Torino, ma non avrò occasione di dirglielo. Lo spareggio tra Reggina e Atalanta, invece, fu lo zenith dell’adolescenza. Avrei lasciato la mia terra a settembre, e sarei partito per un viaggio dal quale non sono ancora tornato. Non c’era niente di più facile che tifare per la squadra di casa.
Far parte di quella Reggina vittoriosa in terra celtica, esserne una delle punte di diamante a dispetto del fatto di non aver segnato nella partita di Bergamo, ti fa scalare comunque di diritto l’Olimpo di un tifoso. D’altro canto credo anche che vivere una gioia così grande insieme al tuo pubblico non possa non lasciare alcuna traccia, dal punto di vista di un calciatore. Quella squadra aveva in assoluto la rosa più competitiva mai vista in riva allo stretto: Belardi o Castellazzi in porta; Diana, Jiranek, Cirillo, Franceschini, Torrisi, Falsini, Mozart, Paredes, Mesto, Leòn, Nakamura, Cozza, Bonazzoli, Bogdani, Savoldi. E Di Michele. La stagione successiva fu quindi per lui la consacrazione di quell’amore reciproco, prima di cambiare altre cinque maglie nei dieci anni successivi.
Da universitario l’ho visto parare un rigore a Udine, dopo aver infilato i guanti da portiere, fare meraviglie in tridente con Iaquinta e Di Natale, sotto la guida di Spalletti, fino a conquistare il preliminare di Champions. L’ho visto esordire in Nazionale a 29 anni e sfiorare una rete in rovesciata all’esordio, l’ho visto al Torino caro al mio cuore e persino con la maglia del West Ham. Gli ho visto fare una grandissima stagione a Lecce, per quanto sfortunata, a 36 anni suonati. Nel frattempo gli anni passavano e io mi laureavo, e cambiavo case, amici, relazioni, lavori, mi perdevo fino a ritrovarmi, e poi mi perdevo ancora.
Quando pensi a uno che ha cambiato dieci maglie in vent’anni pensi a un’anima in pena, a uno che non trova pace, a un inconsolabile. Lo pensi perché non hai mai visto il sorriso di Di Michele dopo un gol, qualsiasi maglia portasse, non hai notato la sua corsetta sorniona in retromarcia, l’espressione divertita e un po’ spavalda di chi prima di tirare sapeva già che sarebbe andata dentro. Quella condizione di irrequietezza giocosa che si esauriva nel momento del gol, e poi ricominciava in attesa del prossimo. Ed è proprio lì che gli ho voluto sempre bene, nella perenne ricerca di una dimensione per chi non è abbastanza grande per essere riconosciuto come tale, eppure lo è troppo per passare inosservato.